L‟analisi che Arendt fa della politica ebraica è certo un ottimo contesto per vedere l‟intreccio che i concetti di nazionalità, stato nazione, cittadinanza e politica hanno nel suo pensiero58. Non solo: come già detto nell‟introduzione, l'analisi arendtiana
del problema ebraico è tanto cruciale nella e per la sua opera perché già negli anni Quaranta le consente di elaborare e mettere man mano alla prova le sue concezioni relative all'autonomia e al primato dell'agire politico – concezioni non ancora espo- ste teoreticamente perché appunto in formazione – in un caso storico-politico con- creto. È proprio nei testi in cui ella non fa ancora teoria filosofico-politica, ma si oc- cupa del problema ebraico e del sionismo, che è possibile rintracciare le origini, di- ciamo il primo comparire della dialettica politico/impolitico, binomio che sottende a tutte le riflessioni mature della pensatrice, delle quali abbiamo proposto un sunto breve ma mirato nel paragrafo precedente59. Detto altrimenti: abbiamo già visto co-
me nella sua produzione maggiore Arendt pensi il senso del „politico‟ contrapposto a quelle logiche della modernità che per lei si configurano invece come impolitiche; quel che ci proponiamo di fare ora è mettere in luce la genesi di tali concetti, mo- strare cioè come essi siano già operativi nelle analisi del sionismo60.
Dal 1933 al 1943 Hannah Arendt aderisce al sionismo, e lo fa per ragioni di pratica politica: perché in quegli anni, a suo avviso, esso rappresenta l‟unica opportunità per difendersi in quanto ebrei; perché lo considera l'unica risposta politica che gli ebrei abbiano saputo trovare all‟antisemitismo e, insieme, l'unica loro ideologia che
55 Arendt ripensa qui la questione della fondazione mettendo direttamente a confronto „modello‟ roma-
no e „modello‟ agostiniano: mentre infatti quella di Roma e già sempre una ri-fondazione che trova il proprio senso solo nelle narrazioni leggendarie, quella rivoluzionaria è una fondazione che si presenta nella presenza assoluta dell‟atto immanente. Non è, insomma, velata in un passato mitico e originario come quella romana narrata da Virgilio, per cui Roma non sarebbe che la ri-fondazione di Troia. L‟inizio agostiniano inteso come spontaneità assoluta è in grado di risolvere l‟impasse della fondazione politica ponendo l‟autolegittimità dell‟agire come inizio. L‟azione è in grado di legittimare la costituzione di un‟istituzione politica senza ricorrere a criteri assoluti o a leggende, ma solo in base alla propria e- sperienza „attuale‟? La questione è aperta.
56 «[I padri fondatori] cercavano un paradigma per una forma di governo nuova, valida nella loro epoca
"illuminata" e quasi non si accorgevano che in realtà stavano guardando indietro. Più sconcertante, credo, del loro frugare gli archivi dell'antichità è l'assenza di ogni ribellione contro di essa quando sco- prirono che la risposta finale e certo profondamente romana della "prudenza antica" era che la salvez- za viene sempre dal passato, che gli antenati erano i maiores, i "più grandi" per definizione. Non meno sorprendente è che l'idea secondo cui il futuro - e precisamente un futuro gravido di salvezza finale - può riportare agli uomini una sorta di aurorale Età dell'Oro dovesse divenire popolare in un'epoca in cui il Progresso era giunto ad affermarsi come il concetto dominante per spiegare il movimento della Storia». H. Arendt, 1978b, cit., p. 544.
57 Ivi, p. 545.
58 Sulla rilevanza politica e culturale del problema ebraico nel pensiero di Hannah Arendt si vedano S.
Dossa, 1986 e D. Barnouw, 1990.
59 La scelta di concludere il lavoro adottando questo strumento interpretativo si spiega con
l‟importanza di tale dialettica nel pensiero maturo di Arendt – per i motivi già ricordati: è una pensatri- ce politica, e il suo scopo è quello di ripensare le condizioni e il significato della politica contro certe forme degenerate della stessa.
60 In altre parole, negli scritti degli anni Quaranta sono già in nuce la sua idea di politica e il suo rifiuto
di certe concezioni di politica che si rovesciano in strumenti di oppressione (ad esempio della minoran- za araba).
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abbia preso sul serio quell'ostilità che li avrebbe spinti al centro degli avvenimenti mondiali61; perché è convinta che esso sia il primo tentativo di trasformare la que-
stione ebraica da una faccenda privata e sociale in una politica e pubblica62. A fron-
te di questi importanti riconoscimenti, le critiche che ella muove al movimento sio- nista sono molte e pesanti63, tutte però ruotano attorno ad uno stesso concetto:
quello di „impoliticità‟.
In Zionism reconsidered, a proposito dei sionisti socialisti scrive:
61 Cfr. H. Arendt, 1951a, cit., p. 168.
62 La rigida opposizione pubblico-privato che Arendt propone in Vita activa le serve per spiegare il „so-
ciale‟ – il tratto distintivo dell‟epoca moderna. Considerando la società come «la forma in cui solo il fat- to della mutua dipendenza in nome della vita (e solo di questa) assume un significato pubblico e in cui si consente che appaiano in pubblico le attività connesse con la mera sopravvivenza» (H. Arendt, 1958a, cit.; trad. it. p. 35), come «la sfera strana e ibrida, a metà strada tra il privato e il politico, in cui sin dall'alba dell'era moderna la maggior parte degli uomini ha passato gran parte della propria vita. Ogni volta che lasciamo le quattro mura protettive di casa nostra e varchiamo la soglia del mondo pubblico, entriamo nella sfera sociale prima ancora che nel regno politico dell'eguaglianza. Ci entriamo per guadagnarci da vivere, o per realizzare la nostra vocazione, o perché stuzzicati semplicemente dal piacere della compagnia. E una volta che ci siamo entrati, rispondiamo subito al vecchio adagio "il si- mile attira il simile" che governa l'intero spazio sociale» (H. Arendt, 1959; trad. it. pp. 176-77), ella pensa alla lotta politica separata da quella sociale e/o individuale, e la domanda che si pone fin dagli anni Trenta è: come agire politicamente in un mondo che ti rifiuta socialmente? Ora, Arendt è ben consapevole del fatto che la società abbia «scoperto che la discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue» (H. Arendt, 1943a; trad. it. p. 31), e non esita a re- gistrare la drammaticità della discriminazione sociale: «gli ebrei sono uomini e non attori professionisti che devono continuamente cambiare identità per essere felici. E solo in condizioni inumane gli uomini tentano di cambiare il colore della pelle o la forma del naso o il numero di lettere del proprio nome. Se li si lascia in pace non pensano affatto di rubare il mestiere al buon Dio». H. Arendt, 1942p; trad. it. p. 59. Proprio per questo – perché è convinta che, «sul piano psicologico, la situazione dell'essere non vo- luti (un problema tipicamente sociale) [sia] più difficile da gestire della schietta persecuzione (un pro- blema politico) poiché in gioco c'è l'orgoglio personale. Per orgoglio non intendo affatto l'"orgoglio di es- sere neri", o ebrei, o bianchi anglosassoni ecc, ma quel sentimento innato e naturale di identità con ciò che mi capita di essere sin dalla nascita. Questo orgoglio, completamente estraneo ai complessi di in- feriorità o superiorità, è indispensabile per l'integrità della persona e può sempre venir meno, non a causa di persecuzioni, ma a forza di gomitate, che ci spingono fuori da un gruppo e dentro a un altro» (H. Arendt, 1959, cit., p. 167) – non si stanca di criticare l‟assimilazionismo, e tanto agli ebrei negli anni Trenta e Quaranta quanto ai neri alla fine degli anni Cinquanta chiede di lottare per ottenere i diritti umani, politici e civili (ma anche sociali e privati), invece di ostinarsi a perseguire (individual- mente o collettivamente) l‟accettazione e l‟integrazione sociale. È interessante notare che, come a pro- posito degli ebrei Arendt distingue nettamente l‟antisemitismo sociale da quello politico (cfr. H. Arendt, 1942r; trad. it. p. 71), che si concretizza nelle leggi razziali e nella persecuzione che ne consegue, e so- stiene che sia contro di esse che ci si deve battere, dal momento che solo il diritto e le leggi possono assicurare continuità nella sfera della convivenza umana e tutelare altresì lo spazio nel quale diviene possibile il libero agire politico, riflettendo sui neri (quasi vent‟anni dopo) scrive: «non la discriminazio- ne e la segregazione razziale, ma le leggi razziste perpetuano il crimine che sin dall'origine macchia la storia di questo Paese» (H. Arendt, 1959, cit., p. 170), e chiede di lottare per abolirle ed ottenere l‟eguaglianza di fronte alla legge. Agli occhi di Arendt, tanto il problema ebraico quanto quello dei neri è risolvibile solo all‟interno di una cornice politica: ecco perché critica con asprezza le manovre me- schine del «parvenu sociale» (H. Arendt, 1941c; trad. it. p. 14), i tentativi goffi e fallimentari dell‟arrampicatore sociale (H. Arendt, 1959, cit., p. 168).
Per completare il quadro dei parallelismi tra il modo in cui Arendt tratta il problema ebraico e quello dei neri, ricordiamo che come nel primo caso ella denuncia «la congiura del silenzio sul destino degli ebrei» (H. Arendt, 1942h; trad. it. p. 36), quella stessa «"congiura del silenzio" che con forti, troppo forti lamenti, copre la […] voce [di Betty] e la voce dei suoi pari» (H. Arendt, 1944o; trad. it. p. 116; cfr. in-
fra, capitolo quarto paragrafo 3), ovvero della resistenza ebraica, a proposito dei neri attacca i senatori
liberal dell‟Arkansas per il loro «silenzio assordante» (H. Arendt, 1959, cit., p. 174) sulla condotta ri- provevole del governatore Faubus*.
* Nel settembre 1957, nove ragazzi e bambini neri vengono iscritti dai genitori alla scuola media di Lit- tle Rock, Arkansas. Il governatore Orval Faubus ordina alla Guardia Nazionale di circondare la zona per impedire che i ragazzi neri possano entrare nell'edificio.
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«Stabilendosi in Palestina […] raggiunsero il loro obiettivo nazionale. Non ave- vano altre aspirazioni nazionali. Per quanto oggi questo possa sembrare as- surdo, essi non sospettavano minimamente l'insorgere di un conflitto nazio- nale con gli abitanti effettivi della terra promessa; essi non pensarono nem- meno all'esistenza degli arabi. Nulla meglio di questa ingenua dimenticanza, potrebbe provare il carattere totalmente impolitico del nuovo movimento»64.
L‟impoliticità è legata dunque in prima istanza al disinteresse per l‟altro, alla nega- zione della pluralità. Questo passo è una prima eco di quanto Arendt esprime poi più compiutamente in un appunto datato 1951 e intitolato “Il mito giudaico- cristiano della creazione e il concetto di politico”:
«Tutto è legato alla difficoltà di comprendere la pluralità specificamente uma- na. A differenza degli animali ("plura simul iussit existere"), gli uomini discen- dono da un uomo ("ex uno nomine") e questa origine da loro 1. la garanzia del- la somiglianza con Dio, poiché anche Dio è uno solo, e 2. la garanzia che i po- poli non degenerino o non abbiano bisogno di degenerare a razze. Nell'"ex uno
nomine", nel fatto che la pluralità sia secondaria, risiede la garanzia
dell'"umanità". Lo Stato, o la vita pubblica, si fonda sulla famiglia, ovvero su ciò che l'uomo, che esiste appunto (purtroppo?) al plurale (e che soltanto dopo essere stato cacciato dal paradiso e a causa del peccato originale è stato co- stretto alla pluralità!), ha in comune con l'animale. […] Lo Stato in quanto ci-
vitas terrena esiste per prendersi cura della nostra animalità in un modo che
sia il più degno possibile per l'uomo, per tutelare l'uomo proprio nel suo esse- re-animale, cioè nella sua pluralità. Per questo la civitas terrena, con tutto ciò che vi è connesso, vita pubblica, storia ecc, è il vero campo del peccato uma- no. Per questo la sfera del politico dev'essere, per il cristiano, la res aliena par
excellence. (Gli ebrei si sono sottratti a questa conseguenza soltanto diven-
tando, da una parte, impolitici come popolo di Dio e, dall'altra, sviluppando in quanto popolo di Dio una sciocca concezione di popolo; vale a dire che con l'imbroglio dell'elezione65 essi si sono liberati dall'imbarazzo della pluralità66
per rientrare nuovamente in un'unicità: il popolo ebraico diventa così l'imma- gine di Adamo, come Adamo era l'immagine di Dio. Questo è il significato poli- tico di qualsiasi teoria dell'elezione, che contiene già sempre il germe dell'as- sassinio, semplicemente perché è ostile alla pluralità)»67.
Un altro fattore di impoliticità è legato alla natura ideologica del movimento sioni- sta: sebbene i principi ideologici degli scritti di Herzl abbiano di fatto poca rilevanza sul piano pratico nei lunghi anni di stasi del sionismo, essi portano tuttavia a tra- scurare le questioni davvero importanti: ecco allora che «mai come in questo caso un atteggiamento fondamentalmente impolitico ha avuto conseguenze politiche»68.
L‟antisemitismo, ad esempio, non viene analizzato nei suoi fondamenti politici e contestualmente alla politica generale del tempo, e ciò determina un‟incomprensione e un travisamento della realtà, oltre a
«render superflua una conoscenza politica del ruolo avuto dalla plutocrazia ebraica nell'ambito degli Stati nazionali e degli effetti che questo ruolo aveva
64 H. Arendt, 1944w, cit., p. 55.
65 «Il fatto che ebrei che non credono più in maniera tradizionale al loro Dio continuino a considerarsi
in un modo o nell'altro „eletti‟ può significare soltanto che essi credono di essere per loro natura mi- gliori o più saggi o più ribelli o di essere il sale della terra. E questo non sarebbe nient'altro, gira e rigi- ra, che un tipo di superstizione della razza». H. Arendt, 1942j; trad. it. p. 44.
66 «Essendo indipendente dall'infra, [la pura fede] corrisponde all'amore, nel quale anche l‟infra viene
infranto, arso al contatto con il lampo. La fede e l'amore sono impolitici, o perché (nel pensiero ram- memorante) non conoscono l‟infra, oppure perché lo infrangono nel lampo». H. Arendt, 2002a; trad. it. p. 241 (l‟annotazione è del dicembre 1952).
67 Ivi, p. 67 (l‟appunto è datato aprile 1951). 68 H. Arendt, 1944w, cit., p. 62.
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provocato nella vita del popolo ebraico. La nuova definizione sionista, secondo la quale una nazione era un gruppo di persone tenute insieme da un comune nemico, rafforzava negli ebrei la generica sensazione di essere “tutti sulla stessa barca” – sensazione che, semplicemente, non corrispondeva alla real- tà»69.
E questa sensazione sbagliata fa tutt‟uno con la tendenza di un popolo che non ha fatto la storia ma l‟ha subita a vedersi come la vittima di eventi insensati, insoppor- tabili e disumani70. A fondamento di tale percezione di sé vi è il principio che dice:
«non si può fare una frittata senza rompere le uova. […] Esso considera la vita poli- tica da una prospettiva storica e in quanto tale è impolitico. Introduce in politica l‟idea della vittima, idea che le è essenzialmente estranea71»72, non da ultimo in ra-
gione del fatto che annulla la responsabilità. Per Arendt, il vittimismo attiene alla sfera dei sentimenti e pertanto è impolitico, come lo sono la pietà73, da un lato, e la
riconoscenza e la sottomissione che pervadono quanti dipendono dalla pazienza e dalla benevolenza altrui, dall‟altro74.
L‟atteggiamento essenzialmente impolitico del movimento sionista determina anche la collocazione che la sua filosofia assegna alla Palestina75: essa viene concepita
come l‟unico luogo in grado di garantire agli ebrei la salvezza dall‟odio, che si pre- sume non possa essere diretto contro quella parte di ebrei che, provenienti da tutti i paesi del mondo, si siano costituiti in nazione.
L'impoliticità è dunque tutta connessa al tema della nazione e del nazionalismo76.
Perché Arendt giudica "impolitico" il progetto nazionale degli ebrei? Che cosa na-
69 Ivi, p. 64.
70 Cfr. H. Arendt, 2007d; ed. inglese p. 241.
71 «Nessun'etica politica può basarsi sull'assunto che gli ebrei abbiano il monopolio del ruolo di vitti-
ma. Quella di "vittima" è una categoria piuttosto instabile e può, a distanza di pochi minuti, essere at- tribuita sia agli ebrei trucidati sugli autobus dai kamikaze che al bambino palestinese trucidato dal fuoco israeliano». J. Butler, 2004; trad. it. p. 128.
72 H. Arendt, 2002a, cit., pp. 15-6 (l‟annotazione è datata 1950). L‟appunto precedente completa il di-
scorso: «Chi abbia stabilito una volta per tutte: non si può fare una frittata senza rompere le uova, non è più raggiungibile dai suoi amici, poiché ha già deciso di non averne più, li ha già sacrificati tutti. So- no soltanto uova». Ivi, p. 15.
73 Sull‟impoliticità della pietà cfr. H. Arendt, 1943d; trad. it. p. 84. In On Revolution, a proposito della
rivoluzione francese scrive che la pietà è la «perversione della compassione» (H. Arendt, 1963e; trad. it. p. 94): non è più il protendersi verso l'altro, ma «quell'impulso imperioso che ci attrae verso “les hom-
mes faibles", [l']"immensa classe dei poveri"». Ivi, p. 79. La pietà è smisurata, esattamente come la mi-
seria che la suscita. In un moto del genere la singolarità umana è abolita; nulla regge il confronto con questo oceano di sofferenza: le leggi sembrano una beffa, e l'attore politico – col cuore oppresso da tan- ta immensità – non è più in grado di riconoscere il singolo. Da una parte, l'attrazione per gli hommes
faibles comporta la spersonalizzazione e l'inglobamento dei poveri in «un'entità astratta, un'unica u-
manità sofferente». Ivi, p. 90) Dall'altra, l'attore politico non riconosce più l'individualità dei compagni: «l'oceano della sofferenza […] e il mare turbolento delle emozioni […] sommergevano ogni considerazio- ne specifica, le considerazioni dell'amicizia». Ivi, p. 95. I rivoluzionari animati da zèle compatissant di- vengono «stranamente insensibili alla realtà in generale, e alla realtà delle singole persone in particola- re, tanto che nulla li tratteneva dal rinunziare ai loro "princìpi"». Ivi, pp. 95-6.
74 Per Arendt sono impolitiche quelle relazioni che impediscono il riconoscimento di reciproca ugua-
glianza e parità tra le parti che sta alla base della solidarietà. Si tratta del resto di sentimenti che, in quanto tali, attengono al „privato. e non alla sfera pubblica.
75 Cfr. H. Arendt, 1944w, cit., p. 64. Per un‟analisi critica dell‟ideologia che ha creato il moderno Stato
di Israele si veda J. Rose, 2005.
76 In un paragrafo intitolato significativamente Il diritto sulla terra: il potere della storia, Zeev Sternhell
sottolinea il fatto che il nazionalismo organico di Aharon David Gordon (1856-1922), uno dei padri del socialismo nazionale e principale teorico del nazionalismo ebraico in Palestina nei primi due decenni del Novecento, corrisponde agli insegnamenti del nazionalismo tribale europeo. Il pensiero di Gordon domina l'ideologia del movimento laburista, ed è questa concezione dei fondatori del movimento labu- rista a determinare lo sviluppo dello Stato di Israele. È interessante seguire Sternhell nella sua rico- struzione del pensiero di Gordon, un pensiero che si sviluppa «non solo secondo la sua logica interna,
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sconde il nazionalismo di „impolitico‟? Una connivenza troppo stretta con le degene- razioni nazionalistiche dello stato nazione moderno che hanno condotto alle prati- che escludenti ed oppressive del totalitarismo. In un articolo del 1946, Arendt pro- pone un‟ottima sintesi del percorso Popolo / nazione / Stato / Stato nazionale / na- zionalismo / sovranità nazionale / totalitarismo che vale la pena rileggere:
«Un popolo diventa una nazione quando "prende coscienza di sé alla luce del- la propria storia"; come tale ha un legame col suolo natìo che è il prodotto del lavoro passato ed è il luogo in cui la storia ha lasciato le sue tracce. Esso è l'”ambiente" in cui l'uomo nasce, una società chiusa a cui si appartiene per diritto di nascita. Lo stato, viceversa, è una società aperta, che regna su un territorio in cui il suo potere garantisce e produce la legge. In quanto istitu- zione fondata sulla legge, lo stato conosce solo cittadini e prescinde dalla na- zionalità; il suo ordine legale si estende a tutti coloro che si trovano a vivere sul suo territorio. In quanto istituzione dotata di potere, lo stato può rivendi- care più territorio e diventare aggressivo, un atteggiamento che è del tutto e- straneo all'organismo nazionale che, al contrario, ha posto fine alle migrazio- ni. […] Nazionalismo significa essenzialmente la conquista dello stato da parte della nazione; è questo il senso profondo dello stato nazionale. L'esito dell'i- dentificazione ottocentesca tra stato e nazione è duplice: mentre lo stato in quanto istituzione fondata sulla legge dichiara che il suo dovere è di difendere i diritti umani, la sua identificazione con la nazione comporta l'identificazione tra cittadino e membro della nazione e sfocia quindi nella confusione tra dirit- ti dell'uomo e diritti dei membri della nazione o diritti nazionali. Inoltre, poi- ché lo stato è un'"impresa fondata sul potere", è aggressivo e incline all'e-
ma anche in risposta a necessità storiche». Z. Sternhell, 1996; trad. it. p. 101. Nel 1909 Gordon fa di- pendere il possesso del Paese dal suo riscatto attraverso il lavoro; il lavoro, tuttavia, è un requisito sì indispensabile, ma di per sé non sufficiente per tale possesso (visto ancora come parziale e suddiviso