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La figura di Ercole era stata assunta come modello ideale dai filosofi cinici e stoici231: l'eroe costituiva infatti il supremo esempio di filoponiva ed era allegorizzato come il vincitore delle passioni dell'animo. Per questo alcuni studiosi hanno interpretato l'Hercules Oetaeus attraverso il filtro della filosofia stoica232. Ackermann, in particolare, vedeva in Ercole l'incarnazione dell'ideale del saggio stoico e nello sviluppo del dramma una tendenza filosofico-encomiastica233; tuttavia, se si legge interamente la tragedia in questa chiave, emergono subito delle aporie, come mise in evidenza Edert, che si servì proprio di questo argomento per dimostrare la non autenticità dell'opera234. In realtà, anche se è innegabile che nel finale il modo in cui Ercole affronta le fiamme è modellato sull'apatheia stoica, appare forzato interpretare l'intera caratterizzazione del personaggio su questa base: la personalità di Ercole è molto più sfaccettata e complessa, ed è, allo stesso tempo, dinamica, come cercherò di dimostrare nel corso dell'analisi.

L'idealizzazione di Ercole operata nella letteratura filosofica è rispecchiata in un passo del De constantia sapientis, in cui però Seneca afferma che Catone è un modello di sapiens migliore rispetto a Ulisse ed Ercole, che sono citati come esempi dagli Stoici:

Dial. 2, 2, 1

Catonem autem certius exemplar sapientis uiri nobis deos inmortalis dedisse quam Vlixem et Herculem prioribus saeculis. Hos enim Stoici nostri sapientes pronuntiauerunt, inuictos laboribus et contemptores uoluptatis et uictores omnium terrorum.

Si trovano qui riassunte le tre principali caratteristiche di Ercole sottolineate dagli Stoici: la filoponiva, il disprezzo dei piaceri235, la vittoria sui turbamenti dell'animo236.

231

Per una panoramica sulle interpretazioni di Ercole nelle scuole filosofiche cfr. in part. EDERT 1909,pp. 33 ss.; GALINSKY 1972,pp. 101 ss.

232

ACKERMANN 1907, pp. 323-428; ID. 1912, pp. 425-471; KING 1971, pp. 215-222; TIETZE-LARSON 1991, pp. 39-49. Spunti di interpretazione complessiva delle tragedie di Seneca, in base alla filosofia stoica, si trovano in MARTI 1945, pp. 216-245, PRATT 1948, pp. 1-11, nonché, in tempi più recenti, VON ALBRECHT 2004,pp. 112-119 e HINE 2004,pp. 173-220, al quale in particolare si rimanda per ulteriori indicazioni bibliografiche.

233

Cfr. ACKERMANN 1912, p. 460: «Ich bleibe daher bei der Ansicht, dass wir im HO ein religiös- philosophisch-rhetorisches Buchdrama Senecas zu erkennen haben, das dem Preise des Gottmenschen und Weltenheilands Herakles, des idealen Sapiens, gewidmet ist und uns anhalten soll, es diesem Heroen an Menschliebe, Ausdauer und Furchtlosigkeit womöglich gleich zu tun».

234

EDERT 1909; cfr. Introduzione § 1.1.

235

Questa qualità di Ercole era esaltata già nel celebre mito di Ercole al bivio tra Virtus e Voluptas, narrato da Prodico.

In un passo del De tranquillitate animi Seneca fa un cenno a quella che sarà la tematica fondamentale dell'Hercules Oetaeus, il fatto che Ercole conquista l'immortalità grazie alle modalità della sua morte237:

Dial. 9, 16, 4

Ego Herculem fleam quod uiuus uritur, aut Regulum quod tot clauis configitur, aut Catonem quod uulnera <uulnerat> sua? Omnes isti leui temporis inpensa inuenerunt quomodo aeterni fierent, et ad inmortalitatem moriendo uenerunt.

All'immagine idealizzata di Ercole, infine, Seneca fa riferimento solo in un altro passo, all'interno di un confronto con Alessandro Magno:

De ben. 1, 13, 3

Hercules nihil sibi uicit; orbem terrarum transiuit non concupiscendo, sed iudicando, quid uinceret, malorum hostis, bonorum uindex, terrarum marisque pacator.

Viene qui attribuita ad Ercole la qualità di apportatore di pace e giustizia, propria della rifunzionalizzazione politica della figura dell'eroe come perfetto sovrano238. Tale caratterizzazione viene ripresa nell'Hercules Oetaeus: i temi della pace e dell'uccisione dei tiranni sono motivi ricorrenti nella tragedia (cfr. le note di commento ai vv. 3-4 e 5- 6).

Nelle opere in prosa di Seneca, dunque, i riferimenti all'idealizzazione filosofica di Ercole sono piuttosto scarsi, ma, nella misura in cui ripropongono tematiche già sviluppate ampiamente nell'età ellenistica, coincidono appieno con i presupposti della rappresentazione del personaggio nell'HO.

Nel finale della tragedia, l'atteggiamento con cui Ercole affronta le fiamme è ispirato all'apatheia stoica239. L'eroe, dopo tante prove di 'vita attiva', merita di essere assunto in cielo per una prova di 'vita filosofica': questo, credo, è il significato complessivo del dramma, come cercherò di argomentare nel prossimo paragrafo. Tale concezione trova riscontro in una celebre lettera a Lucilio di Seneca, l'epistola 73. In essa Seneca, per convertire Lucilio alla 'vita filosofica', fa ricorso a parole che soleva dire Sestio: l'uomo virtuoso è pari a un dio, anzi è un dio egli stesso ed è accolto in cielo:

236

Le imprese di Ercole contro i mostri erano infatti interpretate in chiave allegorica come lotta contro i terrori dell'animo che turbano l'ideale stoico dell'ajponiva.

237

Ercole è accomunato in questo a due uomini reali, Attilio Regolo e Catone, per i quali, naturalmente, "immortalità" non significa divinizzazione, ma ricordo eterno nella memoria dei posteri.

238

In effetti, proprio in questo passo, Seneca accenna alle qualità di Ercole a proposito di Alessandro Magno, in quanto il sovrano macedone ambiva a identificarsi nell'eroe (in modo del tutto immeritato, a giudizio di Seneca). L'identificazione con Ercole è poi consueta per gli imperatori romani, a partire da Augusto.

239

L'elemento dell'imperturbabilità di Ercole sulla pira è presente anche nella descrizione della morte dell'eroe delle Metamorfosi di Ovidio (9, 239-241 iamque ualens et in omne latus diffusa sonabat /

securosque artus conptentoremque petebat / flamma suum), senza però che il dato sia caricato di un

significato filosofico. Anzi, Ovidio introduce un paragone che ha funzione quasi ironica, in quanto richiama l'immagine dell'eroe incline ai piaceri simposiali tipica della commedia: Ercole giace sulla pira

haut alio uultu, quam si conuiua iaceres / inter plena meri redimitus pocula sertis (vv. 237-238). Si tratta

forse di una rielaborazione in chiave scherzosa dell'idealizzazione di Ercole come sapiens stoico operata dalla letteratura filosofica di età ellenistica.

Ep. 73, 11-16

quanti aestimamus hoc otium quod inter deos agitur, quod deos facit? [12] Ita dico, Lucili, et te in caelum compendiario uoco. Solebat Sextius dicere Iouem plus non posse quam bonum uirum. […] [13] Iuppiter quo antecedit uirum bonum? diutius bonus est: sapiens nihilo se minoris aestimat quod uirtutes eius spatio breuiore cluduntur. […] [15] Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et clamanti 'hac

itur ad astra,

hac secundum frugalitatem, hac secundum temperantiam, hac secundum fortitudinem'. Non sunt dii fastidiosi, non inuidi: admittunt et ascendentibus manum porrigunt. [16] Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines uenit, immo quod est propius, in homines uenit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis diuina dispersa sunt, quae si bonus cultor excipit, similia origini prodeunt et paria iis ex quibus orta sunt surgunt: si malus, non aliter quam humus sterilis ac palustris necat ac deinde creat purgamenta pro frugibus. Vale.

L'immagine qui impiegata è specificamente quella dell'apoteosi: le espressioni hac

itur ad astra (ricalcata su Verg. Aen. 9, 641) e hominem ad deos ire ricordano le parole

di Ercole ai vv. 1942-1943 iam uirtus mihi / in astra et ipsos fecit ad superos iter e quelle di Alcmena al v. 1978 in astra fertur.

Trova un supporto concettuale nelle opere in prosa di Seneca anche la rappresentazione della morte di Ercole sulla pira come spectaculum, a cui uomini e dei assistono240. Nel De Prouidentia (2, 7 ss.) Seneca afferma che gli dei godono nell'assistere allo "spettacolo" di un uir fortis che combatte contro la sfortuna come gli uomini nel vedere la lotta di un valoroso gladiatore con una belva241. Come esempio, introduce una sorta di 'drammatizzazione' del suicidio di Catone Uticense: gli dei vi assistono con tale godimento da volere che lo spettacolo sia protratto; fanno dunque in modo che la prima ferita infertasi da Catone non sia mortale e la uirtus dell'eroe stoico sia nuovamente messa alla prova.

Dial. 1 (= Prou.), 2, 7-12

Ego uero non miror, si aliquando [scil. dei] impetum capiunt spectandi magnos uiros conluctantis cum aliqua calamitate, eqs.

9. ecce spectaculum dignum ad quod respiciat intentus operi suo deus, ecce par deo dignum, uir fortis cum fortuna mala compositus, utique si et prouocauit. Non uideo, inquam, quid habeat in terris Iuppiter pulchrius, si <eo> conuertere animum uelit, quam ut spectet Catonem, eqs.

11. Liquet mihi cum magno spectasse gaudio deos, dum ille uir, eqs.

12. Inde crediderim fuisse parum certum et efficax uulnus: non fuit dis inmortalibus satis spectare Catonem semel; retenta ac reuocata uirtus est ut in difficiliore parte se ostenderet; non enim tam magno animo mors initur quam repetitur. Quidni libenter spectarent alumnum suum tam claro ac memorabili exitu euadentem? mors illos consecrat quorum exitum et qui timent laudant.

240

È un'innovazione rispetto alle fonti letterarie a noi note il fatto che alla morte di Ercole assistano molti 'spettatori' estranei (oltre cioè a Filottete ed eventuali parenti). Nelle Trachinie di Sofocle, addirittura, l'eroe prega caldamente il figlio di portarlo in un luogo "dove nessun essere umano possa vederlo" (vv. 799-800 ajll' a\ron e[xw, kai; mavlista mevn me qe;" / ejntau'q' o{pou me mhv ti" o[yetai brotw'n). Nelle

Metamorfosi di Ovidio (9, 229 ss.) sembra che non ci sia nessuno accanto a Ercole, a parte Filottete. 241

Il medesimo gusto per la morte spettacolare è manifestato da Seneca anche nelle tragedie: cfr. in part. la descrizione della morte di Astianatte in Tro. 1077 ss. (la gente si affolla intorno come se stesse assistendo ad una rappresentazione) e di quella di Polissena ai vv. 1118 ss.; in quest'ultimo caso il richiamo al teatro è esplicito: il luogo del supplizio è cinto da un clivio "a forma di teatro" (theatri more v. 1125), dove si dispongono gli spettatori.

Questo concetto non è proprio soltanto di Seneca: il desiderio di Ercole di essere visto da uomini e dei nel momento della morte corrisponde alla concezione della morte come spectaculum propria dell'aristia del guerriero in Lucano (cfr. in proposito CONTE

1988, pp. 72 ss.)242.

§ 2.2. L'EVOLUZIONE DEL PERSONAGGIO DI ERCOLE: DA EROE EPICO A EROE FILOSOFICO

Benché nel personaggio di Ercole siano indubbiamente presenti, come si è detto, elementi stoici, l'HO non è tuttavia diretta rappresentazione ed esaltazione del sapiens stoico: il dramma mette in scena l'evoluzione di un personaggio tragico243, che inizialmente non è esente da tratti negativi, e solo nel corso dell'azione, imparando a fronteggiare gli eventi inaspettati a cui la sorte lo ha posto di fronte, raggiunge la statura morale che lo rende un vero sapiens stoico, e quindi – in base alle definizioni formulate dallo stesso Seneca – un dio. D'altra parte, è caratteristica del genere tragico in generale il rappresentare i personaggi non in modo monolitico, ma nell'evolversi della loro caratterizzazione. Già Platone, nel decimo libro della Repubblica (603b-605c), faceva dire a Socrate che la tragedia è uno strumento non appropriato per rappresentare l'uomo virtuoso, in quanto per sua natura il dramma è "variegato" (poikivlo"), mentre la virtù è semplice e costante244.

Nella prima parte della tragedia la rappresentazione di Ercole è ricca di tratti che non collimano affatto con la sua idealizzazione come sapiens stoico del finale. La sua insistente richiesta di essere divinizzato, nella preghiera rivolta a Giove nel prologo, è costantemente contrassegnata da un tono di u{bri", che si fa sempre più evidente nello svolgersi del discorso (cfr. Commento § 1.1). Questo aspetto risulta chiaro se si considerano le analogie tematiche presenti tra le parole pronunciate qui da Ercole e quelle di Giunone nel prologo dell'HF, che ne delineano un ritratto, volutamente malevolo, come ambizioso che aspira al cielo (cfr. l'analisi svolta in Commento § 1.2). Inoltre, l'impresa che ha appena compiuto, la conquista di Ecalia, non è stata motivata

242

Ercole è esplicitamente equiparato a un guerriero: non viene posto sulla pira da altri (come in Soph.

Trach. 1253 Eracle ordina ad Illo: ej" puravn me qh'/"), ma lui stesso vi si slancia sopra (v. 1682 incubuit rogo), con l'atteggiamento trionfante di un comandante vittorioso sul suo cocchio (vv. 1683-1684: quis sic triumphans laetus in curru stetit / uictor?).

243

Spunti interessanti per l'interpretazione del personaggio di Ercole in chiave dinamica sono contenuti nel recente saggio della Di Fiore, a cui si farà riferimento nel corso del commento.

244

Plat. Resp. 604e: oujkou'n to; me;n pollh;n mivmhsin kai; poikivlhn e[cei, to; ajganakthtikovn, to; de; frovnimovn te kai; hJsuvcion h\qo", paraplhvsion o]n ajei; aujto; auJtw/', ou[te rJa/vdion mimhvsasqai ou[te mimoumevnou eujpete;" katamaqei'n, a[llw" te kai; panhguvrei kai; pantodapoi'" ajnqrwvpoi" eij" qevatra sullegomevnoi". ajllotrivou gavr pou pavqou" hJ mivmhsi" aujtoi'" givgnetai.

da nobili ragioni, bensì dalla volontà di possedere Iole e dall'ira per l'orgoglio ferito245. Questo aspetto di Ercole come facile preda delle passioni – in particolare l'ira e il desiderio erotico – è sottolineato dal Coro di prigioniere di Ecalia, Iole e Deianira. Naturalmente ciascun personaggio parla dal proprio punto di vista e, trattandosi di persone che hanno motivi di rancore nei confronti di Ercole (da una parte donne ridotte in schiavitù, a cui Ercole ha distrutto la patria, dall'altra la moglie tradita), è scontato che parlino di lui enfatizzandone i tratti negativi. Tuttavia, la propensione all'ira smodata e le attitudini sanguinarie, descritte dalle sue vittime ai vv. 165-172 e 207-211, sono confermate nel corso della tragedia dall'uccisione di Lica (vv. 808-822). A mio parere, però, questi caratteri non sono negativi in senso assoluto: tendono piuttosto a caratterizzare il personaggio di Ercole, in questa fase del dramma, come un eroe epico. Basti pensare ai prototipi degli eroi iliadici Achille e Diomede: l'ira sfrenata e sanguinaria e l'u{bri" nei confronti degli dei non intaccano o sminuiscono affatto il loro valore. Questo, invece, non è assolutamente ammissibile per il modello di vita filosofico, che alla fine Ercole deve incarnare; per questo l'autore dell'HO fa in modo che la statura eroica di Ercole nella prima parte della tragedia sia in qualche modo manchevole e debba essere superata nel corso degli eventi del dramma.

V'è inoltre un fondamentale elemento di inadeguatezza di Ercole in rapporto alla sua aspirazione all'immortalità: l'eroe ritiene che la sua impresa più grandiosa sia stata quella negli Inferi (il rapimento del cane Cerbero), in quanto con essa ha vinto la morte e, a suo parere, ha provato di essere degno del cielo (cfr. i 13-14 Mors me tibi / certe

remisit). Ma gli sviluppi della tragedia dimostreranno che il fatto di essere sceso negli

Inferi e di esserne tornato non costituisce una reale vittoria sulla morte; il vero trionfo su di essa si ottiene solo grazie alla capacità di affrontarla in modo sereno e imperturbabile. È quanto effettivamente Ercole farà nel finale della tragedia, per mezzo del suicidio 'stoico' sulla pira. Anche qui si evidenzia lo scarto tra i valori epici e i valori filosofici. Se nel mondo eroico tradizionale vincere la morte significa sovvertire le regole dell'esistenza, scendere nell'Ade per poi tornarne e magari portare alla luce un essere infero, nella sfera dei valori filosofici la grande sfida è quella dell'affrontare il dolore e la morte. La vittoria non si ottiene riuscendo a non morire, ma manifestando nei confronti della morte un atteggiamento imperturbabile.

I limiti dell'eroe epico vengono superati attraverso l'umiliazione profonda a cui il personaggio va incontro a partire dal momento in cui indossa la tunica avvelenata. Il morbo che assale Ercole produce la consunzione del suo corpo e la perdita di quella forza fisica che aveva costituito finora lo strumento indispensabile delle sue imprese. Nella prima parte della tragedia i riferimenti al corpo e alla forza fisica di Ercole, elementi cardine dell'eroe epico, sono connotati in modo negativo, come simbolo di u{bri" e di violenza: cfr. la dichiarazione di Ercole di poter sconvolgere la natura ai vv. 79 ss. e la descrizione dell'invulnerabilità del corpo di Ercole fornita dalle prigioniere di Ecalia ai vv. 151 ss. (con le le considerazioni svolte al riguardo in Commento § 2.1). La via per raggiungere l'ideale filosofico passa dunque attraverso la distruzione del corpo e

245

Ercole si era innamorato di Iole. Il padre di lei, Eurito, re di Ecalia, lo aveva sfidato a una gara con l'arco, ma dopo essere stato sconfitto, si era rifiutato di concedergli la figlia. Ercole allora lo uccise, distrusse la sua città, e portò via Iole come sua schiava e concubina.

l'affermazione della sola forza interiore, che si esplica nella serena accettazione del destino di morte e nella capacità di sopportare in modo imperturbabile il dolore246.

Il passaggio attraverso questi momenti avviene in modo graduale e studiato a partire dal v. 784, con il racconto di Illo di ciò che accade durante il sacrificio a Giove Ceneo. Le prime parole che Ercole pronuncia, nella preghiera a Giove riferita come discorso diretto nella rhesis di Illo, rispecchiano pienamente le sue proclamazioni del prologo. Ci sono infatti precisi richiami interni: viene rivendicata la paternità divina nell'invocazione (v. 791 non false … genitor); delle proprie imprese è sottolineata l'attività di pacificatore247 e di uccisore di fiere (vv. 794-795 pacata tellus – inquit – et

caelum et freta, / feris subactis); per il fatto di essere ritornato dall'Oltretomba, egli si

ritiene "vincitore di tutto" (v. 795 omnibus uictor redi); grazie all'operato di Ercole, che ha prevenuto l'intervento di Giove sulla terra, il re degli dei può deporre il fulmine (v. 796 depone fulmen). Anche la situazione drammatica è apparentemente analoga; in entrambi i casi si tratta infatti di contesti di preghiera al padre Giove. Ecco che però sopraggiunge la katastrophé: mentre sta compiendo il sacrificio l'eroe viene improvvisamente assalito da un dolore che non è capace di dominare. Gli sfugge un orrendo gemito, e subito un impulso lo spinge ad agire in modo efferato contro Lica; Ercole commette qui un'azione doppiamente turpe e vile: non solo perché uccide un innocente, ma anche perché Lica muore di paura abbracciando l'altare, e quindi egli, scagliandolo dalla rupe, non fa altro che straziare un cadavere248. Nel compiere questo atto, l'eroe non è preda della pazzia, come nell'HF (e come credono in un primo momento quanti gli stanno intorno: cfr. vv. 806-807 e 823), ma conserva piena coscienza e responsabilità delle proprie azioni, ed è consapevole che tale azione è vile e indegna di lui, come dichiara esplicitamente al v. 816: facta inquinentur: fiat hic

summus labor. La motivazione del suo agire è il non sapersi dominare di fronte a un

dolore incontenibile: proprio questa è l'ultima prova che egli dovrà affrontare, la più difficile tra tutte quelle che ha finora superato.

In una prima fase, che occupa una porzione non esigua della tragedia (fino alla rivelazione di Illo ai vv. 1464-1471), Ercole soccombe al dolore, non lo accetta e si ribella: le sue reazioni, dopo la violenta uccisione di Lica narrata da Illo, con l'ingresso del personaggio ai vv. 1131 ss. hanno modo di esprimersi direttamente attraverso i suoi discorsi sulla scena. Benché l'eroe sia profondamente turbato, nelle sue parole permane lo stesso accento orgoglioso di sfida che caratterizzava il prologo. Quest'atteggiamento viene superato in modo graduale, man mano che il male interiore lo logora, fino a prostrarlo nella massima umiliazione. L'evoluzione psicologica del personaggio è rappresentata sulla scena in un lungo monologo (vv. 1131-1136), diviso in quattro sezioni da tre interventi anapestici del Coro249. Nelle quattro sezioni si evidenzia una chiara progressione interiore:

246

Interessanti osservazioni al riguardo si trovano in AUVRAY 1989, pp. 51 ss. Non sono tuttavia convinta che nell'HO sia tematizzata una distinzione animo/corpo in base alla visione dualistica stoica razionale/irrazionale (cfr. le pp. 57-58).

247

Cfr. v. 3 e nota ad loc.

248

Come di consueto nell'HO, ogni uccisione deve essere particolarmente truculenta (cfr. la morte di Eurito al v. 209 e la nota al v. 26 riguardo all'uccisione di Gerione). Le conseguenze del lancio del corpo dalla rupe sono qui esagerate in modo grottesco: vv. 817 ss. in astra missus fertur et nubes uago / spargit

cruore … truncus in pontum cadit, / in saxa ceruix: funus ambobus iacet. 249

1. vv. 1131-1150: le prime parole di Ercole mostrano un atteggiamento tracotante e si connettono direttamente al prologo: l'eroe riprende il concetto, ripetutamente espresso nel monologo incipitario, secondo cui egli ha reso sicuro il regno di Giove e inutile ogni