A partire da D. Heinsius quasi tutti i sostenitori della non autenticità dell'HO hanno portato come prove singole anomalie linguistiche contenute nell'opera141. Manca però un'analisi complessiva e sistematica della lingua del dramma. Allo stato attuale, lo studio più approfondito è quello della Billerbeck all'interno del saggio dedicato alla lingua delle tragedie di Seneca142. La studiosa, però, non tratta le anomalie linguistiche dell'HO, ma prende in considerazione solo i termini presenti nell'HO che non si trovano nelle tragedie di Seneca: individua così quasi un centinaio di parole (soprattutto sostantivi, aggettivi e verbi)143 estranee al sermo tragicus di Seneca (ma alcune si trovano nelle opere in prosa). Nella maggior parte dei casi si tratta di termini attestati nella lingua poetica compresa tra Virgilio e gli epici flavi, con una più marcata consonanza con Ovidio; in qualche raro caso si tratta invece di termini attestati solo in prosa. La mia analisi prenderà in considerazione i casi – non esaminati dalla Billerbeck – in cui l'HO si differenzia dagli usi linguistici delle tragedie di Seneca, allo scopo di individuare le tendenze stilistiche dell'Autore.
§ 1.4.1. PARTICOLARITÀ NELL'USO DELLE INTERIEZIONI
L'uso delle interiezioni in Seneca è molto standardizzato, nel senso che le forme utilizzate sono in numero limitato e vengono impiegate in modi fissi. Per questo risultano più significativi gli scarti che l'HO presenta rispetto all'usus senecano.
In primo luogo si nota una presenza molto maggiore di interiezioni nell'HO rispetto alle tragedie di Seneca:
- o è usato 34 volte nell'HO. Nelle tragedie di Seneca è l'interiezione di gran lunga più frequente (85 occorrenze), ma c'è una grande variabilità di frequenza nei singoli drammi: ne hanno poche occorrenze Phoen. (3), Med. (5), Oed. (7) e Thy. (8); la tragedia che ne ha un maggior numero è la Phaedra (22), seguita da Tro. (15) e HF (14);
- pro è usato 16 volte nell'HO, nelle tragedie di Seneca 6; si riscontrano inoltre differenze nell'uso della particella (per le quali cfr. infra);
- ei mihi si trova 6 volte nell'HO, mai nelle tragedie autentiche; - l'impiego di heu (3 casi)144 è in linea con l'usus senecano145;
141
Si vedano in particolare HEINSIUS D., pp. 344-347; RICHTER 1862, pp. 24-27; LEO 1878,I,pp. 61-69; BIRT 1879, p. 516; FRIEDRICH 1954, pp. 68-75; ZWIERLEIN 1986, pp. 319-320 e 334. Le anomalie linguistiche portate dai primi quattro studiosi citati sono in parte discusse, con l'intenzione di ridimensionarle, da ACKERMANN 1907, pp. 371-386.
142
BILLERBECK 1988, pp. 145-173.
143
L'elenco complessivo di queste parole è riportato alle pp. 172-173.
144
Diventano 4 se al v. 1218 si sceglie la lezione di E heu qualis: cfr. infra.
145
Heu si trova 9 volte nelle tragedie di Seneca, di cui 5 nella Phaedra (ricorre inoltre 6 volte nell'Octauia). Si trova o nell'espressione heu me (HO 1761; Tro. 476, 681; Phae. 898, 997, 1173) oppure isolato, all'inizio della frase (HO 1595 heu quid hoc?; Phae. 847-848 heu, labor quantus fuit /
Phlegethonte ab imo petere longinquum aethera; Ag. 589-590 heu quam dulce malum mortalibus additum / uitae dirus amor) o all'interno della frase (HO 123-124 stamus, sed patriae messibus heu locus / et siluis dabitur; Med. 649 raptus, heu, tutas puer inter undas; Phae. 1123 quanti casus, heu, magna rotant!).
- eheu, esclamazione già enniana (Alex. 47 e Thy. 302 Jocelyn), impiegata tra gli altri da Catullo, Orazio, Ovidio (non da Virgilio e Lucano), in Seneca si trova in Phae. 868 eheu, per tui sceptrum imperi e Ag. 868 eheu quid hoc est?. Nell'HO si trova al v. 1218 eheu quis intus scorpios146.
L'Autore dell'HO, quindi, sfrutta tutte le possibilità espressive offerte in questo campo da Seneca, e in più amplia il repertorio delle interiezioni, probabilmente perché, facendone un uso più abbondante, avverte la necessità di variare. In generale, si nota che quando un determinato uso non è attestato in Seneca, lo è in modo massiccio in Ovidio e/o nei poeti di età flavia.
Esaminiamo dunque più nel dettaglio gli elementi estranei all'usus senecano.
Ei mihi
Questa esclamazione di lamento si trova 6 volte nell'HO, quasi sempre in fine di verso: 1024 Fugit attonita, ei mihi.
1172-1173 inpendo, ei mihi147, / in nulla uitam facta. 1181-1182 cadere potuissem, ei mihi148, / Iunonis odio 1205-1206 perdidi mortem, ei mihi, / totiens honestam
1402-1403 Ei mihi, sensus quoque / excussit illi nimius impulsus dolor. 1784 ei miserae mihi!
Non compare mai nelle tragedie autentiche di Seneca; si trova solo in Oct. 150 intrauit
hostis, ei mihi, captam domum (non in fine di verso). Ei da solo non è mai attestato nel corpus senecano.
Questa esclamazione è invece molto amata da Ovidio, che la usa 46 volte nelle opere a noi pervenute (di cui 16 nelle Heroides e 10 nei Tristia); l'interiezione è sempre collocata in inizio di verso, tranne che in Her. 17, 246 ibit per gladios, ei mihi! noster
amor. È frequente anche in Stazio (13 casi, di cui 11 nella Tebaide), con collocazione
più mobile rispetto a Ovidio (si trova preferibilmente in inizio di verso, ma occasionalmente anche all'interno, in diverse posizioni).
146
La tradizione è divisa tra eheu quis di A e heu qualis di E. Entrambe le lezioni sono accettabili: gli editori anteriori a Zwierlein stampano la lezione di E, da Zwierlein in poi viene invece stampata la lezione di A. Quest'ultima sembra in effetti preferibile in quanto conserva l'anafora quis … scorpio, quis …
cancer. Inoltre è semplice spiegare come può essersi formata la lezione di E: dopo che eheu si è corrotto
nel più comune heu, per aggiustare il metro è stato introdotto qualis.
147
La tradizione è divisa tra impendo ei mihi di E e impendo male di A, ma la lezione di E è giustamente accolta da tutti gli editori.
148
Ei è integrazione del Lipsius nella lezione di A potuissem mihi (E ha potuisset mihi). La correzione del Lipsius (accolta da tutti gli editori anteriori a Zwierlein e da Fitch) è più economica e dà miglior senso di
placuisset proposto da BIRT 1879, p. 541 e messo a testo da Zwierlein (cfr. in proposito FITCH 2004a, pp. 213-214).
Pro
A proposito della particella esclamativa pro, Leo149 rileva una differenza nell'uso tra Seneca e l'Autore dell'HO: infatti nelle tragedie senecane pro è utilizzato soltanto per le invocazioni agli dei (cfr. HF 516-517 pro numinum uis summa, pro caelestium / rector
parensque), mentre nell'HO l'impiego è più ampio, equivalente a o (come dimostra il
confronto tra HO 1778 o nimis felix, nimis e HO 1803 pro nimis felix, nimis). In realtà l'affermazione di Leo va un po' sfumata: anche nelle opere di Seneca pro si trova riferito a concetti astratti: cfr. Oed. 19 pro misera pietas; Ag. 35 pro nefas; Dial. 10, 12, 2 pro
facinus; 11, 17, 4 pro pudor imperii; Nat. 4b, 13, 8 pro pudor. Il caso di Phae. 903 pro sancta Pietas, pro gubernator poli è diverso da quello dell'Oedipus, in quanto la pietas,
dato l'accostamento nell'invocazione a Giove, può essere intesa come la divinità. Vediamo più nel dettaglio i diversi usi della particella esclamativa pro nell'HO: (a) invocazione di un dio: 291-292 summe pro rector deum / et clare Titan; 1173-1174
pro mundi arbiter / superique quondam dexterae testes meae; 1275 summe pro rector poli; 1532 pro Titan;
(b) invocazione di un concetto astratto: 219-220 pro saeue decor formaque mortem /
paritura mihi150
; 769 pro diem, infandum diem!; 965 pro nimis mens credula; 1175
pro cuncta tellus; 1419 pro lux acerba, pro capax scelerum dies!;
(c) invocazione di persone (o animali): 966 pro Nesse fallax atque semiferi doli!; 1201
pro ferae, uictae ferae!; 1364 in ipsa me iactate, pro comites, freta;
(d) interiezione isolata: 210-211 pro, si tumulum fata dedissent, / quotiens, genitor,
quaerendus eras!; 1231 pro, quantum est malum; HO 1803-1804 pro nimis felix, nimis
[scil. fuissem] / si fulminantem et ipsa sensissem Iouem!
In due dei quattro passi delle tragedie senecane in cui ricorre il pro esclamativo, questo è impiegato in anafora: HF 516-517 pro numinum uis summa, pro caelestium /
rector parensque; Phae. 903 pro sancta Pietas, pro gubernator poli. Anche l'Autore
dell'HO ama questo espediente retorico: 965-966 pro nimis mens credula, / pro Nesse
fallax atque semiferi doli!; 1173-1175 pro mundi arbiter / superique quondam dexterae testes meae, / pro cuncta tellus; con variazione pro … o ai vv. 1231-1232 pro, quantum est malum / quod esse uastum fateor, o dirum nefas!
Una tendenza che si individua nell'uso di pro esclamativo nelle tragedie di Seneca è questa: quando si tratta dell'invocazione di una divinità, l'esclamazione si trova sempre all'inizio della battuta del personaggio; quando si tratta dell'invocazione di un concetto astratto, invece, l'esclamazione si trova all'interno della battuta. Tale tendenza non è rispettata nell'HO; non lo è nemmeno nell'Octauia, in cui le due occorrenze di pro esclamativo sono rispettivamente una per l'invocazione a Giove (v. 245 pro summe
genitor), una per l'invocazione di un concetto astratto (v. 147 pro facinus ingens!), ma
sono entrambe all'interno della battuta di un personaggio.
L'uso di pro in riferimento a concetti astratti, come si è visto, non è estraneo a Seneca. È abbastanza frequente in Lucano: 2, 98 pro fata; 4, 231-232 pro dira pudoris /
funera!; 5, 57 pro tristia fata; 10, 146-147 pro caecus et amens / ambitione furor; 8, 597
149
LEO 1878,I,p. 66.
150
Zwierlein, stampando una virgola dopo pro, sembra interpretarlo non come un rafforzativo del vocativo, ma come un'interiezione isolata, analogamente ai casi riportati al punto (d); ma cfr. i numerosi casi in cui pro è costruito con il vocativo (e non con il nominativo), riportati nella nota di commento a HO 219.
pro superum pudor; 10, 47 pro pudor. Ed è ancora più frequente nei poeti di età flavia,
soprattutto in Stazio: cfr. per es. Theb. 3, 370 pro uitae foeda cupido! (per altri es. cfr.
TLL X.2, 1439, 47 ss.). In particolare, per l'invocazione alla mens di HO 965, cfr. Stat. Theb. 2, 92-93 pro gnara nihil mortalia fati / corda sui! e 5, 718-19 pro fors et caeca futuri / mens hominum!
Privo di paralleli nelle tragedie di Seneca è l'uso di pro esclamativo in riferimento a persone o oggetti concreti. Tale uso è frequente in Silio Italico: cfr. Pun. 2, 309 pro
demens, pro pectus inane deorum (in riferimento ad Annibale); 8, 405-406 [scil. Tullius] indole pro quanta iuuenis quantumque daturus / Ausoniae populis uentura in saecula ciuem!; 10, 68-69 pro degener altae / uirtutis patrum!; 14, 505 pro qualis! (in
riferimento al giovane Podaeto); Sil. 7, 542-543 pro lubrica rostra / et uanis fora laeta
uiris! (cfr. già Hor. Carm. 3, 5, 7 pro curia inuersique mores!).
Privo di paralleli nelle tragedie di Seneca è anche l'uso di pro come interiezione isolata. Tale impiego è invece attestato in Ovidio, Lucano, Silio Italico e, in prosa, in Livio e Curzio Rufo (cfr. TLL X.2, 1440, 14 ss.). In particolare per pro! quantus … (variamente declinato), come in HO 1231, cfr. Ov. Met. 13, 758-759 pro, quanta
potentia regni / est, Venus alma, tui!; Sil. 13, 883-885 pro! quanto leuius mortalibus aegra subire / seruitia … quam posse mori!; per pro davanti a periodo ipotetico, come
in HO 210-211 e 1803-1804, cfr. Luc. 3, 73 pro, si remeasset in urbem.
§ 1.4.2. PARTICOLARITÀ NELL'USO DEGLI AVVERBI
Ecce
Zwierlein rileva l'anomalia, rispetto all'usus senecano, della collocazione di ecce all'interno della frase151. Seneca colloca ecce solo in prima o seconda posizione; nell'HO esulano dalla norma senecana i seguenti casi:
72 inuasit omnis ecce iam caelum fera 1603 laeto uenit ecce uultu
925 per has aniles ecce te supplex comas … obsecro
A questi Zwierlein aggiunge anche: 254 sonuere postes ecce praecipiti gradu; 1595
mundus sonat ecce caecum; ma in questi due casi la posizione di ecce dipende dalle
scelte testuali e di punteggiatura fatte dall'editore. Al v. 254 è sicuramente preferibile l'interpunzione sonuere postes: ecce praecipiti gradu, eqs. (cfr. in proposito la nota di commento ad loc.). Al v. 1595 il problema testuale è di difficile risoluzione, in quanto c'è una lacuna nella tradizione manoscritta152: se si accoglie ecce maeret dei recenziori l'uso di ecce risulta regolare (in prima posizione); delle varie proposte di integrazione
151
Cfr. ZWIERLEIN 1986,p. 319.
152
La lacuna è estesa ai vv. 1564-1606 in E; limitata all'ultima parola del v. 1595 in A. Alcuni manoscritti la integrano ripetendo una parola circostante: mundus P, maeret i recenziori. Mundus è stampato solo da Giardina; maeret da Leo, Peiper-Richter, Herrmann, Moricca, Viansino, Averna.
che sono state avanzate nessuna è del tutto convincente153; pertanto è più prudente stampare lacuna ed escludere questo passo dal computo dei casi anomali di uso di ecce.
Anche per quanto riguarda ecce nell'HO si riscontra un'utilizzazione più abbondante rispetto a Seneca: ce ne sono 18 occorrenze, mentre nelle tragedie autentiche si oscilla da 1 attestazione in Tro. e Thy. a 7 nell'HF. Tale tendenza è in linea con quella già notata per le interiezioni, a cui in effetti ecce è nell'uso in parte affine.
Deinde
Leo nota un uso anomalo di deinde nell'HO154 in: 858-860 occupa ferrum ocius –
cur deinde ferrum? quidquid ad mortem trahit telum est abunde: rupe ab aetheria ferar.
1406-1408 quas petam latebras anus? –
cur deinde latebras aut fugam uecors petam? obire forti meruit Alcmene manu:
Queste sono le uniche attestazioni di deinde nell'HO e l'uso dell'avverbio è identico nei due casi: è impiegato in un'interrogativa retorica che ripete negandolo quanto detto nella frase immediatamente precedente. Il valore consequenziale è molto sfumato (in italiano si può tradurlo con "ma poi") e ha piuttosto la funzione di rafforzare l'interrogativa. Tale uso è in effetti estraneo a Seneca: deinde, nelle tre attestazioni del corpus, ha sempre il significato di "dopo", "inoltre", rispetto a quanto si è detto appena prima: Oed. 938 ss.
moreris: hoc patri sat est; / quid deinde matri…?; Thy. 169 instat deinde sitis non leuior fame; 713-714 quem prius mactet sibi / dubitat, secunda deinde quem caede immolet;
730 quid deinde gemina caede perfunctus facit?
Il nesso cur deinde è attestato in prosa e segna un passaggio del ragionamento ("e poi, perché…"): Cic. Fin. 2, 98 cur deinde Metrodori liberos commendas? (cfr. anche Cic. Lucullus 49, 12); Gell. 12, 5, 4 cur dolor aput Stoicos indifferens esse dicitur, non
malum? cur deinde aut stoicus homo cogi aliquid potest aut dolor cogere, cum et dolorem Stoici nihil cogere et sapientem nihil cogi posse dicant?
Un uso molto simile a quello dell'HO si trova in Ov. Met. 3, 465 quid faciam? roger
anne rogem? quid deinde rogabo? (si tratta del monologo di Narciso; dopo aver capito
di essersi innamorato del proprio riflesso il giovane si chiede che cosa debba fare). Il parallelo è interessante in quanto il contesto è analogo a quello dei due passi dell'HO: in tutti e tre i casi il parlante si interroga sul da farsi e il deinde segna una progressione del
153
Alcuni emendamenti che sono stati proposti: caecum di ZWIERLEIN 1986, pp. 415-416 (accolto a testo nell'edizione); maestum di WATT 1989, pp. 344-345, accolto a testo da Chaumartin; uastum di FITCH 2004b, pp. 247-248 (accolto a testo nell'edizione).
154
LEO 1878, p. 63: «quo non temporis progressum indicat sed quod ante dictum est cum vi quadam ad particulam interrogativam accedens repetit».
pensiero, con la quale si stabilisce che il proposito appena formulato è inutile o impossibile155.
Magis
Leo rileva l'anomalia dell'uso di magis nel senso di potius in HO 1600: Heu quid hoc? mundus sonat ecce caecum.
maeret Alciden pater? an deorum clamor, an uox est timidae nouercae Hercule et uiso fugit astra Iuno? passus an pondus titubauit Atlas? an magis diri tremuere manes Herculem et uisum canis inferorum fugit abruptis trepidus catenis? fallimur: laeto uenit ecce uultu quem tulit Poeans umerisque tela gestat et notas populis pharetras, Herculis heres. (vv. 1595-1606)
Già Melzer156 citava come es. di magis nel significato di 'piuttosto' Verg. Ecl. 1, 11 non
equidem inuideo, miror magis; Stat. Ach. 1, 140-141 sed longum cuncta enumerare uetorque. / trade magis! (per altri es. cfr. TLL VIII, 58, 22 ss. «vi adverbii: fere i.q.
potius»). Ma un parallelo perfetto per l'uso di an magis ("o piuttosto") in questo contesto è dato, a mio parere, da Ov. Fast. 4, 799. Come il coro dell'HO si interroga sulla causa del fragore che ha sentito ed esprime varie ipotesi in proposito, in forma di interrogativa introdotta da an, così Ovidio, nell'illustrare l'eziologia della festa dei
Parilia, dà varie possibili spiegazioni dell'origine del rito (vv. 783-806):
expositus mos est; moris mihi restat origo: turba facit dubium coeptaque nostra tenet.
omnia purgat edax ignis uitiumque metallis 785 excoquit: idcirco cum duce purgat oues?
an, quia cunctarum contraria semina rerum sunt duo discordes, ignis et unda, dei, iunxerunt elementa patres, aptumque putarunt
ignibus et sparsa tangere corpus aqua? 790 an, quod in his uitae causa est, haec perdidit exul,
his noua fit coniunx, haec duo magna putant? uix equidem credo: sunt qui Phaethonta referri credant et nimias Deucalionis aquas. (…)
an magis hunc morem pietas Aeneia fecit,
155
Casi in cui il valore originario di deinde è molto sfumato, per cui l'avverbio ha piuttosto la funzione di rafforzare l'interrogativa, sono a mio parere Verg. Aen. 12, 889 quae nunc deinde morast?; Sil. 5, 633-634
quid deinde, quid, oro, / restat, io, profugis?; 10, 267-268 quid deinde relictum / crastina cur Tyrios lux non deducat ad urbem. In tutti e tre i casi si tratta dell'inizio di un discorso; deinde significherebbe "dopo
tutto quello che è successo".
156
innocuum uicto cui dedit ignis iter? 800 num tamen est uero propius, cum condita Roma est,
transferri iussos in noua tecta Lares, mutantesque domum tectis agrestibus ignem et cessaturae subposuisse casae,
per flammas saluisse pecus, saluisse colonos? 805 quod fit natali nunc quoque, Roma, tuo.
In entrambi i casi le varie ipotesi sono espresse in forma di interrogativa introdotta da
an e l'ultima ipotesi scartata è introdotta da an magis; dopo di essa si ha l'affermazione
del punto di vista del parlante. Ovidio utilizza una struttura argomentativa simile anche per un altro inserto eziologico: nell'illustrare il perché della presenza della statua di un uomo dal volto coperto nel tempio della Fortuna del Foro Boario; Ovidio fornisce tre diverse spiegazioni, delle quali la terza – che è anche la più espansa – è la preferita. La seconda si presenta simile nella formulazione al passo in questione dell'HO: vv. 581- 584 an magis est uerum post Tulli funera plebem / confusam placidi morte fuisse ducis:
/ nec modus ullus erat, crescebat imagine luctus, / donec eum positis occuluere togis?
Per altri esempi di an magis nel senso di 'o piuttosto' in contesti in cui si propongono più alternative cfr. Lucr. 4, 794; Ov. Met. 4, 47; Val. Flacc. 7, 75.
Interim
FRIEDRICH 1954, p. 68 osserva: «Interim in der Bedeutung interdum fällt bei Quintilian
nicht weiter auf, wohl aber bei Seneca. Innerhalb der Tragödien kommt interim so nur zweimal vor, beide Male im Oetaeus». I due casi in cui interim significa 'talvolta' sono:
480-481 praestare fateor posse me tacitam fidem, si scelere careat: interim scelus est fides. 930-931 interim poena est mori, / sed saepe donum
In HO 409 famula illa trahitur interim donum tibi l'avverbio è invece usato col significato consueto di 'intanto', come nelle uniche due attestazioni nelle tragedie di Seneca: Tro. 997 dumque ista ueniant, interim hoc poenae loco est; Phae. 1274 interim
haec ignes ferant.
L'uso di interim con il significato di 'talvolta' è frequentissimo in Quintiliano (cfr.
TLL VII.1, 2205, 7 ss.), ma, contrariamente a quanto dice Friedrich, si trova anche nelle
opere in prosa di Seneca: Dial. 4, 21, 8 timeat interim, uereatur semper; 12, 17, 1
uolumus interim illum [scil. dolorem] obruere … ludis interim aut gladiatoribus animum occupamus; Ben. 5, 25, 6 inest interim animis uoluntas bona, sed torpet; Ep.
33, 2 sed <in> illo magis adnotantur quia rarae interim interueniunt, quia
inexpectatae; 36, 9 solet obrepere interim somnus. Quest'uso di interim è attestato anche
in autori precedenti: cfr. Seneca Rhet. Contr. 2, 2, 12 [scil. Naso] aiebat interim
decentiorem faciem esse in qua aliquis naeuos esset; ancora Seneca padre ne testimonia
l'utilizzo anche da parte di Livio: cfr. Suas. 6, 22 ipse fortunae diu prosperae sed in
longo tenore felicitatis magnis interim ictus uulneribus, exilio, eqs. (Liv. fr. 60: si tratta
significato di interim in Seneca, quanto che l'avverbio sia di uso prosastico. L'unica altra attestazione poetica di interim con questo significato registrata dal TLL è in Stat. Sil. 4, 5, 57-60 hic plura pones uocibus et modis / passim solutis, sed memor interim / nostri
uerecundo latentem / barbiton ingemina sub antro. Ma anche nel suo significato più
comune interim è rarissimo in poesia: nei poeti di età classica ricorre solo due volte in Orazio, due nelle tragedie di Seneca (cfr. supra) e due in Stazio.
Fere
Friedrich157 evidenzia l'uso prosastico e «unpoetische» di fere in: 407 conciliat animos coniugum partus fere
452-453 artibus magicis fere / coniugia nuptae precibus admixtis ligant.
In entrambi i passi fere ha il significato di 'spesso, in genere' (equivalente a plerumque), mentre nelle uniche altre attestazioni nel corpus tragico senecano significa 'quasi, all'incirca': Tro. 438 partes fere nox alma transierat duas; 1143-1145 stupet omne
uulgus: [et fere cuncti magis / peritura laudant]158 hos mouet formae decus, / hos mollis
aetas, hos uagae rerum uices. Tale significato di fere è però frequente nelle opere in
prosa di Seneca: cfr. per es. Dial. 2, 10, 2 in quae fere delicati et felices incidunt; 3, 12,