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Le esperienze a confronto

Le esperienze raccontate nel quarto capitolo di questo lavoro descrivono i tentativi di recuperare o raggiungere una condizione di autosufficienza per la piccola agricoltura contadina. I meccanismi di pressione sull'attività agricola e sui lavoratori del settore, siano essi piccoli coltivatori o impiegati come manodopera agricola, determinano una scarsa remunerazione del lavoro agricolo, ricorso al debito, vulnerabilità ad eventi climatici avversi e una costante percezione di insicurezza.

In Andhra Pradesh le esperienze del “Timbaktu Collective” e del CMSA si concentrano su aree rurali caratterizzate da un alto indice di povertà e condizioni climatiche ostili, ma creano un'alternativa che rende l'attività agricola ancora possibile. In Karnataka la progressiva estensione del movimento ZBNF, con l'adesione di un numero sempre maggiore di produttori, pare avere offerto una forma di “riscatto” per gli agricoltori, perchè li aiuta a ridurre una componente del debito che grava su molti di loro. Il programma statale per l'agricoltura biologica (KSPOF), seppure abbia avuto il merito di diffondere alcune pratiche biologiche e di promuovere l'utilizzo di input autoprodotti, è stato da molti considerato come un intervento volto a sostenere le grosse aziende e orientato all'export e ad un mercato di nicchia. (Shannikodi, 2013)

In Tamil Nadu le cooperative all' interno del “Tribal Health Initiative” sono impegnate nell'organizzazione di una filiera per aumentare le possibilità di reddito per i produttori e rendere le attività agricole sostenibili nel tempo. Ancora diverso è l'obiettivo del gruppo dei produttori di riso, che hanno una vocazione più spiccatamente commerciale e tentano di costruire una rete per lo scambio dei semi e la prospettiva di una futura commercializzazione.

Ciascuna delle esperienze raccontate presenta delle specificità, ma è possibile rinvenire elementi comuni, oltre all'adozione di pratiche agroecologiche che le connota tutte. Tentiamo ora di evidenziare, in uno schema puramente descrittivo, peculiarità ed affinità tra le realtà a carattere collettivo oggetto della nostra indagine. Lo schema ci è utile per identificare alcune delle modalità con cui si riproducono queste esperienze.

Tabella 10: Caratteristiche delle esperienze collettive di agroecologia rilevanti per la definizione di un percorso di autonomia

Nome Struttura Supporto diretto statale Supporto di altri enti (associazioni, agenzie cooperazione) Creazione di filiera CMSA Programma statale sì sì parziale Timbaktu Collective ONG no parziale sì ZBNF Movimento no parziale no KSOFP Programma

Statale sì parziale prevista ma non ancora attivata Sahaja

Samrudha ONG parziale parziale sì Tribal Health

Inititative ONG no parziale sì

Associazione Produttori di riso

Associazione

informale parziale no prevista ma non ancora attivata (Nostra elaborazione)

E' evidente che comparare programmi di intervento statale con le attività di organizzazioni, gruppi e movimenti presenta delle problematicità, ma ciò che interessa in questa sede è fare emergere alcuni degli aspetti comuni alle diverse esperienze, come ad esempio il tentativo di creazione di una filiera.

La creazione di una filiera è un elemento da noi ritenuto fondamentale perchè crea le condizioni per un'autonomia attraverso il raggiungimento del margine più ampio possibile di indipendenza dal mercato esterno. La creazione di una filiera consente di avere più controllo sul prezzo finale e sulla remunerazione delle singole attività.

L'atteggiamento più forte di resistenza e di alternativa, espresso in una chiara volontà di autonomia rispetto al mercato, o meglio rispetto all'impostazione ed alle strutture dominanti del mercato, emerge dall'esperienza del “Timbaktu Collective”.

Nel discorso di Mr Bablu, uno dei fondatori dell'organizzazione, il linguaggio ricorda molto quello della lotta, della consapevolezza di dovere conquistare spazi che sono stati ingiustamente sottratti. “I contadini del Punjab possono avere l'impressione

di prendere le proprie decisioni in maniera autonoma […] ma ho potuto rendermi

conto di come essi non abbiano più davvero un controllo sulle proprie esistenze […]

ho potuto constatare ciò [in ogni posto visitato] la perdita del controllo sulle risorse idriche, sui semi, sulle foreste etc.”

La lotta deve essere condotta su un fronte comune, ed il piano è proprio quello del business. “E' tempo che cominciamo la nostra battaglia all'interno del mercato,

perchè il vero affare viene realizzato in quello spazio tra ciò che noi produciamo e ciò che viene venduto al consumatore […] noi dobbiamo occupare quello spazio nel mercato, altrimenti non riusciremo a sopravvivere.”

Krishna Prasad, nel suo lavoro con Sahaja Samrudha, mostra un approccio differente, meno dichiaratamente politico, ma altrettanto operativo. “L'agricoltura

agricola è spesso di sussistenza, sottolinea in un altro passaggio.] Essa non comporta grosse spese e “più che parlare di produttività noi dovremmo considerare l'intero

quadro, il contributo sostanziale (che l'agricoltura biologica) dona alla sicurezza alimentare delle famiglie [… ] e come attraverso il valore aggiunto [della

trasformazione] il piccolo agricoltore riesce a recuperare un po' di denaro”.

L'impegno di “Sahaja Samrudha” nella conservazione e riproduzione di sementi tradizionali è apertamente in opposizione nei confronti di quei pochi soggetti privati che traggono profitto da qualcosa che è appartenuto da sempre alle collettività, come il patrimonio genetico delle piante, e che è stato gestito in una modalità non privata ed esclusiva. La biotecnologia è sempre esistita, seppure in forme differenti da quella dell'industria, secondo Krishna Prasad, che cita vari esempi di sperimentazioni condotte nell'agricoltura tradizionale. Il problema sorge quando un numero limitato di soggetti si appropria di un bene impedendone l'accesso ad altri, come afferma Krishna Prasad riferendosi alle multinazionali della biotecnologia.

La consapevolezza della necessità di essere inclusi in qualche modo nei diversi passaggi della catena agro-alimentare caratterizza fortemente entrambe le esperienze del “Timbaktu Collective” e di “Sahaja Samrudha”. Nel primo caso tale consapevolezza acquisisce una forte connotazione politica di contrapposizione alle dinamiche dominanti del mercato ma anche di produzione di alternativa, impostando delle regole altre rispetto al modo di produrre, all'uso del denaro, al rientro “sociale” dei profitti realizzati. Le condizioni socio-economiche del distretto di Anantpur, di mancanza quasi assoluta di opportunità di reddito per la gran parte della popolazione rurale, fanno sì che la possibilità di creare un modello di gestione “collettivo” dei guadagni ottenuti attraverso l'attività agricola sia considerata un'opzione realmente percorribile. Le cooperative ed i gruppi di auto-aiuto (soprattutto il secondo) sono un modello organizzativo incoraggiato a livello istituzionale, ma dal discorso di mr Bablu emerge anche (sebbene in una maniera non esplicita) la volontà di restare fuori dall'ambito istituzionale, esercitando i propri diritti associativi in una modalità fortemente autonoma.

Nel secondo caso, quello di “Sahaja Samrudha”, il contesto geografico è molto più variegato, riguarda più distretti e gli agricoltori coinvolti sono sia produttori di sussistenza che produttori ad orientamento più spiccatamente commerciale. Anche questa esperienza identifica nella partecipazione dei produttori alla filiera l'unica possibilità per ottenere una remunerazione più equa del proprio lavoro. La formula organizzativa scelta è quella della “producer company” ma è una formula che ricorda molto le organizzazioni di tipo cooperativo (un socio un voto, esistenza di un fondo comune, mutuo aiuto). Nell'esperienza di “Sahaja Samrudha” l'iniziativa pare più concentrata sull'attività agricola, sullo sforzo di restituire dignità ai piccoli produttori e sulla tutela delle risorse naturali che sul tentativo di dar vita ad un modello organizzativo alternativo della società (aspetto che si coglie invece nel caso del “Timbaktu Collective”), e mostra anche una disponibilità più esplicita alla collaborazione con le istituzioni statali.

Il caso del “Tribal Health Initiative” è un'esperienza che, come le altre, aspira alla creazione di una filiera ma nelle interviste condotte emerge meno forte la contrapposizione al mercato convenzionale e la volontà di conquistare spazi propri ed autonomi all'interno del settore agro-alimentare. Bisogna anche precisare che si tratta di un'esperienza più circoscritta, in cui i produttori coinvolti sono nell'ordine delle centinaia, e non delle migliaia come invece è il caso delle prime due. Inoltre l'iniziativa è più giovane rispetto alle altre, ed è nata dalla passione e dall'impegno di due medici, inizialmente preoccupati per le condizioni generali di vita e di salute nell'area. Nel corso della conversione al biologico delle attività agricole si sono gradualmente acquisite altre consapevolezze rispetto a come posizionarsi all'interno di una filiera produttiva e a come ottenere dei compensi adeguati per il proprio lavoro.

Bisogna evidenziare come per tutti e tre i casi si tratti di una maggioranza di produttori di sussistenza orientati a commerciare il proprio surplus, anche se ricordiamo che quasi l'80% dei nuclei familiari rurali indiani possiedono meno di un ettaro, difficilmente per questi l'attività agricola commerciale può essere redditizia.102

Il gruppo dei produttori di riso del Tamil Nadu è composto di produttori orientati al commercio, con appezzamenti di piccola e media dimensione. Nel loro caso la conversione ad un metodo più sostenibile, l'agricoltura integrata, e al metodo di intensificazione per il riso (SRI) deriva dalla consapevolezza acquisita sullo stato di degradazione del suolo provocata dall'utilizzo massiccio di fertilizzanti e pesticidi di sintesi in seguito al programma della Rivoluzione Verde. La scelta di adottare pratiche alternative e più in linea con l'agricoltura tradizionale è dettata da motivazioni di tipo economico (risparmio sui costi) ma esprime anche un atteggiamento di “difesa” della propria identità culturale.

Ad un processo di “espropriazione” dei saperi locali si è affiancato un processo di progressiva riduzione dell'autosufficienza dei villaggi. “Oggi tutto deve

essere comprato al di fuori del villaggio, […] uno stato di cose causato dall'attuale modello di economia liberale.” Si spera di potere ricostituire un tessuto economico e

sociale che possa riportare la possibilità di vita nei villaggi. Il modello di agricoltura che è fonte di ispirazione per tutti è quello promosso dal guru Nammalvar, menzionato più volte dal gruppo nel corso delle conversazioni. Nammalvar oltre che promuovere un'agricoltura non chimica, attraverso il recupero di un modello di agricoltura integrata, predicava il ritorno ad uno stile di vita più semplice e sereno, a contatto e nel rispetto della natura, un insegnamento di cui tutti nel gruppo sembrano riconoscere il valore.

Il metodo “Zero Budget Natural Farming” (ZBNF) si caratterizza per un uso intensivo di forza lavoro, disponibilità alla sperimentazione, e promuove la creazione di reti di supporto tra i produttori. Le ragioni per cui gli agricoltori hanno deciso di adottare il metodo sono diverse, trattandosi di un numero di produttori molto alto.103 In

ogni caso la più grande organizzazione di produttori dello stato del Karnataka, il KRRS, supporta attivamente la diffusione del metodo, considerandolo come

103 Palekar sostiene che sono almeno tre milioni ma ovviamente non è possibile indicare un numero

un'opzione percorribile per uscire dalla crisi ecologica e dalla crisi del debito che riguarda moltissimi produttori dello stato, soprattutto i piccoli e marginali.

Lo ZBNF è considerato anche un movimento, oltre che una pratica agricola, sia per l'ampio consenso che ha raccolto nel sud dell'India (negli stati del Maharastra e Karnataka in particolare), sia perchè diffonde una visione dell'agricoltura, oltre che delle tecniche. La visione contenuta all'interno del ZBNF ha a che fare con il ritorno ad un'agricoltura più autosufficiente, rispettosa dei cicli e degli equilibri della natura ed allo stesso tempo in grado di abbattere i costi legati alla produzione. Inoltre Subash Palekar, l'inventore e promotore del metodo, è una figura carismatica che attrae centinaia di agricoltori durante i suoi incontri pubblici.

Anche nel caso dello “Zero Budget Natural Farming” emerge una questione fondamentale per i produttori: l'autonomia, la capacità di sostenere l'attività contando sulle risorse disponibili nell'ambiente circostante.

Per quanto riguarda i due programmi statali, il CMSA e il KSPOF, è possibile evidenziare delle differenze soprattutto nelle modalità di implementazione dei programmi. Il CMSA ha adottato un approccio orizzontale, incoraggiando un modello di formazione “alla pari” e lo scambio costante di informazioni tra gli agricoltori, “Noi

puntiamo ad incentivare la conoscenza invece dell'uso di fertilizzanti e pesticidi. Insegnare a Meenakshi e lasciare che lei si occupi di trasmettere le conoscenze apprese agli altri [agricoltori] è il miglior modello possibile di 'extension'.” (Misra,

2010). Inoltre il CMSA ha puntato su una conversione graduale, partendo da una prima fase in cui gli agricoltori cominciano ad abbandonare i pesticidi chimici e ad apprendere tecniche di controllo integrato dei parassiti e prevenzione di malattie per poi passare ad una fase successiva in cui si sostituiscono i fertilizzanti di sintesi con preparati organici. Le critiche al programma non mancano, soprattutto da parte dei dipartimenti di agricoltura delle università e degli istituti di ricerca che promuovono tecniche convenzionali a loro avviso più produttive in termini di quantità di raccolto. Tali voci affermano che l'applicazione di metodi di controllo integrato dei parassiti e

l'abbandono di fertilizzanti di sintesi ha avuto come effetto una riduzione nei volumi del raccolto. (Pulla, 2014)

Il KSPOF, nella sua implementazione come “Karnataka State Policy Organic Farming Project”, è un programma che ha avuto giudizi controversi. Tra gli aspetti deboli del programma messi in evidenza si rileva il significativo tasso di abbandono del metodo biologico da parte degli agricoltori una volta concluso il progetto (Purushotaman, 2012; Shannikodi, 2013). Inoltre una serie di interferenze politiche ha inciso sulla selezione delle organizzazioni incaricate di eseguire il progetto a livello locale. A differenza del CMSA il KSOPF ha posto meno enfasi sulle modalità di trasmissione delle conoscenze, affidando alle singole organizzazioni il compito di gestire la formazione in maniera piuttosto autonoma. L'attenzione dedicata dal CMSA alla conversione graduale degli agricoltori non sembra caratterizzare l'esperienza del KSOPF, che ha invece proposto un intero “pacchetto” di tecniche e strategie di produzione. Il KSOPF però, a differenza del CMSA, ha inizialmente posto un accento più forte sull'opportunità di istituire associazioni di produttori per la commercializzazione, ma la durata breve dei progetti non ha creato le condizioni per raggiungere le fasi finali del ciclo produttivo.