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Razionalismo e naturalismo vs medicina sacra

CAPITOLO II – La medicina greca come modello di cura.

4.1 Razionalismo e naturalismo vs medicina sacra

Uno degli aspetti essenziali del cosiddetto razionalismo dell'età di Pericle è l'opposizione ad una interpretazione religiosa della realtà, ed all'attribuzione di cause divine a fenomeni naturali ed umani. L'esempio più noto di questa tendenza è giustamente lo storico Tucidide: nella sua opera non c'è più spazio per gli dei nella causalità storica, e la religione sembra ricondotta semplicemente alla superstizione (II, 47, 4; V 104-105). I medici ippocratici, in modo forse meno netto, compiono un rifiuto di pari portata: ne è caso esemplare, com'è noto, il trattato sul Male sacro.

Esso si occupa di affezioni riconducibili a ciò che oggi chiamiamo epilessia, ed altre che producono simili crisi. Per la loro spettacolarità tali mali erano tradizionalmente associati, più d'ogni altro, ad un intervento divino, tanto da portare il nome, appunto, di “male sacro” (hieros nosos). I medici ippocratici non possono far a meno di riferirvisi con lo stesso nome, ma dissociandosi per lo più da questa nomenclatura adoperando una locuzione (“male cosiddetto sacro”): “per nulla”, afferma l'autore di Male sacro, tale male “è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali” (cap. 1). La prima parte del trattato è la più interessante dal punto di vista della storia delle idee, in quanto occupata da una aspra polemica contro forme di terapia praticate da “maghi e ciarlatani e impostori” (cap. 2), basata sull'attribuzione dei mali a cause divine. La pratica di costoro risulta essere abbastanza sofisticata (ad es. mettevano insieme indicazioni riguardanti il regime ad incantesimi e pratiche di purificazione), e l'asprezza della polemica condotta dal medico dimostra che la concorrenza era forte: questi guaritori riscuotevano evidentemente un discreto successo facendo leva sulle superstizioni popolari. Ma, come si evince dalle parole citate, la divinità non era rifiutata tout court, anzi l'autore del trattato sembra tenga a sottolineare la compatibilità tra la sua posizione e la religione tradizionale: è il comportamento degli indovini e dei guaritori ad essere considerato empio. Tanto che di essi l'autore afferma: “dovrebbero fare tutto il contrario: sacrificare, pregare, e portare i malati nei santuari per supplicare gli dei” (cap. 1; cfr. Progn. 1). Si è ovviamente discusso sull'interpretazione da dare a questo passo: esso potrebbe infatti stare ad indicare un vero e proprio avallo dell'autore nei confronti delle pratiche di cura dei grandi santuari, o semplicemente il riconoscimento in esse di una forma più pura e coerente di religiosità. Sta di fatto che in tutto il Corpus non è mai presente una polemica nei confronti di queste pratiche, forse, se non altro, a causa della devozione che comunque legava i medici laici ad Asclepio ed Apollo.254 Non ci è dato di sapere quali fossero

esattamente i rapporti tra i medici Asclepiadi ed i santuari del loro progenitore. Ciò che pare

certo è che l'atteggiamento mostrato dall'autore di Male sacro, e confermato in altri importanti trattati (ad es. si veda Vict.Acut. 3, Virg. 1), è quello di una religiosità purificata da caratteri antropomorfici, che lascia pienamente spazio all'azione umana nel campo che gli è proprio: “ogni malattia ha una causa naturale, e senza una causa naturale non si produce alcuna malattia” (Aër. 22). Ma ciò non toglie che “tutti i mali sono divini e tutti sono umani” (Morb.sacr. 21).

Un passo che chiarisce come possano essere compatibili questi due aspetti è senz'altro il seguente: “questo male dunque, cosiddetto sacro, deriva dalle stesse cause razionali degli altri, da fattori che s'aggiungono e si sottraggono, e dal freddo e dal sole e dai venti che mutano senza posa” (Morb.Sacr. 21). L'azione divina non è intesa come qualcosa di soprannaturale, ma anzi si esplica esattamente negli agenti della natura e nella causalità insita nel loro succedersi. E dunque il “male sacro” necessita di una terapia dello stesso tipo di qualsiasi altra: “chi dunque sa determinare negli uomini, mediante il regime, il secco e l'umido, il freddo e il caldo, costui può anche curare questo male, se riesce a comprendere il momento opportuno per un buon trattamento, senz'alcuna purificazione o magia” (cap. 21).

L'atteggiamento dei medici ippocratici nei confronti della religione, benché qui non sia possibile approfondire il tema, ci sembra utilmente paragonabile a quello socratico. Si può quantomeno dire che, benché sia presente nell'attitudine di Socrate verso la religione tradizionale una certa ironia, il filosofo manifesta una religiosità che, oltre che nel famoso

daimon, si esprimeva anche nelle forme della tradizione (cfr. Mem. I, 1, 2-9).255 Inoltre

risultano chiaramente distinti, agli occhi di Socrate, l'ambito di competenza umana da ciò che è lasciato agli déi. Ciò che ha cause naturali, come per l'autore di Arie, acque, luoghi (cap. 22), può esser compreso attraverso le technai. Ciò che invece sfugge alle possibilità di calcolo umane, ovvero l'esito in qualche misura sempre incerto degli sforzi del sapiente, è lasciato agli déi.

Considerava infatti il diventare costruttore o fabbro o contadino o governante di uomini o l'esaminatore di questi mestieri, o ragioniere o amministratore o stratega, tutte attività oggetto di apprendimento e suscettibili di essere scelte dall'uomo sulla base della sua intelligenza. Diceva però che quello che in esse è decisivo gli dei l'hanno riservato per sé e di ciò niente è chiaro agli uomini […] E coloro che credono che in tutto questo non ci sia niente di divino, ma che tutto dipenda dall'intelligenza umana, diceva che son presi da pazzia. Ma diceva che sono fuori di senno anche 255 Cfr. T. Calvo-Martiìnez, La religiosité de Socrate chez Xénophon, in M. Narcy e A. Tordesillas, Xénophon

et Socrate, Librairie Philosophique J. Vrin, Paris, 2008, pp. 49-64. Cfr. anche A. Stavru, Socrate et la confiance dans les agraphoi nomoi, ivi, pp.65-85 (in particolare sulla religiosità socratica, p. 79).

coloro che interrogano gli dei per quelle cose in cui essi hanno dato agli uomini la capacità di discernere da soli attraverso l'apprendimento, come se uno li interrogasse per sapere se è meglio prendere a guida del carro uno che sa guidare o uno che non sa [...] (Mem. I, 1, 7-9).

Il razionalismo socratico ci pare quindi paragonabile a quello ippocratico: se da un lato l'intervento divino è escluso dalle cose umane, ed in tutto ciò su cui si possono adoperare l'intelletto e le tecniche è doveroso evitare qualsiasi ricorso alla divinità, dall'altro la presenza e l'azione della divinità non sono escluse ma concepite in modo purificato da ogni contraddizione con la natura o con la giustizia, per come conoscibili dall'uomo.