Quando nel 1958 Hannah Arendt dà alle stampe la sua biografia di Rahel Varnha- gen12, sono passati più di vent'anni dalla prima stesura del manoscritto, che, a par-
te gli ultimi due capitoli, era già ultimato nel 1933, se non addirittura nel 1932. «Ho scritto poi la conclusione, già in polemica con le mie pagine precedenti, nell'estate del 1938, e anche con una certa irritazione poiché Heinrich [Blücher]13 e [Walter]
Benjamin non mi lasciavano in pace»14. E nella prefazione, datata appunto autunno
1958, non nasconde un certo disagio nel congedarsi da quel testo che ormai sente per molti versi estraneo: «È sempre penoso quando un autore parla del proprio li- bro, anche se il momento in cui è stato concepito è lontano almeno la metà di una vita umana»15.
Abbandonata la Germania nel 1933, Arendt non ha più potuto consultare il ricco materiale dell'Archivio Varnhagen, disperso durante la guerra, il che ha ridotto al minimo le possibilità di rendere il volume «filologicamente accettabile»16, allestendo
l‟apparato documentario che aveva in mente. Oltre a questo aspetto prettamente tecnico, l‟autrice sente l‟opera ormai estranea in alcune sue parti «soprattutto nel tono e nel tipo di riflessione»17. Ha lavorato alla biografia con l‟intenzione di com-
prendere: «non che vi esaminassi specificamente i miei problemi personali di ebrea, ma ora [primi anni „30] l'appartenenza all'ebraismo era diventata anche per me un problema, e questo problema era un problema politico18: puramente politico!»19. Il
10 Arendt ritiene che i problemi femminili debbano far parte di una lotta politica più ampia, e su que-
sto punto non cambierà mai opinione, continuando a sostenere che le donne debbano perseguire o- biettivi politici concreti (come ad esempio una legislazione per una pari possibilità d'impiego), che sia- no coordinati con gli obiettivi di altri gruppi politici. Nella sua critica al movimento delle donne, si può già intravedere la distinzione che farà più tardi tra questioni sociali e questioni politiche. È su queste ultime, sostiene, che si deve concentrare l'azione. Cfr. anche H. Arendt, 1959.
11 H. Arendt, 1944w; trad. it. p. 55. 12 H. Arendt, 1958b.
13 Il suo secondo marito.
14 H. Arendt a K. Jaspers, lettera del 7 settembre 1952, in H. Arendt, 1985; trad. it. pp. 114-15. 15 H. Arendt, 1958b; trad. it. p. 5.
16 Ivi, p. 8.
17 H. Arendt a K. Jaspers, lettera del 7 settembre 1952, cit., p. 115.
18 Sul tema dell‟appartenenza all‟ebraismo come problema politico, e più precisamente sulla questione
della necessità di legittimarsi, è interessante ricordare il passaggio di una lettera scritta da Arendt a Blücher nel 1936 dove, non a caso, ella si lega nella memoria a Rahel: «In fin dei conti la domanda è questa: posso sedermi sul terzo seggio che tu mi hai offerto così generosamente? Niente e nessuno mi dà il diritto di farlo. E se la mia più cara amica, anche se purtroppo è morta cento anni fa, una volta ha detto: “per questo è così terribile essere ebrea, perché bisogna sempre legittimarsi” – allora io sono dell'opinione che non ci si possa e non ci si debba mai legittimare. La legittimazione la fanno sempre
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testo ha preso forma sotto l‟influsso della critica sionista all'assimilazione20 («avevo
fatta mia quella critica, e ancora oggi [1952] la ritengo essenzialmente giustificata. Solo che questa critica è, dal punto di vista politico, altrettanto inconsapevole delle sue conseguenze quanto lo era la tendenza che essa criticava»21), ed è stato scritto
«con la coscienza della fine dell'ebraismo tedesco (naturalmente senza l'idea della misura che avrebbe assunto l'annientamento fisico del popolo ebraico in Europa)»22.
Riprendendo in mano quelle pagine, le vede ormai inadeguate, poiché col passare degli anni ha appreso che «il fenomeno propriamente totalitario, ma già anche il ve- ro e proprio antisemitismo politico, hanno poco a che fare con tutto questo. Io non lo sapevo, quando scrissi il libro»23. Di conseguenza, non avendo avuto la distanza
necessaria per osservare il fenomeno nella sua totalità, del quadro più vasto della storia degli ebrei tedeschi ha trattato soltanto un aspetto dei problemi dell'assimila- zione, cioè il modo in cui l'assimilazione alla vita intellettuale e sociale dell'ambiente riuscisse a manifestarsi concretamente nella storia di una vita, diventando così de- stino personale («“Ognuno ha un destino, ognuno che sappia quale destino ha”»24 –
scrive Rahel). Sa bene che il lettore ne ricava l'impressione che «un essere umano, in quanto ebreo, non possa vivere una vita normale»25; ed in effetti questo è un a-
spetto centrale della sua trattazione:
«Sono ancora oggi [1952] dell'opinione che gli ebrei, in condizioni di assimila- zione sociale e di emancipazione statale, non potessero “vivere”. La vita di Ra- hel mi sembra dimostrarlo, proprio perché ella, con straordinaria irriguardo- sità e senza mai ombra di falsità, applicava a se stessa qualsiasi esperien- za»26.
Ecco allora che se quel libro le è ancora familiare in qualcosa, lo è «nelle caratteri- stiche dell'esperienza ebraica, che io ho inculcato in me stessa con fatica e perico- lo»27.
L'intenzione di Arendt di non presumere di sapere più di quanto Rahel stessa sa- pesse, nonché di affrontare solo le questioni essenziali ai fatti della biografia, senza nessun tipo di considerazione di ordine generale o psicologico, influisce profonda- mente sulla struttura stessa del libro che, privo di un ordine cronologico o tematico, appare essenzialmente discontinuo. In una serrata alternanza di citazioni né intro- dotte né annotate, Arendt inserisce il suo pensiero cercando di «raccontare la storia della vita di Rahel così come l'avrebbe potuta raccontare lei stessa»28. Questa affer-
mazione è ben più significativa di quanto sembri. In primis, Arendt vuole ribattere preventivamente alle obiezioni che, già prevede, le verranno mosse circa la sua pro- spettiva critica su Rahel – che non è però una critica gratuita e arbitraria, ma corri- sponde piuttosto all‟autocritica di Rahel. Non a caso, la biografia si presenta fin dall'inizio come un lungo flash-back, nel quale la durezza dei toni esprime il rim- provero che, in fin di vita, Rahel avrebbe rivolto a se stessa:
gli altri. E non degli altri qualsiasi, che so, i Cinesi, ma gli altri con cui si vive nello stesso spazio stori- co. E questi altri non hanno voluto. E, per di più, nel mio caso hanno fatto anche lo sforzo di farmelo capire chiaramente di persona». H. Arendt a H. Blücher, lettera del 12 agosto 1936, in Arendt, 1996a; ed. inglese p. 10 (traduzione mia).
19 H. Arendt, 1965a; trad. it. p. 47.
20 È proprio per questa ragione che nelle pagine seguenti lo esamineremo con cura. 21 H. Arendt a K. Jaspers, lettera del 7 settembre 1952, cit., p. 115.
22 H. Arendt, 1958b, cit., p. 7.
23 H. Arendt a K. Jaspers, lettera del 7 settembre 1952, cit., p. 115. 24 H. Arendt, 1958b, cit., p. 6.
25 K. Jaspers a H. Arendt, lettera del 23 agosto 1952, in H. Arendt, 1985; trad. it. p. 112. 26 H. Arendt a K. Jaspers, lettera del 7 settembre 1952, cit., p. 116.
27 Ivi, pp. 115-16.
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«Che storia! – Sono una profuga dall'Egitto e dalla Palestina e trovo qui aiuto, amore e cura da parte vostra! Con entusiasmo sublime penso a questa mia origine e alla trama del destino in cui si uniscono le più lontane distanze di spazio e di tempo: le più antiche memorie del genere umano, allo stato più re- cente delle cose. Quello che, per tanto tempo della mia vita, è stato l'onta più grande, il più crudo dolore e l'infelicità, essere nata ebrea, non vorrei mi man- casse ora a nessun costo»29.
Le sembra poi una precisazione importante perché teme i fraintendimenti che il suo lavoro potrebbe suscitare, venendo pubblicato dopo la Shoah: «Non ho affatto paura degli antisemiti; essi comunque utilizzano tutto ciò che possono […]. Temo però che persone bene intenzionate vedranno tra questi fatti e lo sterminio degli ebrei una connessione che de facto non sussiste»30. E ancora, le preme dare rilievo al suo vivo
interesse per la coscienza storica di Rahel, nonché ai suoi sforzi per presentarla come un fenomeno storico e culturale. Il sottotitolo della versione originale del vo- lume, infatti, è Lebensgeschichte einer deutschen Juedin aus der Romantik [Storia della vita di un’ebrea tedesca dell’epoca romantica]. Al contrario, la traduzione in- glese The Life of a Jewish Woman [La vita di una donna ebrea] – autorizzata da A- rendt per il pubblico anglo-americano e mantenuta nell‟edizione italiana, Storia di una ebrea – è decisamente fuorviante: Arendt non racconta la vita di una donna e- brea; narra invece gli sforzi di una donna ebrea tedesca per conservare la sua parti- colare spontaneità e il significato storico, politico e culturale del vivere la storia del- la sua vita.