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La drammaturgia dell'opera enfatizza la tendenza, già presente nelle tragedie di Seneca (in misura differente per ognuna), a elaborare le singole scene in modo autonomo, con riferimento a differenti modelli per ciascuna, a scapito della coerenza drammatica dell'opera; questa caratteristica è indice del mutamento di destinazione del genere tragico, dalla vera e propria rappresentazione teatrale alla recitatio: se per le tragedie di Seneca è tuttora in discussione la 'rappresentabilità'214, nel caso dell'Hercules Oetaeus ci sono più significativi indizi che inducono a ritenere che non sia stato concepito per la rappresentazione scenica, quali la prolissità delle battute dei personaggi e il disinteresse per la logistica dell'azione scenica (in particolare non è ben definibile la collocazione del primo atto o prologo: cfr. la n. ai vv. 102-103). Il dramma costituisce quindi un'importante testimonianza dell'evoluzione della tragedia romana di età imperiale.

A livello di struttura generale, si nota la tendenza a elaborare le singole scene come pezzi retorici a se stanti, che fanno riferimento ciascuno a propri modelli specifici, con il risultato di una scarsa coesione drammatica. Questo emerge con chiarezza se si confronta il comportamento di Deianira negli atti II e III: nonostante la vicenda mitica preveda che Deianira si suicidi per aver involontariamente provocato la morte di Ercole (ed è quanto per l'appunto avviene nell'atto III), nell'atto II è inserito un lungo dialogo tra Deianira e la Nutrice nel quale l'eroina esprime l'intenzione di uccidere di propria mano Ercole: in questa fase, infatti, la sua caratterizzazione come gelosa coniunx, furente per il fatto che è giunta nella sua casa la nuova concubina del marito, è ricalcata sui personaggi senecani di Clitemnestra e Medea, che per vendetta per il tradimento del coniuge uccidono questo e/o la rivale. Viene colta così l'occasione per inserire una scena eroina-Nutrice di impronta tipicamente senecana, con la prima che, in preda all'ira, manifesta propositi omicidi, mentre la seconda cerca di riportarla alla ragione.

Anche nell'atto III la sezione successiva al racconto di Illo è sceneggiata in modo differente rispetto alle Trachinie di Sofocle. Nel modello greco Deianira, dopo aver appreso da Illo l'effetto che la veste ha avuto su Ercole, rientra in casa, per suicidarsi, senza pronunciare una parola; il figlio, quindi, non sa che le intenzioni della madre erano innocenti e per questo il commento alla sua uscita di scena è di crudele condanna (Trach. 815-820); dopo lo stasimo corale giunge la Nutrice che racconta con dovizia di particolari la morte di Deianira. Il corrispondente passaggio dell'HO è sceneggiato in modo completamente diverso: Deianira rivela al figlio l'inganno di Nesso, di cui ella stessa è vittima (vv. 964-967), e proclama l'intento di togliersi la vita, argomentandolo ampiamente (vv. 842-1024); Illo pertanto è consapevole dell'innocenza della madre (vv. 982-983) ed esce di scena subito dopo di lei, esprimendo proprio l'intenzione di salvarla dall'atto estremo che sta per compiere (vv. 1024-1030); bisogna poi aspettare il rientro in scena di Illo perché venga fornita l'informazione che Deianira è morta (vv. 1419- 1426), ma senza ulteriori dettagli. L'intento sotteso a questa differente sceneggiatura è evidente: l'A. si ritaglia un ulteriore segmento drammatico (oltre a quello dell'atto II) in cui inserire un dialogo retorico Deianira-Nutrice, in cui la prima, in preda all'emotività,

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Le posizioni degli studiosi in merito alla questione variano tra due estremi: da una parte la negazione della rappresentabilità in favore della recitazione (ZWIERLEIN 1966), dall'altra una decisa affermazione del carattere 'teatrale' dei drammi di Seneca (SUTTON 1986). Per un'equilibrata trattazione sintetica della questione cfr. in part. l'articolo Fitch in HARRISON 2000, pp. 1-19.

esprime l'intento di suicidarsi, mentre la seconda cerca di dissuaderla con argomenti razionali, dialogo che viene per di più ampliato con l'intervento di Illo, che svolge qui la stessa funzione della Nutrice. Tralasciando il giudizio estetico sull'esito della scelta letteraria, si può osservare come questa resa drammaturgica sia molto meno realistica ed efficace di quella sofoclea: nonostante ben due personaggi (la Nutrice e Illo) siano consapevoli che Deianira sta andando a uccidersi, nessuno riesce a fermarla. Si confronti per contrasto il modo in cui Seneca ha rappresentato i suicidi di Fedra e di Giocasta: entrambe enunciano l'intento di uccidersi per il rimorso e la vergogna e lo fanno immediatamente in scena, al termine della propria battuta (Phae. 1159-1201; Oed. 1024-1039), senza che nessuno abbia la possibilità di intervenire. Anche in questo caso, dunque, le esigenze 'retoriche' prendono il sopravvento su quelle drammaturgiche.

La medesima tendenza impronta anche la composizione delle singole sezioni del dialogo, ciascuna delle quali è espansa tramite il ricorso a modelli distinti. Conseguenza di questo amalgama di una pluralità di fonti è il fatto che i temi trattati sono a volte in contraddizione l'uno con l'altro. Per esempio colpisce l'accostamento di due descrizioni opposte di Ercole in bocca a Deianira: in un momento di abbandono ai dolci ricordi del passato, la donna tesse un elogio del marito in veste eroica, come compagno ideale che tutte le donne le invidiano (vv. 397-406), ispirato dalle parole rivolte da Megara a Lico nell'HF e, in parte, a Ov. Her. IX, ma subito dopo (vv. 410 ss.) delinea un ritratto opposto di Ercole, in chiave antieroica, come vanesio donnaiolo che va in giro per il mondo unicamente a caccia di avventure erotiche, ricalcato sulla descrizione data da Clitemnestra di Agamennone (che a Troia non si cura della guerra ma pensa solo a portare via le donne agli altri). Il mutamento di prospettiva si dovrebbe giustificare con un'alterazione dello stato d'animo, ma nel testo non è segnalato alcun passaggio psicologico tra il v. 407 e il v. 410.

Ancor più significativa, da questo punto di vista, è la sezione dedicata alla magia (vv. 452 ss.). L'A. aveva il problema di introdurre il momento drammatico in cui Deianira decide di ricorrere al presunto filtro d'amore donatole da Nesso per riconquistare l'amore del marito, passaggio non facile dopo che la donna aveva meditato per duecento versi di ucciderlo. Attribuisce allora alla Nutrice la proposta di ricorrere alla magia per instillare l'amore in Ercole (su modello della Nutrice di Fedra nell'Ippolito di Euripide). L'intervento della Nutrice ha solo la funzione di far venire in mente a Deianira la possibilità di servirsi del filtro di Nesso e la sua identità di maga è del tutto inessenziale per lo sviluppo dell'azione drammatica: nel preparare la veste letale non occorrono riti magici, in quanto il 'principio attivo' è nel sangue di Nesso contaminato dal veleno dell'Idra. Il tema della magia è assente nelle altre rielaborazioni letterarie del mito, mentre è qui enfatizzato per analogia con la situazione della Medea: in entrambi i casi, infatti, il risultato è quello di preparare una veste mortale, intrisa di veleno. Nell'HO è la Nutrice – non Deianira come in Sofocle – che intinge la veste nel sangue di Nesso e pertanto le sono attribuiti gli stessi poteri magici posseduti da Medea, con una evidente forzatura del carattere e della funzione drammatica del personaggio.

Da questi esempi emerge il fatto che l'attenzione dell'Autore è dedicata alla riuscita dell'effetto retorico del singolo passaggio piuttosto che alla coerenza dell'insieme complessivo. Si riscontrano tuttavia all'interno dell'opera dei procedimenti che rivelano l'intento dell'Autore di dare coesione al dramma: si tratta di un sistema di rimandi interni e di meccanismi di prefigurazione degli eventi successivi, non espliciti, ma che traspaiono dalle parole dei personaggi trascendendo la loro stessa consapevolezza.

Alcuni esempi renderanno più chiaro il concetto. Nel discorso iniziale rivolto al padre Giove, Ercole rivendica il diritto di essere accolto tra gli dei sia per la sua nascita sia come ricompensa per i suoi meriti, e, se questo non basta, sollecita nuove imprese da affrontare per dimostrare il proprio valore. La sua preghiera viene esaudita, anche se non nel modo da lui atteso: viene sottoposto a una nuova prova, superata la quale diviene un dio. Si considerino in particolare i vv. 53-56 quasque deuincam feras / tellus

timet concipere nec monstra inuenit. / ferae negantur: Hercules monstri loco / iam cepit esse. L'enigmatica frase di Ercole ai vv. 55-56, che necessita per essere compresa del

riconoscimento dell'ipotesto del Furens (cfr. la n. ad loc.), ha un doppio significato: a livello consapevole Ercole, giocando sulla duplice accezione di monstrum (mostro/portento), intende dire che, dopo aver sconfitto tante fiere, è divenuto lui stesso un monstrum, sia perché è un essere prodigioso sia perché è temuto per la sua forza (cfr. v. 11 numquid timemur?); a livello inconscio, però, le sue parole hanno un altro significato e prefigurano lo sviluppo successivo della vicenda: la nuova e decisiva lotta che dovrà affrontare nel corso del dramma sarà proprio contro se stesso, per riuscire a vincere il dolore e ad affrontare in modo imperturbabile la morte; in questo senso, dunque, Ercole è un monstrum per se stesso.

Un procedimento analogo, formulato in modo più chiaro, si riscontra nelle prime parole pronunciate da Deianira: i termini con cui, ai vv. 258-262, chiede a Giunone di inviare una nuova fiera che distrugga Ercole, costituiscono una prefigurazione di quanto avverrà in seguito (cfr. la nota ad loc.): anche in questo caso la preghiera rivolta alla divinità viene esaudita, ma non con le modalità auspicate dal personaggio. Nella stessa direzione va la formulazione delle parole di Deianira ai vv. 536-538, dall'inconscio significato anfibologico (cfr. n. ad loc.), e l'uso sistematico di termini afferenti alla sfera semantica del 'veleno' in bocca a Deianira e alla Nutrice in riferimento al presunto filtro d'amore di Nesso (cfr. n. al v. 466): in tutti questi casi il personaggio non è consapevole dell'esito delle proprie azioni, ma le parole che pronuncia sono formulate in modo tale da far cogliere al lettore/ascoltatore l'allusione all'esito della vicenda.

Anche le sezioni filosofiche dei primi due canti corali, che sviluppano i consueti

topoi moralistici, non sono così avulse, come potrebbe sembrare a prima vista, dalla

linea narrativa principale: nelle tematiche affrontate dal Coro di prigioniere si intravedono precisi rimandi al tema fondamentale della tragedia, l'evoluzione del personaggio di Ercole verso l'ideale del sapiens stoico e la divinizzazione finale, mentre la riflessione sui pericoli del potere e della ricchezza svolta dal Coro di compagne di Deianira costituisce una prefigurazione della metabolé tragica sceneggiata nell'atto successivo.

Risulta quindi chiaro che l'HO è stato concepito come opera unitaria ed è stato elaborato dedicando di gran lunga più attenzione alla riuscita retorica e letteraria che a quella drammatica.