• Non ci sono risultati.

La medicina e le tecniche in Lachete, Carmide, e Liside.

CAPITOLO II – La medicina greca come modello di cura.

2.2 La medicina e le tecniche in Lachete, Carmide, e Liside.

I riferimenti alle tecniche e in particolare alla medicina più interessanti, nel resto del gruppo dei dialoghi socratici, si trovano nella triade di dialoghi che sin dall'antichità sono stati accomunati e considerati, in qualche modo, come in continuità l'uno con l'altro: Lachete,

Carmide e Liside. In tutti e tre questi dialoghi l'ambientazione è in una palestra, quindi un

luogo dove ci si occupa dell'educazione dei giovani. Nel Liside gli interlocutori sono dei ragazzi molto giovani e il tema sul quale ci si interroga, occasionato dall'amore di un giovane conoscente di Socrate (Ippotale) per il bel Liside, è l'amicizia. Ma la definizione dell'amicizia finisce per mostrare come solo il Bene è davvero “amico”. E (già impropriamente) il virtuoso, perché lui solo è in grado di rendersi davvero utile agli amici. Anche dell'amicizia dunque Socrate sembra avere concetto molto particolare: il fatto che lui stesso a quanto pare non ha mai avuto un vero amico (a quanto afferma in 211d-e), nonostante la compagnia che sappiamo lo circondava quotidianamente, ci indica come anche del concetto di philia Socrate si riappropri ironicamente fornendogli un contenuto distante dal senso comune. Il Carmide rappresenta invece sì una conversazione con un giovane, che tra i suoi coetanei passa per essere il più bello, ma una volta emersa l'influenza che il suo tutore, Crizia, ha su di lui, è sul tutore che si sposta il fuoco di fila della confutazione. L'intero quadro narrativo è costruito sul paragone medico e, se si volessero prendere sul serio certe affermazioni di Socrate, bisognerebbe trovare in questo dialogo addirittura la prova di quanto non ci si aspetterebbe: il filosofo sembra aver trovato in qualche modo un maestro nell'arte di guarire le anime. Il

Lachete infine ha per oggetto l'educazione di due giovani, i figli di Lisimaco e Melesia, ma è

con Nicia e Lachete, che per primi erano stati interpellati a proposito dell'educazione dei due giovani, che Socrate dialoga per la maggior parte dell'opera. Ci soffermeremo in questo paragrafo su alcuni punti salienti di questi dialoghi, che ci offriranno auspicabilmente riprese e chiarificazioni di quanto già emerso a proposito del paragone medico nell'Alcibiade, nonché nuovi elementi da aggiungere allo schema del paragone socratico che si vorrà tracciare al termine del capitolo.

Lachete

Cominciando dal Lachete, la prima cosa che ci interessa notare è che al principio del dialogo Lachete definisce Socrate, chiamandolo in causa, uno che si occupa de “lo studio o l'esercizio che riguarda i giovani (περὶ το ςὺ νέους ἢ μάθημα ἢ πιτήδευμαἐ )” (180b-d). Gli è riconosciuta dunque una qualche competenza in questo campo, e per questo viene chiamato a partecipare alla conversazione. Ma Socrate si rifiuta di primo acchito di offrire il suo punto di vista, e lascia il campo a Lachete e Nicia. Il risultato sono due discorsi entrambi persuasivi, ma assolutamente divergenti. Ci pare utile a questo proposito ricordare come nell'Alcibiade uno dei criteri fondamentali per riconoscere i buoni maestri in qualche arte era che fossero d'accordo non solo con sé stessi ma anche tra loro (111b). Secondo questo criterio la competenza dei due interpellati rispetto a ciò che si è domandato già risulta piuttosto sospetta. Non a caso quindi Socrate in 186d, pur affermando di credere nella competenza di Nicia e Lachete, si dichiara meravigliato ( θα μασαἐ ύ , d5) del fatto che siano in disaccordo.

Altri due criteri per riconoscere gli esperti sono posti da Lachete e risultano sostanzialmente compatibili col punto di vista socratico: in primo luogo l'esperto di un'arte avrà successo di pubblico sopratutto laddove ci si cura maggiormente del rispettivo settore. Lachete osserva infatti come Stesilao (il maestro d'armi il cui saggio è appena terminato, e alla cui scuola i due genitori vorrebbero mandare i propri figli) avrebbe dovuto avere sopratutto successo tra gli spartani, così come il primo luogo dove si recano i tragediografi è Atene, perché è lì che sperano di ottenere il massimo della gloria (182c-183c). Al contrario Stesilao e i suoi pari si tengono ben lontani da Sparta, come da suolo sacro. Una esigenza simile è imposta da Socrate ad Ippia nell'Ippia maggiore. Poiché è a Sparta che più che altrove è coltivata la virtù, è lì che il sofista dovrebbe guadagnare meglio, così come un esperto d'ippica è in Tessaglia che deve recarsi se vuole avere il massimo di onori e di guadagno (Hipp.maj. 284a ss.). Ippia invece, tra i Lacedemoni, non viene apprezzato per altro

che per raccontare le storie degli eroi e di fondazioni di città, che conosce a memoria, così come i bambini apprezzano le nonne per farsi raccontare delle storie (285e-286a). La seconda esigenza posta dal discorso di Lachete è che colui che maggiormente si occupa di un'arte sappia far mostra di commisurate opere nel campo che gli compete. Ma a quanto risulta in guerra il povero Stesilao aveva piuttosto trovato occasione di rendersi ridicolo (183d-184a). Allo stesso modo più avanti Socrate pretenderà che chi è preparato nell'arte di curarsi dell'anima dei giovani sappia mostrare le proprie opere (186e, cfr. Mem. IV, 2, 12).

Un'ulteriore esigenza epistemologica è imposta da Socrate in 185b-c: bisogna sapere esattamente qual è l'oggetto della competenza che qualcuno degli interpellati dovrebbe possedere per poter dare consigli su quanto chiesto da Lisimaco e Melesia. É quest'ultimo ad essere interrogato (“E non dovremmo […] esaminare cos'è questa cosa di cui cerchiamo i maestri?”, 185b6-7), ma è Nicia ad intervenire fornendo una risposta errata: “Ma Socrate, non stiamo forse indagando sul combattere in armi, se sia necessario che i giovani lo apprendano o no?” (185c). A correzione di questa risposta Socrate introduce il primo paragone medico del dialogo:

SOCR. Certamente, Nicia. Ma quando qualcuno esamina, di una medicina per gli occhi, se si debba spalmarla o no, credi che in tal caso la decisione riguardi il farmaco o gli occhi? NIC. Gli occhi. SOCR. E dunque anche quando qualcuno esamina di una briglia, se si debba o no metterla al cavallo, e in che occasione, allora decide sul cavallo e non sulle briglie? NIC. È vero. SOCR. E dunque, in una parola, quando qualcuno esamina una cosa in vista di un'altra, la decisione risulta riguardare quella cosa in vista della quale conduce l'esame, e non quella che ricerca in vista d'altro. NIC. Di necessità. SOCR. Bisogna dunque esaminare se chi deve decidere con noi è competente nella cura (θεραπε ανί ) di quella cosa in vista della quale conduciamo l'esame. NIC. Certo. SOCR. E ora non diciamo che stiamo conducendo l'esame riguardo a una disciplina (περ μαθ ματοςὶ ή ) in vista dell'anima dei giovani? NIC. Sì. SOCR. Questo dunque bisogna esaminare, chi di noi sia competente (τεχνικ ςὸ ) nella cura dell'anima (περ ψυχ ς θεραπε ανὶ ῆ ί ) e sia quindi capace di prendersene cura nel modo giusto, e chi abbia avuto valenti maestri. (185c-e)

In questo passo emergono diversi elementi importanti. Innanzitutto si fa riferimento al sapere in questione adoperando una terminologia afferente al campo semantico di techne: ciò che si deve comprendere è appunto se uno dei dialoganti sia un esperto (technikòs) nella disciplina (màthema) in questione.

In secondo luogo una delle due analogie adoperate fa riferimento appunto all'ambito medico. La questione che ci si sta ponendo (quale sia l'oggetto di cui bisogna essere esperti

per poter offrire ai due genitori il consiglio che chiedono) equivale alla questione sul 'se' e 'quando' si debba applicare un certo medicinale agli occhi. Per dirimere una tale questione, così come nel caso del 'se' applicare la briglia ad un certo cavallo, è necessario che si sappia non solo cosa sia o eventualmente come sia fabbricato il medicinale (o la briglia), ma sopratutto di cosa necessita l'occhio del paziente in questione (o il cavallo in questione). Da notare che si tratta di una decisione riguardante una circostanza particolare, non la generale utilità di un certo mezzo per un certo fine. Lo scopo in questione è nel caso dell'occhio, la salute; e specificatamente, la vista (cfr. 189e-190a). Da questo punto di vista il passo va in primo luogo messo in correlazione con Fedro 268a-269a: lì il vero tecnico appare essere non colui che possiede solo i preliminari, ovvero la nozione generale dei nessi causali tra certi mezzi (farmaci, operazioni, regime, o discorsi composti in un certo modo o in un altro) e certi effetti (scaldarlo o raffreddarlo, ecc.; indurre questo o quello stato d'animo nell'ascoltatore), ma chi sa esattamente quando applicarli per ottenere lo scopo proprio dell'arte (la salute per la medicina; il giusto per la 'buona retorica'). Allo stesso modo, nel passo del Lachete su cui stiamo riflettendo, è il medico che sa quando è il caso di applicare il medicinale agli occhi, e l'esperto d'ippica colui che si accorge se è il caso di mettere la briglia ad un certo cavallo in un certo momento.

In terzo luogo l'oggetto della disciplina in questione viene identificato con l'anima, ed in particolare l'anima dei giovani. Chi sia competente nella cura (therapeìa) delle anime così come il medico è esperto nella cura del corpo, o di una sua parte (ma la cosa, come sappiamo da Charm. 156b-e, non faceva differenza per i “buoni medici”), si identifica con colui che non è semplicemente in grado di riconoscere le proprietà di un certo mezzo rispetto ad un certo effetto, ma sopratutto di applicarlo nel caso opportuno. Che poi la stessa arte sia adeguata non solo per la cura delle anime dei giovani, ma anche di quelle degli adulti, lo chiarisce, se non altro, la conclusione del dialogo, ove Socrate propone ai suoi interlocutori di cercare un maestro non solo per i giovani, ma prima di tutto (essendo risultata l'ignoranza di tutti rispetto al tema in oggetto) per sé stessi (201a-b).

L'osservazione di Lachete, che immediatamente segue al passo citato, aggiunge una possibilità rispetto al modo di identificare l'esperto in una disciplina, che viene facilmente accolta da Socrate:

LACH. Come, Socrate! Non hai mai visto che alcuni, senza maestri, sono diventati in alcune cose più competenti che non con i maestri? SOCR. L'ho visto, Lachete. Eppure a costoro tu non vorresti prestar fede, se ti dicessero di essere dei bravi artigiani (δημιουργοί), ma non avessero da mostrarti

un prodotto ( ργον) ben fatto della loro arte (τ ς α τ ν τ χνηςῆ ὑ ῶ έ ), uno o anche più. (186e)

In questo modo si completa il campo delle possibilità già prospettate in Alc.I 106d: se si conosce qualcosa è perché o lo si è appreso da un maestro, o lo si è trovato in base a una ricerca personale. Oltre a ciò viene ripreso il criterio già adoperato da Lachete per criticare Stesilao (183d-184a), che come accennato corrisponde alle esigenze socratiche: se non si possono citare maestri di chiara fama, bisogna almeno poter mostrare delle opere. Ciò, come risulta chiaro da quanto segue, corrisponde in ambito morale al dimostrare qualcuno che sia stato da noi reso migliore. Tale domanda era, come già visto, posta a Callicle in 515b. Nello stesso Gorgia, poco sopra (514b-c), così come in Mem. IV, 2, 12, il paragone adoperato è quello dell'edilizia: i giusti, come i muratori, “fanno un lavoro specifico” (Mem. IV, 2, 12) e devono poter additare le proprie opere. In Gorg. 514d-e, lo stesso criterio è espresso poi proprio nei termini della medicina: se Socrate volesse divenire medico pubblico, per esser sicuro di avere il pieno possesso dell'arte dovrebbe chiedersi, appunto, “C'è qualcuno, servo o libero, guarito da Socrate?”.339

Ciò che Socrate, Lachete e Nicia devono mostrare, per potersi offrire come adeguati consiglieri in fatto di educazione dei giovani, è di aver avuto in questo campo maestri “buoni ( γαθοί) e che abbiano avuto in cura le anime di molti giovani (πολλ ν ν ων τεθεραπευκ τεςῶ έ ό

ψυχ ςὰ )” (186a7-8). O in alternativa “se qualcuno […] dicesse di non aver avuto un maestro,

ma ha egli stesso opere ( ργαἔ ) proprie di cui parlare, deve mostrare quali tra gli ateniesi o gli stranieri, schiavi o liberi, per tramite suo sono diventati, per comune ammissione, buoni ( γαθοἀ ὶ)” (186b). Socrate, dunque, di sé stesso afferma:

339 Decisamente interessante è notare che in questo passo del Gorgia (che avevamo tralasciato di prendere in esame perché non strettamente necessario all'argomentazione che si è cercato di condurre in §1.1 e 1.2 del presente capitolo) prima ancora che domandarsi se ha guarito qualcun altro, l'aspirante medico pubblico deve innanzitutto domandarsi: “Sù via, per gli dèi, qual è lo stato di salute di Socrate stesso?”. Ciò richiama da vicino un aspetto importante che caratterizzava la professione medica nell'antica Grecia, rispetto alla pratica medica moderna: un medico in cattiva salute non era considerato credibile, in quanto portava cattiva testimonianza della propria arte (cfr. supra p.158, n. 338). Ciò ha particolare rilevanza per noi perché tale criterio, applicato all'ambito morale, rende assolutamente naturale ciò che abbiamo già visto essere necessario nell'Alcibiade I: chi voglia praticare attività politica, ovvero rendere migliore la propria città e dunque i propri concittadini, deve innanzitutto essere stato utile alla propria anima. Deve essere innanzitutto lui stesso sapiente e felice per poter pretendere di rendere felici gli altri (cfr. sopratutto Alc.I, 134c). Rispetto all'aver reso migliore qualcun altro come criterio per stabilire se qualcuno è sapiente in qualcosa, cfr. anche

Io, dunque, Lisimaco e Melesia, sono il primo a dire di me stesso che non ho avuto un maestro per queste cose, per quanto a ciò aspiri, a cominciare da quando ero giovane. Ma non sono in condizione di pagare le loro parcelle ai sofisti, che soli mi hanno promesso di essere in grado di rendermi buono e virtuoso. Io a mia volta sono ancora adesso incapace di trovare quest'arte. (186b-c)

Oltre all'ironico riferimento ai sofisti, il passo ci informa con estrema chiarezza sul fatto che, a differenza di quanto ci era parso di poter ipotizzare sulla base della conclusione dell'Alcibiade, Socrate non solo non ha mai avuto maestri nell'arte di curare le anime, ma non ha neanche trovato lui stesso quest'arte. Per giustificare tale contraddizione si potrebbe invocare la diversità del contesto dialogico: nell'Alcibiade Socrate è solo a solo con il giovane e ha bisogno che il giovane creda nella sua capacità di renderlo virtuoso, perché incominci a frequentarlo. Nel Lachete invece, forse, sarebbe stato presuntuoso da parte di Socrate presentarsi come maestro (o anche semplicemente acconsentire alla definizione che di lui Lachete aveva dato in 180b-d, come di qualcuno che si occupa dell'educazione dei giovani): ciò si può dedurre dalla conclusione del dialogo, ove sono invitati a cercare un maestro di virtù non solo i giovani, ma anche gli anziani. Difficilmente Socrate avrebbe potuto essere accettato come maestro di virtù di persone che a quanto pare hanno all'incirca l'età di suo padre (187d-e). Quel che più importa è per ora come viene descritta la sophia cui devono aspirare gli uomini migliori, e non tanto se Socrate abbia affermato di possederla o si sia comportato come uno che la possedeva.

Proseguendo nella lettura del dialogo, un altro già citato passo che va sicuramente richiamato è 187e-188b. In esso l'attività dialogica tipica di Socrate è descritta da Nicia come un costringere l'interlocutore a “dare ragione di sé stesso (τ διδ ναι περ α το λ γονὸ ό ὶ ὑ ῦ ό ), in quale modo ora viva e come abbia vissuto la vita trascorsa” (187e). Ciò che qui ci interessa suggerire è semplicemente che se ciò di cui Socrate costringe a rendere conto è il “sé stesso”, e di come si vive nelle tre dimensioni temporali (di futuro si parla in 188b), allora ciò di cui si occupa Socrate sembra essere esattamente ciò che nell'Alcibiade I era denominato “cura di sé” (tò heautoû epimeleîsthai, 127e; cfr. Mem. I, 2, 2). In altre parole, il sapere rispetto al quale Socrate è solito mettere alla prova i suoi interlocutori è appunto quello che rende abili rispetto all'educazione dell'anima: nell'Alcibiade, come abbiamo visto, il “sé stesso” risultava corrispondente appunto alla psyché (in particolare 130a).

Senza dilungarci nell'analisi della struttura dell'intero dialogo ci limitiamo a richiamare altri tre passaggi in cui si fa riferimento alla medicina, o a concetti che alla riflessione medica rimandano. In 189e-190a viene ridefinito l'argomento dell'indagine, e si imposta la domanda

classica dei dialoghi aporetici: ti estì. Ciò che a noi interessa è però come si giunga, in questo caso, a questa questione. Il passo che vi conduce (in particolare, com'è noto, la virtù presa in esame nel Lachete è il coraggio) offre infatti anche una chiarificazione inestimabile sul significato che Socrate attribuisce alla domanda definitoria stessa.

Quel che ora stavamo per esaminare, e cioè quali maestri di simile istruzione abbiamo avuto o quali altre persone abbiamo reso migliori, dico che passarci in rassegna anche a questo proposito, forse non sarebbe stato male. Ma credo che anche quest'altro esame ci conduca alla stessa meta, e anzi, forse comincia da ancor prima. Se infatti sapessimo di una qualsiasi cosa che, sopravvenendo a qualcos'altro, rende migliore (β λτιον ποιεέ ῖ) ciò a cui sopravviene, e inoltre fossimo in grado di far sì che vi sopravvenga, è chiaro che avremmo conoscenza di ciò su cui in quel caso sappiamo dare consigli a proposito di come uno possa conseguire questa cosa nel modo migliore e più rapido; forse non capite quel che dico, ma lo capirete prima in questo modo: se sapessimo che la vista, sopravvenendo agli occhi, rende quelli, cui sopravviene, migliori, e se inoltre fossimo in grado di far sì che essa sopravvenisse agli occhi, è chiaro che sapremmo della vista, a proposito della quale siamo in grado di consigliare come uno possa conseguirla nel modo migliore e più rapido, che cosa essa sia. Se infatti non sapessimo neppure cosa mai sia la vista o cosa sia l'udito, difficilmente potremmo diventare medici e consiglieri degni di stima […] E non ci esortano anche costoro, Lachete, a consigliarli su come la virtù possa sopravvenire ai loro figli, rendendone migliori le anima? LACH. Certamente. SOCR. E allora non deve appartenerci proprio questo, cioè la conoscenza di cosa sia la virtù? Se infatti non sapessimo neppure cosa mai sia la virtù, in che modo potremmo diventare consiglieri di una qualunque persona, circa il modo in cui potrebbe conseguire la virtù nella maniera migliore? (189d-190c)

In primo luogo osserviamo l'uso che viene fatto del paragone medico: rispetto agli occhi non possiamo dire di essere in grado di curarli, e quindi non possiamo dirci medici, se neppure sappiamo cosa sia la vista. Bisogna dunque ricercare cosa sia la virtù, come nel caso degli occhi bisognerebbe innanzitutto rendersi conto se si sa cosa sia la vista. Il presupposto implicito in questo parallelo è che la vista (o “la salute”, riferendoci all'intero corpo), sta alla virtù come l'occhio (o il corpo) sta all'anima. L'esigenza qui espressa è ancora una volta quella di chiarire quale sia e cosa sia l'oggetto di una techne: l'oggetto però inteso come scopo, e non come ciò su cui si agisce. Ovvero quello che nell'Alcibiade I avevamo imparato a chiamare il

meglio dell'oggetto dell'arte,340 che corrispondeva in quel dialogo all'orthón. Si conferma

dunque qui in primo luogo l'esigenza di definire chiaramente lo scopo dell'arte,

distinguendolo da quello delle altre arti.341 In secondo luogo si specifica che lo scopo della

techne educativa è la virtù, così come nell'Alcibiade il “meglio” nel “fare la guerra e la pace”

(ovvero nella techne politica) era individuato nel “giusto” (in particolare 109c). In terzo luogo il passo ci dice che l'indagine definitoria che occupa tutto il seguito del dialogo, così come la maggior parte dei dialoghi “socratici”, costituisce solo un argomento a fortiori rispetto all'ipotesi che uno degli interlocutori possieda un vero sapere rispetto alla virtù. Infatti il vero e completo sapere, afferma chiaramente il passo, sta non nel semplice saper definire, ma principalmente nel saper praticare la virtù: così come rispetto alla vista bisogna non solo sapere che essa rende migliori gli occhi, ma anche essere in grado di procurarla “nel modo migliore e più rapido”.342 Facendo un passo indietro, ciò sembra confermare quanto appena

detto da Lachete:

Quando […] sento un uomo che dialoga sulla virtù o su qualche altra forma di sapienza, se è veramente un uomo all'altezza dei discorsi che tiene, ne traggo un enorme piacere, considerando al tempo stesso chi parla e le cose dette, come siano consentanei l'uno all'altro e in perfetta armonia; e un tal uomo mi sembra proprio un musicista, che vive accordando in perfetta armonia non una lira o strumenti frivoli, ma davvero lui stesso la propria vita, rendendola consonante nei discorsi rispetto