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Cominceremo in questo paragrafo ad addentrarci nell'analisi delle modalità del filosofare socratico, ovvero della forma e dei mezzi attraverso cui Socrate potrebbe aver trovato e insegnato una qualche sapienza. Ci soffermeremo innanzitutto sui dialoghi platonici, ponendoci la questione se il sapere socratico possa essere il risultato di quello che è il procedimento dialettico principale adoperato dal Socrate platonico: l'elenchos. Analizzeremo nel presente paragrafo, contestandole, le argomentazioni di Vlastos, che ha sostenuto appunto l'ipotesi che l'elenchos avesse condotto Socrate alla dimostrazione positiva di un certo set di opinioni morali coerenti. Nel prossimo paragrafo, quindi, cercheremo in Platone le tracce di

35 Cfr. Symp. 175d: “Sarebbe bello, o Agatone, se la sapienza fosse di tal natura che scorresse dal più pieno al più vuoto di noi solo a toccarci, come l'acqua che in due tazze scorre, attraverso un filo di lana, da quella più piena a quella più vuota.”

36 Se anche Socrate si dichiara disposto a rispondere alle domande, piuttosto che ad interrogare, sembra che Socrate non esponesse mai la propria opinione (almeno non in pubblico e su questioni generali). Ciò lo si può dedurre principalmente a partire da passi come Resp. 337a, e Mem. IV, 4, 9, ove Socrate viene accusato, rispettivamente da Trasimaco e da Ippia, di esser solito non esprimere chiaramente il proprio punto di vista (cfr. infra).

una fase non confutativa della dialettica socratica: se infatti non è l'elenchos a consentire a Socrate il raggiungimento di un sapere positivo, allora è possibile che altri procedimenti dialettici non confutativi fossero praticati da Socrate quotidianamente. Ed effettivamente numerosi sono gli accenni nelle opere socratiche di Platone ad una “ricerca condivisa”, come scopo cui la confutazione dovrebbe condurre: una volta reso l'interlocutore consapevole della propria ignoranza, egli è ormai pronto a partecipare cooperativamente alla ricerca del filosofo. L'ipotesi che si avanzerà è che, in effetti, solo scelte autoriali differenti abbiano fatto sì che in Senofonte ci sia rappresentato un Socrate molto meno polemico di quello platonico. Entrambi gli atteggiamenti potrebbero esser stati propri del Socrate storico, se si ammette che la sua pratica fosse composta da componenti ben distinte, espresse selettivamente in base allo stato dell'anima dell'interlocutore. Il paragrafo 2.4 dunque sarà dedicato, attraverso il confronto con l'analisi di Dorion, alle ragioni della sostanziale assenza dell'elenchos nei Memorabili. Nel successivo paragrafo, infine, (2.5) ci si interrogherà sulla natura della fase positiva della dialettica socratica per come presentata in Senofonte, attraverso il confronto con i contributi di altri due studiosi che si sono recentemente occupati del tema.37

Ma per arrivare a domandarci se Socrate possedesse un sapere positivo, e un metodo dialettico positivamente volto al rinvenimento di un tale sapere, bisogna a questo punto richiamare alcune delle evidenze fondamentali che generano la contraddizione testuale che rende così problematica la definizione del sapere socratico.

La contraddizione è evidente in prima istanza dalla dinamica tipica dei dialoghi aporetici. L'esempio più lineare è l'Eutifrone,38 nel quale, nonostante l'iniziale dichiarazione d'ignoranza,

Socrate finisce per apparire decisamente meno sprovveduto dell'interlocutore, rispetto al tema in oggetto (il “santo”). Ma d'altro canto Socrate è noto per il suo rifiuto di esporre le proprie opinioni, e accusato di fingersi ignorante. Il passo più rappresentativo a questo proposito si trova senz'altro nel primo libro della Repubblica, ove Trasimaco esclama:

37 Si tratta dei già citati saggi di C. Natali e J.-B. Gourinat. Entrambi gli studiosi prendono le mosse dall'osservazione che è in Senofonte che bisogna cercare se si vuole trovare chiara traccia di una dialettica socratica non puramente confutativa. Cfr. Natali, op. cit., p. 5, “Xenophon's Memorabilia are the main testimony for a non-refutative dialectic in Socrates, a dialectic which has the aim of arriving at positive determinations, and definitions of moral good and human virtue”.

38 Considerabile il prototipo del dialogo aporetico, si veda ad es. G. Matthews, Perplexity in Plato, Aristotle

and Tarski, in “Philosophical studies:an international journal for philosophy in the analytic tradition”, 85,

1996, p. 215, cfr. infra, Appendice III; cfr. F. Ferrari (a cura di), Socrate tra personaggio e mito, Bur, Milano, 2007, p. 195.

Per Eracle, eccola qui la famosa ironia di Socrate! Eh, lo sapevo io, anzi lo dicevo prima a questi qui che tu non solo non avresti voluto rispondere, ma avresti fatto dell'ironia e tentato ogni via piuttosto che rispondere alle domande che ti fossero state rivolte. (337a)

Un'accusa straordinariamente simile gli è rivolta anche da Ippia nei Memorabili: “È ora che tu smetta di prenderti gioco degli altri interrogando e confutando tutti, mentre non vuoi riconoscere ragione a nessuno e non riveli il tuo pensiero su nessun problema” (IV, 4, 9).39

Nell'Apologia platonica Socrate si difende definendo una “calunnia” quella secondo la quale “c'è un certo Socrate, un uomo sapiente, [...]” (18b6-c1). Il filosofo avanza un'ipotesi precisa per spiegare la diffusione di tale calunnia: “[...] ogni volta, infatti, gli ascoltatori concludono che sia io il sapiente nel campo in cui confuto gli altri” (Apol. 23a). L'opinione condivisa da Trasimaco e da Ippia, ovvero che Socrate, pur possedendo un sapere lo tiene nascosto, limitandosi ad interrogare, sarebbe dunque il risultato di una scorretta valutazione del significato della confutazione. Ma il passo in cui forse più chiaramente il filosofo afferma la propria ignoranza è il seguente:

Allorché ho saputo di quel responso, naturalmente mi è venuto da riflettere: – Che mai vuol dire il dio, a cosa alluderà? Io per me sono consapevole di non essere sapiente affatto, per cui mi chiedo cosa mai intende […]. (Apol. 21b) 40

39 Sulla risposta di Socrate ci soffermeremo più avanti. Gourinat (op. cit. p. 134), che ha interesse a dimostrare che il Socrate senofonteo, al contrario di quello platonico, è solito esporre il proprio punto di vista, liquida questo passo supponendo che Senofonte si limiti a riportare l'opinione di Ippia. Ma a noi sembra che esso non possa non costituire un chiaro esempio di come anche in Senofonte sia testimoniata la professione d'ignoranza socratica, o almeno, la sua abitudine a non rispondere alle domande, limitandosi a porle (almeno in pubblico).

40 Vlastos, come vedremo fa un uso centrale di questo passo per dimostrare che il disconoscimento socratico del sapere è totale. E in effetti la denegazione di sapere è qui sicuramente più generale, ma forse solo la traduzione adottata da Vlastos permette considerarla un disconoscimento categorico di ogni tipo di sapere (trad. usata dall'ediz. italiana: “Sono consapevole di non essere sapiente in alcunché, né poco né molto”,

Socrate..., cit., p. 317). La traduzione di Vlastos è stata contestata da A. Brancacci (Il sapere di Socrate nell'Apologia, in Lezioni socratiche, a cura di G. Giannantoni e M. Narcy, Bibliopolis, Napoli, 1997, pp. 303-

327). Il primo traduce (nell'ancor più esplicita traduzione francese del suo libro) “Je n'ai pas conscience d'être sage en quoi que ce soit, petite ou grande chose […] alors qu'en fait je n'ai aucun savoir, je ne crois pas non plus en avoir”, laddove la traduzione corretta, secondo Brancacci, sarebbe “io ho coscienza in me stesso di non essere sapiente né molto né poco” (è fornita in un altro saggio, Socrate e il tema semantico di coscienza, sempre in Lezioni Socratiche, Bibliopolis, Napoli, 1997, p. 293, cfr. infra p. 72-73) per la prima parte, e “alors qu'en fait je ne sais pas, je ne crois pas non plus de savoir”, Brancacci, Il sapere..., cit., pp. 314-316. Tuttavia l'interpretazione che si vuole proporre nel presente lavoro non richiede che si sfugga all'evidente

E ancora, nel raccontare di come Callia additasse in Eveno di Paro la persona adatta cui affidare l'educazione dei suoi figli, esclama: “E beato Eveno di Paro […] se davvero possiede questa tecnica […] Anch'io mi farei bello e insuperbirei, se avessi queste competenze: il fatto è che mi mancano, Ateniesi” (20b-c).

Nella stessa Apologia tuttavia sono chiaramente espresse da Socrate anche affermazioni che paiono contraddire la sua professione d'ignoranza. Un esempio saliente è 29b: “Che sia male e cosa vergognosa commettere ingiustizia e disobbedire a un'autorità superiore, dio o uomo che sia, questo lo so”. Ma sopratutto va ricordato il noto e discusso passaggio (20d-e, sul quale torneremo più avanti), in cui Socrate afferma di possedere una certa “sapienza umana”.41 Un altro passo annoverato come affermazione esplicita di un sapere positivo lo si

trova poi ad esempio nel Critone: “Dunque non dobbiamo ricambiare le ingiustizie. Né far male a nessuno, qualsiasi cosa gli altri facciano a noi” (49c10-11); affermazione rispetto alla quale poco dopo Socrate dice: “Io la penso così da molto tempo e continuo tuttora, ma se tu la pensi diversamente dillo e istruiscimi”.

Di fronte a queste contraddizioni si sono interrogati gli studiosi, cercando di coniugare le opposte affermazioni possano essere intese. C'è tuttavia anche chi, come Nehamas,42 ha

sostenuto proprio l'insolubilità di questo enigma. Lo studioso prende in esame in primo luogo la soluzione proposta da Irwin. Quest'ultimo, secondo la relazione offerta da Nehamas, tenta di risolvere la contraddizione sostenendo che le affermazioni positive di Socrate vanno considerate quali “vere opinioni”, piuttosto che vere e proprie “conoscenze”. In tal modo la contraddizione tra professione d'ignoranza e affermazioni positive, a rigor di logica, non sussisterebbe. Tuttavia, obbietta Nehamas, almeno nel caso di Apol. 29a-b ciò che pare reclamare Socrate è esplicitamente un “sapere”, e non una “vera opinione”. Lo studioso prende in seguito in esame la proposta di Vlastos: la professione d'ignoranza è da considerarsi come un caso di “ironia complessa”, in cui ciò che è affermato è inteso vero in un senso e falso in un altro. In particolare Socrate affermerebbe di essere ignorante secondo il concetto “filosofico” di conoscenza, intesa come infallibile e deduttivamente certa, mentre affermerebbe il proprio sapere riferendosi ad un concetto più debole di conoscenza, intesa

generalità di questo disconoscimento. 41 Cfr. infra § 3.

42 Cfr. A. Nehamas, The art of living: socratic reflections from Plato to Foucault, University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1998, p. 73. Approfittiamo qui per soffermarci schematicamente sull'argomentazione di Nehamas poiché su di essa vorremo ritornare più avanti, Cfr. infra, § 3.

come conoscenza di un certo numero di definizioni, aventi un certo grado di certezza induttiva dovuto all'aver ripetutamente superato la confutazione (concetto “elenctico”).43 Questa

soluzione è tuttavia per Nehamas ancora inadeguata: il primo dei due concetti (la conoscenza “filosofica”) non può infatti essere adoperato in riferimento a Socrate, non essendo stato ancora compiutamente definito nel V sec.44 L'ipotesi che Nehamas quindi prende in analisi è

che, seguendo lo schema dell'ironia complessa, Socrate avrebbe affermato da un lato di avere conoscenza “elenctica”, negando dall'altro ogni sapere, in riferimento al concetto “tecnico” di conoscenza. Tuttavia, al termine di una complessa argomentazione, lo studioso finisce per scartare anche questa ipotesi, in quanto, sostanzialmente, risulta confutata la possibilità di riconoscere un maestro di virtù, come invece è possibile riconoscere un vero maestro di qualsiasi altra arte. In tal modo, scartata ogni ipotesi, Nehamas crede di poter affermare l'insolubilità dell'enigma socratico. Esso sarebbe poi stato stimolo per la formulazioni da parte di filosofi moderni e contemporanei di differenti “arti di vivere”, alle quali la figura di Socrate con la sua enigmaticità, avrebbe invitato: “like a blank sheet Socrates invite us to write”.45

Questa soluzione della contraddizione tra professione di ignoranza ed affermazioni di un sapere positivo, ci pare tuttavia inaccettabile, almeno finché non si saranno fatti tutti gli sforzi possibili per trovare invece ipotesi di soluzione plausibili ed aderenti alle testimonianze. Affermare l'insolubilità dell'enigma, per quanto elegantemente lo si possa fare, non ci avvicina infatti di un passo alla comprensione del messaggio socratico. E d'altronde ci pare decisamente una sovrainterpretazione il considerare la scelta socratica di non scrivere, e in generale la professione d'ignoranza, come un invito alla scrittura.

Torniamo dunque sul concetto di “ironia complessa”, e sull'ipotesi che sia l'elenchos a fornire a Socrate un sapere positivo. La confutazione condotta contro Vlastos da Nehamas risulta d'altronde poco convincente. Come sosterremo meglio nel §3, il concetto di conoscenza secondo il quale Socrate negava di sapere può esser ben individuato in quella che nell'Apologia viene definita “conoscenza divina” (23a) o “più che umana” (20d-e), e attribuita ironicamente ai naturalisti ed ai sofisti: senza bisogno di trarre tale concetto di conoscenza certa e stabile da riflessioni epistemologiche successive. Attraverso il confronto dialettico con l'ipotesi di Vlastos, ci porremo dunque in questo paragrafo la domanda seguente: può l'elenchos esser stato il procedimento dal quale Socrate traeva la conoscenza che gli permise

43 In Vlastos, Socrate..., cit., la questione è approfondita nel cap. I e nella nota aggiuntiva I.1, p.316 e ss. 44 Tra breve si riprenderà la posizione di Vlastos, ma saranno altre le ragioni che ci condurranno a rifiutarla.

Nehamas, op. cit., pp. 74-75. 45 Ivi, p. 9.

di compiere le sue scelte di vita con sicurezza, fino alla scelta estrema di accettare la condanna a morte? E possono d'altronde le affermazioni di positive sopra citate, essere considerate quali proposizioni la cui veridicità Socrate considerava induttivamente comprovata?

Come accennato, l'ironia complessa si distingue dall'ordinaria ironia, poiché quest'ultima va intesa semplicemente rovesciando il suo significato letterale dell'asserzione (contrarium

quod dicitur intelligendum est).46 Invece “nell'ironia 'complessa' ciò che viene detto a un

tempo è e non è ciò che si intende: il contenuto superficiale dell'asserzione in questione è inteso dal parlante come vero in un senso e falso in un altro”.47 Nel suo noto saggio

sull'elenchos socratico48 Vlastos prendeva le mosse dalla contestazione delle precedenti

definizioni di elenchos (in particolare quella presente nell'Encyclopedia of Philosophy, scritta da Roland Hall). L'errore principale contestato ad esse era di aver sopravvalutato l'aspetto avversativo della procedura elenctica, lasciando in ombra ciò che è invece secondo Vlastos la caratteristica saliente di tale procedura: “Socratic elenchus is a search for moral truth […].”49

Ma a questo errore ne era strettamente legato un altro: l'elenchos era stato descritto come una dimostrazione dell'auto-contraddittorietà della tesi sostenuta dall'interlocutore (ovvero da p derivare non-p). Ma come abbiamo visto50 ciò che Socrate compie confutando, può essere più

correttamente descritto come far sì che la contraddittoria della tesi p sia dedotta, non dalla tesi stessa, ma da altre premesse (q ed r), accettate per vere solo perché ammesse dall'interlocutore. Da queste due difficoltà Vlastos faceva scaturire “il” problema dell'elenchos socratico, lasciato in ombra dalle precedenti definizioni: come può Socrate pretendere attraverso questa procedura di aver dimostrato la falsità della tesi e la verità della sua contraddittoria, se tutto ciò che fa è dimostrare l'incongruenza interna di un certo set di premesse accettate dall'interlocutore?51

Un'osservazione che Vlastos fa derivare dal suo schema dello “standard elenchus” richiede qui una breve digressione, in quanto minaccerebbe profondamente la posizione che si è assunta nel presente lavoro riguardo alla conciliabilità della testimonianza platonica con

46 Secondo la definizione di Quintiliano, Istitutio oratoria, 9.22.44, e similmente in 6.2.15 e 8.6.54. Citato in G. Vlastos, Socratic Irony, The Classical Quarterly New Series, 37, 1987, p. 79, n.1.

47 Vlastos, Socrate..., p. 40.

48 Vlastos, The socratic elenchus, cit. 49 Ivi, p. 30.

50 Supra p. 13.

51 Nello schema in quattro punti del procedimento socratico che Vlastos fornisce, i primi tre corrispondono alla descrizione del procedimento elenctico già riportata, supra, p. 13. Sul quarto torneremo infra. Vlastos, The

quella senofontea. Vlastos infatti attribuisce il silenzio di importanti studiosi come Zeller e Guthrie a proposito dell'elenchos al fatto di aver valorizzato un passo dei Memorabili che descrive il procedere dell'argomentazione socratica nel modo seguente:

[...] Quando poi lui stesso dimostrava qualcosa secondo un ragionamento, procedeva attraverso i punti più generalmente riconosciuti (δι τ ν μ λιστα μολογουμ νωνὰ ῶ ά ὁ έ ), nella convinzione che ciò conferisse sicurezza all'argomentazione. Appunto grazie a questo egli era il più capace, fra quelli che conosco, di ottenere il consenso degli ascoltatori quando parlava. (IV, 6. 15)

Secondo Vlastos questo passo è in conflitto in modo “innegoziabile” con il procedimento dell'elenchos che prende le mosse non da endoxa (ovvero non passa δι τ ν μ λισταὰ ῶ ά

μολογουμ νων

ὁ έ ), ma dalle tesi ammesse dall'interlocutore.

Tuttavia è evidente come sia necessario dedurre l'inconciliabilità delle due testimonianze, solo se si presuppone, come fa Vlastos, che l'elenchos sia l'unica modalità del dialogare socratico.52 Ma se, come si intende fare nel presente lavoro, si ammette la possibilità di una

complessità della dialettica socratica, allora questo conflitto diventa forse sanabile. Anzi, il passo dei Memorabili adoperato da Vlastos, se citato nella sua interezza, può addirittura risultare una delle prove più chiare di questa complessità. La frase immediatamente precedente a quella citata da Vlastos, infatti, è la seguente: “E riportando in questo modo i discorsi ai loro fondamenti, faceva diventare evidente la verità anche agli avversari” (IV, 6, 14). Essa si riferisce ad un breve dialogo appena riportato, che, partendo dal dissenso su chi sia il migliore tra due cittadini, viene spostato da Socrate sulla domanda: “Qual è il compito del buon cittadino (τ στιν ργον γαθοί ἐ ἔ ἀ ῦ πολ τουί )[...]?” Ad una lettura del passo nella sua

interezza, si può ben supporre che se una parte di esso va raffrontato all'elenchos dei dialoghi platonici, è piuttosto la prima (IV, 6, 14), che si riferisce infatti ad un dialogo avente per oggetto una domanda nella classica forma del τ στιν.ί ἐ E non la seconda parte del passo, riferibile, probabilmente, alle “definizioni” che costituiscono il corpo principale del cap. IV 6.53

Ma torniamo alla questione che qui ci interessa, ovvero se l'elenchos possa essere considerato un metodo di dimostrazione della verità di una proposizione.54 Vlastos riconduce 52 Cfr. ivi, p. 46: “If the elenchus, his only line of argument, gave those doctrines no rational grounding […]”

(corsivo mio).

53 Il passo in questione è preso per l'appunto come prova della duplicità del metodo socratico da Leo Strauss, Cfr. Fussi, op. cit., pp. 105-6. Su Mem. IV 6 in generale si tornerà più avanti.

la necessità di mettere in discussione l'idea che l'elenchos socratico sia puramente confutativo, ad un problema in particolare. Se l'esposizione dell'incoerenza delle opinioni dei suoi interlocutori è tutto ciò che Socrate si aspetta dall'elenchos, allora “where did he find positive support for those strong doctrines of his on whose truth he based his life? If the elenchus, his only line of argument, gave those doctrines no rational grounding, what did?”55 Ma è

possibile, secondo lo studioso, abbandonare l'immagine di un elenchos puramente confutativo. Sopratutto sulla base della seguente frase, che Socrate pronuncia nel Gorgia: “Has it not been proved ( ποδεδεικταιἀ ) that what was asserted [by myself] is true?”(479e). L'asserzione in questione è la nota posizione socratica secondo cui “soffrire ingiustizia è meglio che commetterla”. Qualche pagina prima, un passo che abbiamo già in parte citato56 fa riferimento

in maniera ancor più ampia alla verità come scopo del dialogo in corso. In 471b Socrate addirittura accusa Polo sostenendo che, argomentando in modo scorretto (ovvero “portando testimoni come in un tribunale”), lo sta privando di quella che è la sua sola ricchezza: la verità. Ciò costringe apparentemente a rinunciare all'idea di un elenchos puramente confutativo.

La soluzione di Vlastos consiste in una acuta analisi logica dell'elenchos, e di come esso possa condurre, agli occhi di Socrate, a dare qualche fondamento alla verità delle asserzioni indagate. Socrate avrebbe potuto considerare come veritiero l'insieme di asserzioni tra loro coerenti, sopravvissute a numerose confutazioni, sulla base della seguente assunzione: (A) nel

set di opinioni morali di qualsiasi essere umano c'è una qualche opinione vera (q, r) che

implica logicamente la negazione dell'opinione falsa che si vuol confutare (p). In tal modo non c'è la possibilità che un insieme di opinioni morali tra loro coerenti sia falso, poiché almeno una di esse è sicuramente vera. Socrate in altre parole sarebbe stato guidato dalla fiducia che, per ogni credenza falsa consapevolmente sostenuta da un interlocutore (“overt belief”), esistesse, nel suo sistema di opinioni, una credenza implicita (“covert belief”) vera ad