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Una fase non confutatoria della dialettica socratica in Platone.

La distinzione tra i sofisti e Socrate è, com'è noto, ben marcata nei dialoghi platonici. Gabriele Giannantoni ha ad esempio messo in luce la rilevanza del lessico ginnico e agonistico nella descrizione del comportamento di Protagora nel dialogo omonimo, volto a sottolineare la distanza del sofista da Socrate, il quale discute non per φιλονικ αί , ma con lo scopo di “condurre una ricerca in comune, per dissipare i propri dubbi ed apprendere”.71

L'invito ad esporre la propria sincera opinione ed a rispondere in modo breve, infatti, ha senz'altro l'effetto, come si è cercato di sottolineare supra, di rendere possibile a Socrate mettere in luce l'eventuale insipienza dell'interlocutore. Ma in ogni caso, come esprime chiaramente Giannantoni, tale regola, così come la contrapposizione tra discorsi lunghi e discorsi brevi, “non concerne l'opportunità di forme procedurali, di mera tecnica dialettica, ma implica la scelta tra due atteggiamenti di fondo: l'atteggiamento, cioè, di chi vuol persuadere l'interlocutore senza lasciargli margine d'intervento critico, […], e l'atteggiamento di chi vuole

discutere per sottoporre sé stesso e l'interlocutore a quel comune elenchos […], a quel comune

exetazein, in cui si attua la ricerca della verità attraverso la reciproca comprensione, il

reciproco dare e ricevere ragione”.72 In altri termini l'affermare l'esigenza della brachilogia e

della parresia (intesa appunto come sincera esposizione delle opinioni sulle quali si fondano le proprie scelte morali) è innanzitutto una forma di opposizione alla dialettica combattiva cui i sofisti avevano abituato sé stessi, i loro allievi, e l'ambiente culturale ateniese degli ultimi decenni del V sec. Socrate propone un'alternativa: “Io pensavo infatti che una cosa fosse trovarsi insieme dialogando, altro fosse parlare alla folla” (Prot. 336 a-b).73 Salvo però che

l'intenzione di condurre quel “comune exetazein”, quel “comune elenchos”, cui si riferisce Giannantoni, è, nei dialoghi giovanili, generalmente frustrata dall'incontro con interlocutori che ben lungi dall'esser disposti ad un aperto confronto, al “reciproco dare e ricevere ragione”, ritengono di avere la verità in tasca. Allora il Socrate ricercatore diventa confutatore, e da “comune”, l'elenchos diviene arma nelle mani esperte di Socrate.

Ma con ciò non siamo forse ancora autorizzati a negare a Socrate la sincera speranza ed intenzione di convertire alla ricerca disinteressata i suoi interlocutori, anche quando si tratta di sofisti che, per le loro capacità intellettive, sarebbero stati sicuramente ottimi “colleghi” in una sincera ricerca filosofica.74 Che d'altronde non sia mai riuscito in questo intento di

conversione è impossibile supporlo, anche sulla base della sola testimonianza platonica: sappiamo infatti con certezza che ci fu un gruppo di giovani e meno giovani abituali frequentatori di Socrate, che potremmo chiamare suoi “allievi”, dei quali faceva parte lo stesso Platone.75 E tuttavia Platone nei dialoghi “giovanili” quasi mai ci riporta conversazioni

condotte con qualcuno di costoro, e quando lo fa si tratta di coloro che forse erano i meno dotati, o meno onesti intellettualmente (si pensi a Critone nel dialogo omonimo, ed a Crizia nel Carmide). O altrimenti, come nell'Alcibiade I, ci sono riportate conversazioni che si concludono esse stesse con l'espressione dell'intento da parte dell'interlocutore di divenire un assiduo frequentatore di Socrate.76

72 Ivi, p. 65.

73 Ci si trova nel momento del dialogo in cui Socrate sta per lasciare il gruppo, poiché Protagora si rifiuta di rispondere brevemente, e così si rivolge a Callia che vuole trattenerlo.

74 Una sincera ricerca, il cui risultato, come dovrebbe ormai esser chiaro, non si vuole qui intendere necessariamente come un sapere formulabile attraverso il discorso. Che Socrate stimasse le capacità intellettive, e scegliesse i suoi interlocutori anche sulla base di esse, ci è testimoniato da Senofonte, Mem. IV, 1.

75 Senofonte cita in I, 2, 48, Critone, Cherefonte, Cherecrate, Ermogene, Simmia, Cebete, Fedonda. 76 Cfr. infra cap. III, § 2.2.

Il caso esemplare di dialogo la cui conclusione annuncia chiaramente altre conversazioni di cui non abbiamo notizia, è l'Alcibiade I:

ALC. […] noi oggi siamo vicini a fare uno scambio delle parti, Socrate; io prendo la tua e tu la mia. Da oggi in poi non ci sarà modo che io non ti segua sempre come tu fossi un bambino, e che tu non mi abbia vicino come tuo pedagogo. SOCR. […] ALC. Sì, è così: da questo momento comincio a prendermi a cuore la giustizia. (135d-e)

Un altro esempio significativo è offerto dalla conclusione del Lachete, dove, benché ad essere sottoposti ad elenchos non siano i giovani stessi ma i loro genitori (Lisimaco e Melesia) e gli amici di questi (Lachete e Nicia), al termine del dialogo viene proposto che i giovani vengano affidati a Socrate per essere educati:

LACH. […] Però, anche così, io consiglio i nostri Lisimaco e Melesia a lasciarci [Lachete e Nicia, cui in principio i due genitori avevano chiesto consiglio] andar via, te certamente come me, per quanto riguarda l'educazione dei ragazzi, ma di non lasciar scappar via Socrate, invece, come dicevo anche al principio: se io avessi ragazzi così grandi, farei lo stesso. NIC. Sono d'accordo anch'io in questo. Se Socrate è disposto a prendersi cura dei ragazzi non si cerchi nessun altro (200c)

Salvo che poi Socrate propone che tutti insieme si cerchi un maestro adeguato (poiché nessuno, nel corso del dialogo, aveva mostrato un vero sapere):

LIS. Mi piace la tua proposta, o Socrate […] Sù, fallo per me; domani mattina vieni a casa; non mancare! Ci consiglieremo su questa proposta. Ora, lasciamoci! SOCR. Lo farò, o Lisimaco: verrò da te, domani, se dio vorrà. (201b-c)

Similmente al termine del Carmide, il giovane propone lui stesso, con il consenso immediato del suo tutore Crizia, di sottoporsi ancora “per tanti giorni quanti, a tuo parere [di Socrate], bastino” a quell'incantesimo che Socrate aveva all'inizio del dialogo proposto come cura per il mal di testa di Carmide,77 e che non è altro che la dialettica socratica stessa (176a-

d). Infine, tornando al Menone, un passo interessante è 76e-77a, dove l'invito di Socrate affinché il giovane resti in Atene fino ai Misteri per “farsi iniziare”, non ha però alcun seguito significativo (come si evince dal contesto, e come conferma la nota di F.Adorno, si allude con ogni probabilità all'iniziazione alla dialettica socratica).

Ma ancora nel Menone sono presenti dei riferimenti che, benché il dialogo in sé stesso non sia normalmente considerato un dialogo “giovanile”, possono forse essere considerati come riferimenti all'attività socratica. Grazie a quel “dialogo nel dialogo”,78 che è il cosiddetto

“esperimento con lo schiavo”, è forse solo reso più esplicito ciò cui anche nella conclusione dei dialoghi socratici appena citati è accennato. Com'è noto, allo schiavo chiamato in causa da Socrate, nel Menone, viene sottoposto un problema matematico (“quanto misura il lato di un quadrato avente superficie doppia rispetto ad uno dato”). Al principio lo schiavo risponde in modo sicuro, convinto della verità della propria risposta errata (“il doppio”), allo stesso modo in cui Menone (ed in generale l'interlocutore tipico dei dialoghi giovanili) era sicuro all'inizio del dialogo di possedere la risposta alla domanda che gli era state posta (“che cos'è la virtù?”).79 Ma al seguito della confutazione, così viene descritto lo stato dello schiavo: “E ora

proprio perché non sa ricercherà con piacere; prima, invece, con tutta facilità avrebbe spesso e di fronte a molti, sostenuto che per raddoppiare un quadrato si deve raddoppiare il lato” (Men. 84b-c). Qui la lezione per il giovane estimatore di Gorgia è chiara, in quanto poco prima egli stesso era stato indotto in aporia, e descriveva il proprio stato con il famoso paragone della torpedine,80 e così concludeva: “E sì che ho fatto tante orazioni sulla virtù e dinanzi a un gran

pubblico, e molto bene, come mi pareva. E ora invece, non so neppure dire che cosa essa sia”

(Men. 80a-b). Ciò che dovrebbe auspicabilmente seguire a questo stato di aporia in cui l'interrogato è gettato al termine dell'elenchos socratico (e che nei dialoghi più tipicamente socratici si colloca al termine del dialogo stesso) sembra dunque essere una ricerca comune: quel “comune exetazein” di cui sopra. Che si possa parlare di una “ricerca comune” come scopo auspicato, se non raggiunto, da Socrate nel Menone e in altri dialoghi “elenctici”,81

sembra confermato da tre espressioni utilizzate da Socrate nella risposta al paragone della torpedine.

E così, tornando alla virtù, io non so che cosa essa sia; tu, forse, lo sapevi prima di toccare me: ora, invece, sei diventato simile ad uno che non sa. Comunque voglio cercare e indagare con te (μετά 78 Cfr. Dominic Scott, in Plato's Meno, Cambridge University Press, 2006, pp. 99-100.

79 L'esclamazione di Menone era stata: “Non ci vuole niente, Socrate! ( λλουχαλεπ ν Σ κρατεσ, ε πε νἀ ό ὦ ώ ἱ ῖ )” (71e1).

80 Cfr. supra p. 15-6.

81 Un altro esempio è offerto nell'Ippia maggiore, dove avendo il sofista obbiettato arrogantemente, di fronte alle contraddizioni in cui è incorso cercando di definire il 'bello', che gli sarebbe bastato ritirarsi un po' solo a meditare per trovarne una corretta e inconfutabile definizione, Socrate lo esorta: “ma in nome di dio trovalo in presenza mia e cercalo, come finora, insieme con me”(295b).

σο σκεψασθαι και συζητ σαιῦ ῆ ) che cosa essa sia. (80d)

E ancora poco dopo Socrate, sperando di aver dissipato ormai ogni resistenza, ribadisce: “[...] convinto d'essere nel vero, desidero cercare con te (μετ σο ζητει νὰ ῦ ῖ ) che cosa sia la virtù” (81e).

Tralasciamo qui i problemi dovuti alla natura della seconda fase del dialogo con lo schiavo, costituita da uno scambio didattico-maieutico dove il ruolo del rispondente è sostanzialmente passivo, di fronte ad un Socrate che possiede già la risposta di cui si va in cerca. Né tanto meno è possibile soffermarsi in questa sede sul ruolo della teoria dell'anamnesi, che viene introdotta per spiegare la possibilità del procedimento in corso, e dell'apprendimento in generale (cfr. 81d2-3)82 Si ritiene tuttavia di poter attribuire anche all'elenchos la virtù che

Socrate riferisce in 81d al mito della preesistenza dell'anima, contro il paradosso della conoscenza proposto da Menone (80d-e):

Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico: ci renderebbe pigri, ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d'esser nel vero, desidero cercare con te cosa sia la virtù. (81d-e)

In altre parole ci sembra plausibile che lo scopo rispetto al quale, nel Menone, Platone si sente costretto all'introduzione della teoria dell'anamnesi, sia lo stesso per cui non solo qui, ma in tutti i dialoghi “aporetici”, Socrate adopera l'elenchos: ovvero per “rendere operosi” nella ricerca, per vincere la pigrizia intellettuale con la quale tutti coloro che non sono veri filosofi accettano le opinioni dominanti, perché chi crede di sapere non ricerca.83

Ci pare quindi si possa affermare che già in Platone sono individuabili chiari segni di una duplicità (o molteplicità) della dialettica socratica. Similmente H. Teloh, afferma:

82 Queste peculiarità sono ciò che rende il Menone un dialogo “di transizione”, pur essendo esso ancora rappresentativo, almeno nella fase confutatoria, del metodo socratico. Cfr. Matthews, op. cit., p. 215: “[...] the

Meno is already a departure from the paradigm [del dialogo aporetico tipico], and that for several reasons.

The eloquent description of aporìa […] occurs in the middle of the dialogue. It is followed by the Paradox of Inquiry (80d-e) and then by a statement of the Doctrine of Recollection (81b-82a), wich in turn is backed up by the interrogation of the slave-boy (82a-86c)”.

83 Cfr. Men. 84c4-6, dove Socrate afferma in riferimento allo schiavo, che è già stato costretto ad ammettere la propria incapacità di rispondere: “Credi allora che si sarebbe messo a cercare e ad apprendere quel che pensava di sapere, pur non sapendolo, se prima non cadeva in dubbio, e se, rendendosi conto di non sapere, non fosse stato punto dal desiderio di sapere?”

Socratic dialectic (question and answer) has two major aspects: elenchus (refutation) and

psychagogia (psyche-leading); how Socrates uses these aspects depends upon the specific character

– psychic condition – of a particular interlocutor.84