All’indomani della caduta degli Ngo Dinh nel novembre 1963 la “crisi buddista” nel Vietnam del Sud andò progressivamente spegnendosi, sebbene violenti scontri tra cattolici e buddisti avrebbero continuato episodicamente a verificarsi negli anni immediatamente successivi. L’attenzione della stampa europea occidentale alle vicende vietnamite subì allora una contrazione, riducendosi a saltuari aggiornamenti di cronaca, sempre più diradati. Durante la “crisi buddista” il FNL e la RDV sua alleata avevano largamente profittato dell’ondata di caos politico e civile che aveva investito la RV. Il nuovo governo insediatosi nella RV dopo gli Ngo si trovò così a far fronte a un’avvenuta estensione del controllo dei vietcong sul territorio. Allarmata dalla situazione, l’amministrazione Johnson si convinse della necessità di un intervento militare diretto degli Stati Uniti in Vietnam al fianco di Saigon, ma senza che esso fosse accompagnato da una formale dichiarazione di guerra contro la RDV. Tale scelta avrebbe infatti verosimilmente trascinato nel conflitto anche le truppe di Cina popolare e Unione sovietica, tramutando da “freddo” a “caldo” il confronto fra superpotenze ostili e attivando le rispettive alleanze militari. Si sarebbe giunti allora a una terza guerra mondiale atomica e dunque, potenzialmente, alla distruzione dell’intera civiltà.
Ai primi d’agosto del 1964 Johnson trovò un’occasione adatta a giustificare l’ingresso delle truppe americane in Vietnam negli oscuri incidenti navali del golfo del Tonchino. Grazie ai poteri conferitigli dalla risoluzione congressuale del 7 agosto il presidente americano poté autorizzare, tra il febbraio e il marzo del 1965, lo sbarco del primo contingente di marines nella RV e il lancio di una campagna di bombardamenti aerei su obiettivi strategici della RDV. Lo sforzo militare
degli Stati Uniti rivelò ben presto i propri limiti dinanzi alla lotta di guerriglia, una tipologia di conflitto armato estranea all’esperienza storica americana. Washington rispose all’inaspettato sfumare della prospettiva di una guerra-lampo in Vietnam intraprendendo un’escalation militare che nel giro di un anno la portò a quintuplicare il numero dei suoi soldati schierati nella RV. Alla fine dell’estate del 1965 gli osservatori internazionali avevano accumulato abbastanza elementi per trarre delle conclusioni, per quanto provvisorie, sulla nuova fisionomia assunta dalla guerra in Vietnam. Al di là della comune, dura retorica propagandistica, tanto gli USA quanto l’URSS e la RPC dimostravano di esitare a trasformare una guerra per procura in uno scontro miliare diretto: le unità militari di terra americane restavano rigorosamente a sud della “cortina di bambù”, così come quelle sovietiche e cinesi non valicavano i confini vietnamiti. La minaccia dello scivolamento in una guerra totale e atomica tuttavia permaneva, impossibile da liquidare definitivamente. Da questo punto di vista era l’intransigente Pechino a rappresentare la maggiore incognita e il più grande pericolo per la pace globale.
Per l’opinione pubblica internazionale, Chiesa cattolica compresa, le implicazioni geopolitiche dello scenario vietnamita non erano ardue da decifrare: la guerra nel Paese asiatico riproduceva in scala locale l’antagonismo fra Est e Ovest del mondo alla base della guerra fredda e anche, sebbene in modo meno manifesto, la competizione fra RPC e URSS per l’egemonia politica sul continente asiatico.
Già alla vigilia degli incidenti del Tonchino, dinanzi alle tensioni addensantisi sul Vietnam, in molti stimarono alto il rischio di una reazione a catena che portasse alla deflagrazione di una nuova guerra mondiale. Si sarebbe trattato del terzo conflitto globale in appena mezzo secolo. Per la Francia, inoltre, sarebbe giunto a soli due anni dalla chiusura di un ventennio di guerre coloniali dalle pesanti ricadute sulla psicologia collettiva e sul sentimento di unità della nazione. Da questo punto di vista si erano configurati come particolarmente traumatici il conflitto in Indocina (1945-1954), che aveva lasciato aperto il dibattito sulle responsabilità storiche dei francesi nel destino vietnamita post-ginevrino, e soprattutto quello in Algeria (1954-1962), conclusosi per Parigi con la perdita della colonia nordafricana, che costituiva territorio metropolitano.
Tra il 1964 e il 1965 la continua intensificazione dell’impegno bellico americano e quindi della durezza della guerra in Vietnam esercitarono un impatto decisivo sullo sviluppo degli orientamenti dell’opinione pubblica mondiale sul conflitto, e nell’aprile del 1965 sopraggiunse l’invio dei marines nella Repubblica Domenicana a incentivare in maniera significativa, anche nello schieramento filoatlantico, sdegno e dubbi sui
reali obiettivi della politica estera statunitense. A un anno dal Tonchino, la relativa stabilizzazione del quadro bellico in Vietnam favorì il manifestarsi, nel dibattito pubblico in Francia e in Italia, dei primi segnali di una strumentalizzazione politico-ideologica di quella guerra. Da affare di politica estera non strettamente concernente i due Paesi europei, essa passò ad alimentare polemiche già avviate di politica interna, e alle quali la stampa cattolica non era estranea.
Il capitolo si propone di indagare l’eventuale persistenza del coinvolgimento della Santa Sede nella politica interna sudvietnamita dopo il tramonto dell’era Ngo Dinh e soprattutto, più in generale, di sondare quali furono le reazioni di Paolo VI e del mondo cattolico italiano e francese alle evoluzioni della guerra in Vietnam tra il 1964 e l’estate del 1965. Alla luce delle conclusioni elaborate nel precedente capitolo, si cercherà di capire se la situazione che si venne allora a creare in Vietnam abbia contribuito a vincere le incertezze politiche della Chiesa conciliare, inducendola a completare quel percorso “da Pio XII a Giovanni XXIIII” che pareva aver intrapreso o se il permanere dell’esigenza di contenimento dell’espansionismo comunista le abbia impedito di abbandonare l’identificazione con l’Occidente, e dunque di giungere a liquidare il paradigma filoatlantico. Ci si chiederà se l’ingresso diretto degli Stati Uniti nella guerra abbia alimentato sentimenti antiamericani fra i cattolici italiani e francese e, in caso di risposta affermativa, se essi appaiano ancorati a motivazioni religiose e morali oppure politiche (nella cui eventualità, di matrice gollista o di sinistra?). Si verificherà se il profilarsi del pericolo di una terza guerra mondiale atomica abbia indotto papa Montini a replicare l’attivismo diplomatico di Giovanni XXIII durante la crisi dei missili a Cuba634. Si esaminerà il peso assunto nel discorso pubblico della Chiesa sul conflitto in Vietnam dalle memorie storiche delle due guerre mondiali e, specie nel caso francese, da quelle delle guerre coloniali, prestando attenzione ai termini della riscrittura e della rielaborazione di quelle esperienze da parte dei diversi soggetti.
La fiorente storiografia sulla Chiesa cattolica e la guerra americana in Vietnam, stimolata dalla celebrazione nel 2018 del cinquantenario dell’“anno rivoluzionario” dei giovani occidentali, pone come
634 Sull’importante contributo di papa Roncalli alla risoluzione della crisi a Cuba si rimanda, tra gli altri, a D.GIOE, L.SCOTT, C.ANDREW (eds.), An International History of the
Cuban Missile Crisis. A 50-year retrospective, Abingdon (Oxon), Routledge, 2014; F.
ROONEY, The Global Vatican, cit., pp. 121-122; A.MELLONI, L’altra Roma, cit., pp. 130- 136; N. COUSINS, The Improbable Triumvirate: John F. Kennedy, Pope John, Nikita
Khrushchev. An Asterisk to the History of a Hopeful Year 1962-1963, New York, W.W.
particolarmente interessante il quesito concernente l’eventuale nascita tra il 1964 e il 1965, fase della piena “americanizzazione” del conflitto, di un’opposizione cattolica ad essa. In caso di esito positivo, si vedrà allora di stabilire se la contestazione della guerra in Vietnam emerga come una protesta confessionalmente connotata e limitata ai confini della Chiesa, se presenti un carattere esclusivamente spirituale o (anche) politico, se i mezzi da essa privilegiati fossero originalmente cattolici o mutuati da altre culture socio-politiche, se tali strumenti costituissero elaborazioni nuove o venissero attinti al patrimonio storico del pacifismo europeo, cattolico o meno. Si tratterà insomma di cogliere se e quali strategie di presenza e di azione politica abbia formulato e posto in essere la Chiesa, dal vertice alla base, dinanzi a un conflitto dal quale poteva dipendere la sopravvivenza dell’umanità, e di sondare quindi la tenuta della sua unità nel confrontarsi con un simile critico scenario, in pieno periodo conciliare.
Non si mancherà infatti di verificare le eventuali ripercussioni dell’attualità vietnamita sulla riflessione teologica della Chiesa sui temi della guerra e della pace, all’interno e all’esterno delle aule del Vaticano II. Come e più di quanto accaduto nel 1963, infatti, le vicende vietnamite si sovrapposero in maniera problematica ai lavori dell’assise ecumenica. Il dispiegarsi della crisi del Tonchino coincise con lo svolgimento della terza sessione del Vaticano II, durante la quale i padri conciliari (fra i quali, va ricordato, dei prelati americani e sudvietnamiti) furono chiamati a discutere lo schema XIII. Il documento prevedeva, fra le altre cose, che venisse ridefinita la dottrina cattolica in materia di pace e guerra, un aspetto del magistero divenuto allora oggetto, specie nel laicato, di diffuse aspettative di rinnovamento, variamente ispirate alla Pacem in terris. A tal proposito, un punto di dibattito particolarmente controverso riguardava l’opportunità, in era atomica, di riconfermare la legittimità della tradizionale teoria della Chiesa sulla guerra di difesa come guerra giusta.
II.1. Il Vietnam post-diemista: «un baril de poudre prêt à éclater»635.
L’esclusione della famiglia Ngo Dinh dal potere non portò al Vietnam del Sud né la stabilità governativa né una definitiva riconciliazione
635 La citazione è tratta da Sud-est asiatique: un baril de poudre prêt à éclater, in «JP», juin 1964, p. 1.
civile636. Come rilevato da R.J. Topmiller, la caduta di Diem fu invece all’origine di un «political vacuum» che produsse una serie di colpi di Stato militari ed effimeri governi solo formalmente democratici, privi del consenso popolare637. Tale cronica condizione di fragilità del quadro politico e sociale della RV determinò un crescente «involvement in South Vietnam’s affairs» da parte degli Stati Uniti638.
Il 24 dicembre 1963, nel tradizionale discorso al corpo diplomatico internazionale, Paolo VI asserì che
pour faire régner la paix parmi les hommes […] il faut parfois savoir sacrifier une partie de son prestige ou de sa supériorité, accepter, pour un bien supérieur, de franchir des distances, d’engager et de poursuivre des dialogues qui peuvent paraître, à certains égards, humiliants: il faut traiter, traiter sans se lasser, pour éviter cette humiliation suprême, qui serait en même temps, dans les conditions présentes, la suprême catastrophe: le recours aux armes639.
Una delle possibili interpretazioni di questo passaggio è che esso fosse rivolto in particolare a Johnson, affinché in contesti come quello vietnamita, ove gli Stati Uniti avevano a che fare con interlocutori diplomaticamente rigidissimi come il Vietnam del Nord e, per via indiretta, la Cina popolare e l’Unione sovietica, la maggiore potenza mondiale non percorresse la strada dell’intervento militare, ma perseverasse nella ricerca di una risoluzione politica delle tensioni, anche a costo di fare delle concessioni nella tessitura del dialogo, al fine di risparmiare all’umanità “la catastrofe suprema” di un terzo conflitto globale. Era la RPC a essere particolarmente temuta dagli osservatori internazionali, e probabilmente anche da Paolo VI. Confinando con il Vietnam del Nord, la Cina comunista era portata a nutrire ovvie preoccupazioni per la propria integrità territoriale in caso di diretto intervento degli USA nella guerra, una situazione che esasperava l’approccio ideologico già estremamente intransigente dei suoi leader, come testimoniato dalla sua coeva disputa con l’URSS, accusata di aver deviato, con l’avvento della destalinizzazione, dall’ortodossia marxista-leninista640. Era questo pieno coinvolgimento della RPC nello
636 Quando non diversamente indicato, le informazioni sulla politica interna della RV fornite in questo capitolo seguono la ricostruzione di R.J.TOPMILLER, The Lotus Unleashed,
cit., mentre per ciò che concerne la narrazione relativa agli aspetti politico-militari della guerra in Vietnam, laddove manchino in nota dei riferimenti bibliografici, la fonte è da considerarsi S.KARNOW, Storia della guerra del Vietnam, cit.
637 R.J.TOPMILLER, The Lotus Unleashed, cit., p. 5. 638 Ibidem.
639 PAOLO VI, Nella Notte Santa ai rappresentanti delle Nazioni, 24 dicembre 1963, in PVI, Ins, I, pp. 434-435.