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2.4 L E FONTI LETTERARIE RELATIVE ALL ' APOTEOSI DI E RCOLE

La morte e l'apoteosi di Ercole non sono narrate nelle Trachinie di Sofocle270 (l'HO coincide con la vicenda rappresentata nel modello sofocleo soltanto fino al IV atto); il racconto ovidiano delle Metamorfosi è l'unico precedente letterario, a noi pervenuto integralmente, relativo alla morte e apoteosi di Ercole. Può comunque essere utile un breve excursus sulle fonti letterarie relative a questo segmento mitico anteriori all'HO. La prima testimonianza della divinizzazione di Eracle risale a Od. 11, 601-604, un passo che già gli scoliasti antichi ritenevano interpolato da Onomacrito (vissuto in Atene al tempo della tirannide, nel sesto secolo avanzato), per il fatto di essere inglobato all'interno della descrizione di Eracle come ombra dell'Ade; analoga giustapposizione è presente nel Catalogo delle donne, fr. 25 M.-W., dove ai vv. 24-25 che parlano dell'eroe come defunto abitatore dell'Ade (dexamevnw/ de; oiJ ai\ya tevlo" qanavtoio parevsth: / kai; qavne kai; rJ ' jAi?dao poluvstonon i{keto dw'ma) fa seguito una sequenza di otto esametri che lo presentano come sposo di Ebe sull'Olimpo e che nel testo del papiro appaiono obelizzati. Dell'apoteosi di Ercole si parla pure in Hes. Theog. 950 ss., un passo anch'esso discusso e di incerta valutazione271, nonché in Hom. Hymn. 15, 7-8, ritenuto da molti come non più antico del VI secolo a.C., periodo in cui si sarebbe

270

Compare solo una breve indicazione nella raccomandazione di Eracle al figlio Illo in Soph. Trach. 1193-1200.

271

Cfr. in proposito gli scoli (nell'edizione di Di Gregorio, pp. 117 ss.), nonché le note ad loc. di West e di Arrighetti.

affermata secondo i più la versione dell'immortalità dell'eroe272. Quest'ultimo punto resta tuttavia non sicuramente provato: sappiamo solo che i Maratonii si vantavano di essere stati i primi a venerare Eracle come un dio (secondo la testimonianza di Pausania 1, 15, 3 e 1, 32, 4), e questa tradizione sembra da collegare a un periodo storico in cui i demi attici avevano ancora una certa autonomia e capacità di iniziativa nei confronti di Atene: un'epoca, dunque, forse anteriore al VI secolo. L'apoteosi di Ercole diventa comunque dato indiscusso con Pindaro: in Isthm. 4, 57-60 l'eroe vive beato in cielo con la sposa Ebe, e in Nem. 1, 69-72 tale beatitudine è presentata per la prima volta in modo esplicito come compenso per le sue grandi fatiche (aujto;n ma;n ejn eijravna/ to;n a{panta crovnon ejn scerw'/ aJsucivan kamavtwn megavlwn poina;n lacovnt ' ejxaivreton ojlbivoi" ejn dwvmasi, dexamevnon qalera;n {Hban a[koitin, ktl.). Per quanto riguarda invece le più antiche attestazioni letterarie a noi pervenute relativamente al motivo della pira sull'Eta, bisogna scendere alla seconda metà del V secolo: tuttavia il rapido accenno in Herodot. 7, 198, 2 alla leggenda locale del fiume Dira, che "sarebbe comparso per portare aiuto ad Eracle che bruciava" ( JHraklevi> kaiomevnw/), lascia intendere che si trattava di una versione mitica già nota.

È soltanto con gli Eraclidi di Euripide (databili tra il 430 e il 427) che troviamo la prima attestazione di una connessione fra la morte sul rogo e la divinizzazione dell'eroe (cfr. vv. 910-918: e[stin ejn oujranw'/ bebakw;" oJ so;" govno", w\ geraiav: feuvgei lovgon wJ" to;n {Aida dovmon katevba, puro;" deina'/ flogi; sw'ma daisqeiv": {Hba" t ' ejrato;n croi?zei levco" crusevan kat ' aujlavn. w\ JYmevnaie, dissou;" pai'da" Dio;" [scil. Eracle ed Ebe] hjxivwsa"). Analoga connessione sembra presupposta anche da Sofocle in Phil. 727-729: sperceiou' te par' o[cqai", i{n ' oJ cavlkaspi" ajnh;r qeoi'" plavqei pa'sin, qeivw/ puri; pamfahv", Oi[ta" uJpe;r o[cqwn273

. Si tratta comunque di accenni rapidi, inseriti all'interno di interventi corali che toccano solo incidentalmente il tema della morte dell'eroe. Non ci è invece pervenuta nessuna opera in cui sia direttamente trattata la morte di Eracle, anche se anche se almeno una tragedia che trattasse questo segmento mitico sembra essere esistita, come è provato dal frammento tragico adespoto 653 Kannicht-Snell (TrGrFr II, pp. 225-229), costituito da un discorso dell'eroe morente sulla pira.L'ipotesi di Cataudella di assegnare questo frammento agli

Eraclidi di Eschilo274

ha avuto scarso seguito: l'orientamento prevalente è quello di attribuirlo a un ignoto dramma ellenistico275. La morte di Eracle poteva inoltre essere narrata da Paniassi di Alicarnasso (uno zio o un cugino di Erodoto) a conclusione del suo poema epico Eracleide, del quale ci sono tuttavia pervenuti scarsi frammenti, insufficienti per formulare una qualsiasi plausibile ipotesi sul suo contenuto; non abbiamo tuttavia ragione di ritenere che quest'opera, anche se apprezzata dai filologi

272

A proposito della datazione dell'Inno omerico ad Eracle, e delle problematiche da esso poste, cfr. l'ancora utile sintesi in CASSOLA 1975, pp. 335-337.

273

Cfr. in proposito JEBB 1932, p. 121: «by qeivw/ puri; pamfahv" the poet probably meant to suggest both the flaming pyre and the splendour of the lightnings». L'interpretazione di Jebb si accorda bene, tra l'altro, con la versione presupposta da Diod. Sic. 4, 38, 4, che parla di un fulmine di Zeus che, abbattutosi sulla pira, la incendiò: ejk tou' perievconto" pesovntwn hJ pura; pa'sa kateflevcqh. Del resto, in Sofocle non si dice mai espressamente che fu Filottete ad appiccare il fuoco alla pira: nell'esodo delle

Trachinie, dopo il rifiuto di Illo ai vv. 1203 ss., Eracle non dice chi debba accendere il rogo in sua vece. 274

CATAUDELLA 1966, che sviluppa un'ipotesi già proposta da ZIELINSKI 1925, pp. 90 ss.

275

Negli Eraclidi eschilei il tema della morte sul rogo poteva essere ricordato in una rhesis, alla quale forse appartiene il fr. 73b Radt (= TrGF III, pp. 190-191), giuntoci privo dell'indicazione dell'autore e dell'opera.

alessandrini che inclusero Paniassi nel novero dei cinque maggiori poeti epici, e da retori quali Dionisio di Alicarnasso e Quintiliano, abbia esercitato una significativa influenza sugli autori successivi276. Ci è infine giunta notizia di drammi ellenistici incentrati sul mito di Eracle, alcuni dei quali potevano aver direttamente trattato questa sequenza mitica. La Suda trasmette notizia di un JHraklh'" di Licofrone e di un altro JHraklh'" di Timesiteo: la mancanza di un epiteto qualificante non lascia trapelare nulla sul loro contenuto; ma nemmeno dell' JHraklh'" perikaiovmeno" di Spintaro di Eraclea possiamo in realtà dire molto: di tutte queste opere resta incerto lo stesso genere di appartenenza (satiresco o tragico). Di fatto, dunque, l'unico precedente letterario per il finale dell'HO che costituisca qualcosa di più di un frammento o di una semplice allusione è rappresentato dal IX libro delle Metamorfosi ovidiane277.

§ 2.5. UN POSSIBILE MODELLO DRAMMATICO PER LA RAPPRESENTAZIONE DELLA

MORTE E APOTEOSI DI ERCOLE

Come si è detto, l'HO coincide con la vicenda rappresentata nel modello sofocleo soltanto fino al IV atto. Per quanto riguarda il finale, l'indagine dei modelli condotta dalla Walde e dalla Marcucci278 si concentra su una serie di confronti con singoli temi, ricercati soprattutto nel genere epico (Virgilio, l'Ovidio delle Metamorfosi, Lucano e Stazio)279. Alle corrispondenze interne al corpus senecano, per quanto riguarda la rappresentazione dell'apoteosi di Ercole, è dedicato uno studio di Paduano280, che analizza le "tipologie dell'apoteosi" in HF, HO e Thyestes281.

Una mia ipotesi è che alla base del finale dell'HO sia sottesa una costruzione drammaturgica analoga a quella dell'esodo dell'Edipo a Colono sofocleo, adattata ad una nuova prospettiva ideologica. Ecco, schematicamente, gli elementi sui quali si struttura il finale nei due drammi:

(a) La morte di Edipo e Ercole è particolare, perché è orchestrata da loro stessi e riconducibile all'ambito del qau'ma, del prodigioso (cfr. HO 1745 stupet omne uulgus;

OC 1665-1666 ei[ ti" brotw'n / qaumastov").

276

Cfr. GALINSKI 1972, p. 38 n. 3.

277

Numerose sono invece le testimonianze iconografiche relative alla morte e divinizzazione di Ercole, costituite per lo più da raffigurazioni vascolari: al riguardo cfr. in part. cfr. in part. MINGAZZINI1925.

278

Cfr. WALDE 1992, pp. 71 ss.; MARCUCCI 1997, pp. 279 ss.

279

Uno degli elementi di più evidente ascendenza epica è il tema del taglio della selva per la costruzione del rogo funebre (per il quale cfr. l'acuta analisi di NISBET 1987;per una rassegna commentata di tutti i passi, da Omero all'HO, dedicati a questo tema cfr. AYGON 2004, pp. 140-48). Il motivo compariva già - in forma sintetica - nelle Trachinie come ordine di Eracle ad Illo (cfr. vv. 1195 ss. pollh;n me;n u{lhn th'" baqurrivzou druo;" / keivranta, pollo;n d ' a[rsen ' ejktemovnq ' oJmou', / a[grion e[laion, sw'ma toujmo;n ejmalei'n, ktl.); analoga sinteticità in Ov. Met. 9, 230 arboribus caesis, quas ardua gesserat Oete, dove l'accenno all'abbattimento di alberi si riduce all'ablativo assoluto. L'A. dell'HO invece dedica ad esso uno spazio da poema epico: cfr. Il. 23, 114 ss., dove si parla di alberi abbattuti per costruire il rogo per Patroclo; nella poesia latina cfr. Enn. ann. 6, 175 Sk. (per la cremazione voluta da Pirro dei caduti nella battaglia di Eraclea), Verg. Aen. 6, 179 ss. (per la morte di Miseno).

280

PADUANO 2000,pp. 425 ss.

281

Specificamente dedicato alla 'divinizzazione' di Atreo – puramente soggettiva e metaforica – è lo studio di PADUANO 1988.

(b) C'è una reazione cosmica che si esprime in forma 'acustica'. In entrambi i drammi il motivo è introdotto dal Coro. In HO 1595 ss. (heu quid hoc? mundus sonat, eqs.) il Coro nota il frastuono cosmico e si dilunga a formulare ipotesi sulla sua causa. In Sofocle il motivo è molto enfatizzato da parte dei Vecchi ateniesi: compare dapprima al v. 1456 e[ktupen aijqhvr, w\ Zeu'; poi ai vv. 1462 ss. il Coro esprime sconcerto e paura per questo segnale, in quanto non ne comprende la ragione e teme che sia presagio di sventura (vv. 1462-1471 [Ide mavla mevga" ejreivpetai / ktuvpo" a[fato" o{de diovbolo"· ej" d' a[kran / dei'm' uJph'lqe krato;" fovban. / [Epthxa qumovn· oujravnia / ga;r ajstrapa; flevgei pavlin. / Tiv ma;n ajfhvsei tevlo"; / devdia tovd'· ouj ga;r a{lion / ajforma/' pot', oujk a[neu xumfora'". / \W mevga" aijqhvr, w\ Zeu'; cfr. anche i vv. 1477- 1485). Il tuono ritorna ancora successivamente nella rhesis del Messo: v. 1606 ktuvphse me;n Zeu;" cqovnio". La valorizzazione data al tema del fragore celeste è in Sofocle pienamente motivata: fin dal prologo il tuono era presentato come uno dei segni divini dal quale Edipo avrebbe compreso che era giunta l'ora della sua morte (cfr. OC 95). Fin dalla prima manifestazione del rumore egli comprende che questo è per l'appunto il segnale da lui atteso (OC 1461-1462 "il tuono alato di Zeus mi porta nell'Ade"; 1472- 1473 "figlie mie, è giunta la fine che gli dèi hanno destinato per vostro padre"). Anche nell'HO il Coro si sofferma a riflettere, perplesso per quanto ha udito: ai vv. 1591 ss. si dilunga in varie fantasiose ipotesi di spiegazione di questo anomalo suono (dolore di Giove?282 voce di Giunone? Atlante che vacilla? tremore degli Inferi o dello stesso Cerbero?). È logico pensare che si tratti del segnale dell'assunzione in cielo di Ercole, ma nel dramma non ne viene mai data la spiegazione: l'arrivo in scena di Filottete ha l'effetto di distrarre da questo motivo, che rimane in sé poco perspicuo, ed è poi del tutto dimenticato. Quello che era un tema importante e strutturalmente significativo in Sofocle, sembra qui un'inserzione accessoria, poco organicamente inserita nel testo: probabilmente una 'traccia', anche inconsapevole, lasciata dalla memoria del modello283. (c) Edipo ed Ercole sono accompagnati alla morte da un amico (rispettivamente Teseo in Sofocle e Filottete nell'HO) al quale lasciano un dono (a Teseo la protezione per la sua terra, a Filottete l'arco, che rappresenterà una difesa per il destinatario stesso del dono e per i Greci più in generale nella guerra di Troia).

282

Con questa ipotesi l'autore dell'HO sembra fornire una sua versione 'epica' del tema del tuono, con una variazione rispetto al motivo omerico per cui il lutto di Zeus per la morte di un suo figlio si esprimeva sotto forma di una pioggia di sangue (cfr. il celebre episodio di Sarpedone in Il. 16, 459 ss.). Nell'Iliade il motivo del tuono dal cielo come segnale divino era introdotto in corrispondenza dell'aristia di Agamennone, ed esprimeva l'omaggio di Era ed Atena per il loro protetto (cfr. 11, 45-46 ejpi; d' ejgdouvphsan jAqhnaivh te kai; {Hrh / timw'sai basilh'a polucruvsoio Mukhvnh"). La contaminazione dei due motivi - pioggia di sangue e tuono - era inoltre ripresa dall'autore dello Scutum Herculis e interpretata come segno di omaggio di Zeus per il proprio forte figlio che si accingeva al combattimento contro Ares e Cicno, privata dunque della sua ominosità negativa (cfr. [Hes.] Scut. 383-85 mevga d ' e[ktupe mhtiveta Zeuv", / ka;d d ' a[r ' ajp ' oujranovqen yiavda" bavlen aiJmatoevssa" / sh'ma tiqei;" polevmoio eJw'/ megaqarsevi paidiv).

283

Nelle tragedie di Seneca ricorre per tre volte il motivo dell'improvviso boato: in HF 521 ss., in Tro. 171 ss e in Oed. 569. In tutti e tre i casi segnala l'apertura della voragine infera perché ne esca qualcuno (rispettivamente Ercole, il fantasma di Achille ed esseri infernali). In ognuno di questi il tema del fragore (che solo nell'HF è udito sulla scena; negli altri casi è narrato all'interno di una rhesis) è messo in bocca a un personaggio (Anfitrione, Taltibio, Creonte), che ne chiarisce subito la causa. Il passo dell'HO si ispira probabilmente anche ai luoghi senecani (e forse proprio perché li presuppone l'Auore non sente la necessità di spiegare la causa del boato), ma il modo in cui introduce il motivo presenta evidenti analogie con il modello sofocleo.

(d) Accanto al morituro sono introdotte delle figure femminili: le figlie Antigone e Ismene nel caso di Edipo, la madre Alcmena (una delle maggiori innovazioni nella trattazione del mito nell'HO) per Ercole. Ad esse è affidato il tradizionale elemento trenodico. A rendere significativa questa corrispondenza contribuisce il fatto che il finale dell'HO rappresenta l'unica attestazione di una presenza di Alcmena accanto ad Ercole morente. Nelle Trachinie Alcmena non è a Trachis, ma vive a Tirinto con una parte dei figli di Eracle (cfr. Soph. Trach. 1151-1154); Ovidio nelle Metamorfosi la introduce solo successivamente alla morte dell'eroe, mentre racconta a Iole, ormai sposa di Illo, la nascita del figlio (Met. 9, 273 ss.). Nel frammento tragico adespoto 653 K.-Sn. compare la menzione soltanto del 'vecchio padre' Anfitrione284. Nel caso di Aesch. fr. 73b Radt285 e del fr. adesp. 126 K.-Sn.286 vengono menzionati esclusivamente i figli di Eracle, tacciati di viltà per il fatto che non hanno il coraggio di accendere la pira287. L'introduzione di Alcmena nell'HO crea dunque una situazione drammatica vicina a quella del finale dell'Edipo a Colono, in cui la presenza femminile era a sua volta trattata secondo i moduli convenzionali, che, fin dall'epos omerico, affidavano alle parenti del morto il compito del lamento funebre.

(e) Al discorso del Messo sofocleo che narra gli ultimi momenti della vita di Edipo corrisponde l'analogo discorso di Filottete (le funzioni del Messo e di Teseo, quest'ultimo con il compito di accompagnare l'eroe nella morte, vengono nell'HO unificate nello stesso personaggio di Filottete). Questa rhesis si sviluppa secondo uno schema analogo nelle due tragedie:

• preparazione del rito: Edipo (in OC 1597 ss.) si lava e si veste con l'aiuto delle due figlie; Ercole (in HO 1618 ss.) fa tagliare da "tutte le schiere dei suoi" (omnis manus v. 1618) una selva intera (aggeritur omnis silua v. 1637): alla dimensione privata e intima della morte, propria delle tragedie di Sofocle, subentra la dimensione spettacolare della morte di Ercole. In entrambi i casi, tuttavia, due momenti del rituale che tradizionalmente facevano séguito alla morte (la pulizia e vestizione del cadavere, la costruzione della pira) vengono anticipati in modo che sia il morituro a ordinarne e presiederne l'esecuzione: si sottolinea in questo modo il carattere eccezionale di ciascuna di queste morti. • Le donne esternano il loro dolore.

284

Cfr. TrGF II, pp. 225-229. CATAUDELLA 1966, pp. 42-43 ritiene che l'apostrofe di Eracle ajll' w\ pavter geraiev (v. 58) vada riferita a Zeus: ma risulterebbe assai strano che il dio supremo fosse apostrofato con un epiteto "vecchio", che compete ai padri mortali; così sono apostrofati per es. Danao in Aesch. Suppl. 177 e 480, Edipo in Eur. Phoen. 1532 e ad Anfitrione come a un "vecchio padre" si fa più volte riferimento nell'Eracle di Euripide (cfr. vv. 447, 533, 901, 1259, 1265). Del resto, rientrava nei luoghi topici del compianto funebre dei giovani il tema della vecchiaia del genitore, che con la morte del figlio risultava privato di un sostegno affettivo ed economico (persino Medea in Eur. Med. 1033-1035, pur essendo ancora una giovane donna, si proietta in avanti negli anni, immaginando la sua vecchiaia senza l'aiuto dei figli; per una ripresa molto patetica di questo motivo, cfr. il lamento di Ecuba ad Astianatte in Eur. Tro. 1185 ss.). Nel frammento in questione, l'appello di Eracle al vecchio padre va dunque collegato a tali moduli espressivi. Resta tuttavia da verificare la possibilità – che mi sembra non sia stata presa in considerazione dai critici – che si tratti semplicemente di una apostrofe in absentia, secondo un modulo espressivo tutt'altro che raro nel dramma in contesti di forte pathos.

285

In TrGF III, pp. 190-191: cfr. v. 3 pai'de" oi{de ajmfimhvtore".

286

In TrGF II, p. 52: poi' metastrevfesq', w\ kakoiv, / kajnavxioi th'" ejmh'" spora'", / Aijtwlivdo" ajgavlmata mhtrov";

287

• Inglobato all'interno della rhesis del Messo c'è un discorso diretto di Edipo/Ercole rivolto alle parenti femminili, con l'invito a controllarsi e a sopportare (HO 1673 ss. compesce lacrimas, eqs.; Soph. OC 1640 tlavsa" crh; to; gennai'on freni;, ktl.).

• Dopo questi preliminari il protagonista si avvia a morire; segue quindi il racconto della morte, che è ovviamente differente per i due eroi.

• Il Messo/Filottete sottolinea che la morte è stata affrontata in modo sereno e lieto (cfr. Soph. OC 1663 ss.; nell'HO il tema è più ampiamente sviluppato, in quanto costituisce il fulcro ideologico del dramma: sul tema della bona mors cfr. più avanti).

• Alla fine del racconto il Messo/Filottete annuncia l'entrata in scena delle donne piangenti (OC 1668-1669; HO 1755-1757).

(f) Il pianto delle figure femminili continua anche nella scena successiva, dopo il loro ingresso in scena, e il loro dialogo con Teseo/Filottete presenta elementi di corrispondenza, in parte topici, in parte legati alla specificità della situazione drammatica, che vede rappresentata una morte 'prodigiosa':

• compianto per se stesse e per il morto insieme;

• desiderio di annullamento e di morte (HO 1915; OC 1690 e 1733);

• timore per il proprio futuro: Antigone e Ismene non sanno dove andare (OC 1685, 1737 poi' fuvgw;), si chiedono quale destino le attenda, "sole ed indifese" (OC 1715 patro;" ... ejrhvma", 1734 e[rhmo" a[poro"); così anche Alcmena, in forma molto più espansa ed enfatica: cfr. vv. 1782 ss. quas petam terra anus, eqs. duplicato ai vv. 1796 ss. quae petam Alcmene loca? / quis me locus, quae regio,

quae mundi plaga / defendet, eqs. (con ulteriore dilatazione, costruita secondo il

convenzionale schema delle diverse possibilità di destinazione, passate in rassegna e subito respinte).

• Teseo/Filottete288

rispondono che non c'è ragione di piangere, adducendo come motivo lo specifico carattere soprannaturale di quella morte (la prospettiva di eternità della uirtus in HO 1831, la charis degli dèi che si riversa su tutti in OC 1751: nella motivazione data da Teseo/Filottete si coglie ovviamente la diversa impostazione ideologica e il differente messaggio dei due drammaturghi).

(g) Il finale è tuttavia 'operativo': i personaggi femminili cessano il lamento e si rassegnano (OC 1767, HO 1980); quindi annunciano il loro intento di andarsene a Tebe, con un progetto preciso: Antigone e Ismene si recheranno a Tebe per tentare di scongiurare la guerra fratricida, Alcmena andrà a Tebe a "cantare che un nuovo dio si è aggiunto ai loro templi".

(h) C'è un messaggio finale di speranza: il protagonista diventerà nume benefico per i sopravvissuti ed i posteri (OC 1764 ss. kai; tau'ta m' e[fh pravssonta kalw'" cw'ran e{xein aije;n a[lupon. tau't' ou\n e[kluen daivmwn hJmw'n cwj pavnt' ajivwn Dio;" {Orko";

HO 1989 ss. sed tu ... ades; / nunc quoque nostras respice terras, / et si qua nouo belua uultu / quatiet populos terrore graui, / tu fulminibus frange trisulcis).

288

Nell'HO c'è un problema di attribuzione della battuta dei vv. 1831-36 che interrompe il lamento di Alcmena: a Illo (E); a Filottete (A); Herrmann propone di attribuirla al Coro, seguito da Zwierlein che porta a confronto Phae. 1244-1246 (il Coro cerca di consolare Teseo). Ma in difesa dell'attribuzione della battuta a Filottete cfr. FITCH 2004a, pp. 229-230.

Questa è la struttura drammaturgica portante delle due scene. L'A., nel costruire il finale del dramma, si è dunque ispirato all'esodo dell'Edipo a Colono, in virtù di alcune analogie tematiche presenti tra le due vicende. Ma di questo schema drammaturgico l'A. si serve come ossatura portante che poi riempie di contenuti nuovi in relazione al personaggio di Ercole. Ne è un esempio la rilettura in chiave stoica del tema della bona