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L’essere oltre l’essenza Essere di Dio e analogia dell’essere nell’orizzonte trascendente del logos

L’essere e l’analogia: metafisica trascendentale e metafisica di trascendenza

5. L’essere oltre l’essenza Essere di Dio e analogia dell’essere nell’orizzonte trascendente del logos

5.1. L’analogia: dal pensiero dell’essere all’essere di Dio

Per quanto concerne la possibilità di convergenza tra trascendentalismo kantiano e metafisica tomista siamo certamente arrivati a un punto cruciale, il quale ci offre una preziosa occasione di approfondimento e ci permette di gettare nuova luce su quanto affermato in precedenza. Dopo essere giunti all’universale ed essere tornati all’individuale, dopo aver portato avanti a più riprese il discorso sul rapporto di essenza ed essere, a livello del reale e a livello ideale, possiamo avanzare di un altro passo nello stesso solco: cercheremo di precisare

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Vert., q. 2, a. 6 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 247 [p. 207].

170

Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., Il pragmatismo dell’intelletto, pp. 246-248 [pp. 207-209].

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«Et ideo non potuerunt ei determinari a natura, vel determinatae existimationes naturales, vel etiam determinata auxilia vel defensionum vel tegumentorum, sicut aliis animalibus, quorum animae habent apprehensionem et virtutem ad aliqua particularia determinata. Sed loco horum omnium, homo habet naturaliter

rationem et manus, quae sunt organa organorum, quia per ea homo potest sibi preparare instrumenta infinitorum modorum et ad infinitos effectus». S. Th., I, q. 76, a. 5 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 248, [p. 208].

meglio alcune questioni fondamentali seguendo Maréchal e valendoci di un comparto critico specifico172.

In termini generali possiamo affermare che Maréchal mira a oltrepassare radicalmente alcuni ostacoli della analitica trascendentale e della dialettica trascendentale. Anzi, si ha una proiezione ulteriore: uno dei problemi della teoria kantiana, sempre pertinente al legame tra realtà e idea, è la questione del rapporto metafisico tra l’intelletto, per come è descritto nella

Critica della ragion pura, e la ragione per come è descritta nella Critica della ragion pratica.

Per superare le aporie tangenti a tale prospettiva abbiamo spiegato, ad esempio, in quale senso 1) la sensibilità umana si può dire immateriale e 2) l’intelligenza umana è vincolata (ma non totalmente limitata) alla rappresentazione. Per completare il discorso si dovrà giungere ai capitoli successivi, ma già ora possiamo e, anzi, dobbiamo scoprire altri particolari.

Analogamente alla realtà dell’essenza umana, la quale è costituita ontologicamente in modo

sinolico – da materia e forma – ed è contraddistinta gnoseologicamente da una condizione altrettanto sinolica, cioè da sensibilità e intelletto, l’intellezione stessa, come atto (secondo) più proprio dell’uomo, comprende per sua natura due fronti o “interessi”, quello «pratico» e quello «speculativo», a fronte del medesimo orizzonte «universale». Nella fattispecie si intende con “pratico” proprio l’interesse “tecnico-pratico”, etico e finalizzante dell’accezione kantiana: l’orientamento immediato all’azione in quanto esterna al soggetto, in riferimento al noumeno, ma sempre attraverso il fenomeno173. Il caso del fronte pratico è quello in cui l’universale è considerato nel suo rapporto con il fantasma – come abbiamo visto – e quindi con il suo limite inferiore; il caso del fronte speculativo è quello in cui l’universale, complementarmente, è considerato nel suo rapporto all’«unità» autentica, «non-quantitativa» – altro momento preso in esame – e, quindi, alla stessa unità «immateriale» ovvero alla sua radice trascendentale174.

Perché Maréchal propone questa caratterizzazione? Attraverso questo livello gnoseologico-psicologico, e in forza del suo aspetto dinamico e soprattutto analogico, tale duplice orientamento dovrebbe aiutarci a scoprire due corrispondenti movimenti (intenzionali) dell’intelligenza: essi sono parimenti opposti e complementari e si possono sinteticamente connotare come A) «esteriorizzazione» («extrorsum») e B) «interiorizzazione»

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Il punto dirimente per la citata convergenza tra filosofia trascendentale e metafisica di trascendenza, implicante il più volte richiamato oltrepassamento del kantismo, è messo bene in luce da Melchiorre: esso risiede nel fatto che, per Kant, la costituzione dell’oggetto pensato non esclude affatto un rapporto con l’assoluto; il vero «passo ulteriore» verso un noumeno positivo, tuttavia, «non poteva essere fatto da Kant», preoccupato di cadere nel razionalismo di Cartesio o di Wolf. In sintesi «il limite del mondo fenomenico» può essere «inteso come una realtà, nel senso assoluto di questa parola» solamente a patto di notare «che l’intelligibile e il reale coincidono». Ci si può richiamare a tal proposito anche a J. Maréchal, PdM, III, cit., p. 217: «La ‘cosa in sé’ è reale come ‘condizione di possibilità’ del fenomeno, né più, né meno». Melchiorre aggiunge un’indicazione significativa: «Va notato, a questo proposito, che una posizione in parallelo a quella di Maréchal, è stata assunta in Italia – e sempre nell’arco della tradizione «classica» – da Gustavo Bontadini. Si ricordino in particolare i suoi rilievi sul cosiddetto «gnoseologismo» e sul «dualismo presupposto» di Kant […]. Conviene qui ricordare che, fra i primi scritti di Bontadini […] si trova un’ampia, attenta e in larga parte consenziente, recensione dei primi tre Cahiers di Maréchal». Da parte di Maréchal in sostanza si mira «alla fondazione di un discorso più determinato sull’Essere, verso una metafisica più propriamente positiva. L’identità dell’intelligibile con il reale, del pensiero con l’essere […] implica come tale non una semplice similitudine di forme» senza legame reale «bensì una comunione ontologica fra soggetto e oggetto» ovvero «quella analogia dei campi» intesa «secundum

continuationem quamdam». Saremmo così alla dizione «appunto analogica, dell’Essere». V. Melchiorre, Figure del sapere, cit., pp. 148-149, testo e nota 18.

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Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 248, n. 1 [p. 209, n. 23].

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Alcuni critici hanno messo bene in luce la necessità del connubio tra i due fronti. A questo proposito Gilbert, richiamando un’indagine di F. Marty, pone l’accento sulla questione di fondo e specifica: «L’opera di Maréchal propone una ontologia, e non semplicemente una critica epistemologica: il metodo trascendentale ha una portata ontologica»; per il darsi di questa dimensione, però, occorre far ritornare nella «speculazione quello che Kant riserva all’etica». P. Gilbert, Présentation, in Au point de départ, cit., p. 16.

(«introrsum»). Il moto intellettivo che pone oggettivamente l’universale vive in una costante tensione alla molteplicità: esso fa emergere l’universale per cercare di ricostruire la concretezza e, quindi, universalizza ma allo stesso tempo individualizza. Tale aspetto del movimento dell’intelligenza ha il fine di saturare in modo (para)quantitativo – mediante aggiunte successive e nei limiti del possibile – l’indefinita potenzialità che connota l’intelligenza stessa. La traiettoria di questo vettore diretto è però sempre incrociata, proprio sul piano dell’«universale», con quella dell’altro vettore: quest’ultimo, per converso, può dirsi «riflesso» e infatti parte dall’astrazione, e dal suo legame con la quantità, per risalire dalla (metaforica) espansione (spirituale) del soggetto nei confronti del molteplice. Tale espansione dello spirito possiede per alcuni versi i tratti della concretezza ma in definitiva non è mai compiuta ed è superata dalla riflessione: proprio la riflessione, infatti, oltrepassa l’esercizio diretto di questa tensione, verso tutti gli aspetti individuali, per giungere all’essenza, alle strutture del concreto e ai principi generali che presiedono e rendono possibile questa medesima apertura a ogni ente individuo.

Se queste osservazioni, almeno in base a quanto esposto, non dovessero risultare di estrema importanza, potrebbe risultare utile sapere da subito che esse ci permettono di guardare meglio nel nucleo del problema e persino di tratteggiare meglio la questione dell’esistenza di Dio. Il movimento ‘pratico’ è fenomenologicamente rilevabile e rilevante, e già solo per questo è importante, ma in più rappresenta quell’orizzontalità dell’intellezione che richiede (e suggerisce) un’ulteriore spiegazione. Proprio «il movimento riflessivo e ascendente», caratteristico della speculazione, fa trasparire «al di là» dello stesso universale il

logos, «l’unità oggettiva suprema dell’intelligenza»: da una parte questa unità si lega

indubbiamente all’unità astratta e quantitativa; dall’altra parte, tuttavia, questa non è la semplice astrazione numerica, o accidentale, e anzi rimanda al livello ontologico più profondo e, cioè, rappresenta quell’unità trascendentale, quell’identità essenziale che è l’«essere» stesso175. Tale prospettiva è chiaramente e intrinsecamente connessa con la dottrina dell’«unità dell’essere» degli scolastici, e di Tommaso d’Aquino in particolare, per i quali la nozione di essere non può rappresentare qualcosa di banalmente omogeneo: la nozione di essere non indica qualcosa di univoco e ancora meno può essere equivoca o significare precipuamente il genere più ampio senza distinzioni176.

Certo, l’essere in quanto essere comune si presenta effettivamente come la nozione più generale; la nozione di essere in senso proprio è tuttavia intensiva, non meramente estensiva. Il primo punto da acquisire è dunque il fatto che la nozione di essere in generale deve comprendere analogicamente, sotto i diversi rispetti, il massimo dell’«attualità» e il massimo della «potenzialità». La distinzione tra essere come genere ed essere come realtà è chiaramente decisiva a livello logico-ontologico; proprio a fronte di questa avvertenza, la distinzione tra i due movimenti dell’intelligenza, orizzontale e verticale, ora dovrebbe mostrare maggiormente la sua importanza proprio per la connessione con questo discrimine fondamentale. La stessa distinzione è però decisiva anche sul fronte trascendentale: nella prospettiva kantiana le categorie e le analisi delle prove dell’esistenza di Dio risentono innanzitutto della non tematizzazione di un simile elemento.

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Naturalmente il confronto tra metafisica di trascendenza e filosofia trascendentale – riscontrabile anche in questi rilievi introduttivi – non è aggirabile nemmeno in questi frangenti; alcuni critici di Maréchal affrontano con competenza le questioni che stiamo facendo emergere, ma rischiano di conseguire un quadro parziale per aver sottovalutato il citato nesso speculativo. Si può ad esempio pensare a M. Yüan, il quale ricostruisce l’indagine intorno allo snodo della causalità – e in particolare la ricezione della quarta via tomista – ma non affronta adeguatamente il problema del rapporto tra ontologia e critica. Si veda M. Yüan, Reconstruitre la IV

voie de Sain Thomas selon la philosophie du père Joseph Maréchal s.j., diss., PUG, Taichung 1966, pp. 15-16,

53-58.

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Ma allora quali possono, o devono, essere i primi asserti di riferimento per non errare nell’impostare questa argomentazione? Maréchal evidenzia subito il problema ‘logico- linguistico’ con una sintesi esemplare: «Esse, sine addito»; si tratta della prima espressione di riferimento ed è solo apparentemente lineare. Questa è infatti un’espressione estrema che può significare 1) lo stesso essere, cioè l’«esse purum», in un’occorrenza (intensiva) e 2) l’essere comune o generale, «ens commune, indeterminatum», in un’altra (estensiva) 177. Se non si coglie la profonda differenza tra le due valenze concettuali, si può arrivare a confondere l’ontologia con la logica, in senso solo formale, e di fatto si può ingenerare il rischio di annullare la distinzione tra trascendenza e immanenza. Le conseguenze sarebbero naturalmente consistenti: seguendo questo errore interpretativo si perderebbe, per esempio, anche il senso della distinzione di essenza ed esistenza, o meglio tra essenza ed essere, e alla fine si attribuirebbe all’orizzonte scolastico, e tomista in particolare, un’impropria dimensione panteistica o, comunque, immanentistica.

Stanti queste premesse, che avranno diversi sviluppi, risulta opportuno delineare subito con un minimo di precisione questa stessa differenza, prima di riprendere e approfondire più avanti l’insieme dell’argomentazione. L’essere puro (esse purum) è in sostanza lo stesso essere (ipsum esse o esse ipsum) ovvero l’ipsum esse subsistens (lo stesso essere sussistente): è l’Essere in quanto essere in senso più proprio; questo essere è “senza (possibilità di) aggiunta”, in effetti, perché è il più perfetto o, meglio, perché è la perfezione dell’essere, è l’essere stesso della realtà nella sua pienezza e, cioè, è lo stesso atto d’essere (ipse actus

essendi); «est perfectissimum omnium: comparatur enim ad omnia ut actus: nihil habet

actualitatem nisi in quantum est; unde ipsum esse est actualitas omnium rerum»178. Se ci si riferisce all’essere in quanto «essere puro», quindi, si sta intendendo l’essere di Dio, il fondamento reale del principio di identità e di non contraddizione, cioè l’essere che non può non essere: questo è l’essere vero e proprio ed è “senza determinazioni” nel senso che è oltre le determinazioni e oltre i generi. L’essere di Dio è in definitiva l’essere trascendente, cui tutti gli enti partecipano, ovvero l’Atto di tutti gli atti e, cioè, il puro Atto d’essere: tale essere supera sostanzialmente ogni connotazione aggiunta perché è la totalità dell’essere (puro) ed è quindi scevro di ogni «potenza» (passiva). Dio non è dunque un essere, ma è lo stesso essere e, in quanto tale, è infinito: prescinde a priori da ogni determinazione, nella misura in cui quest’ultima è intesa non come perfezione ma come limitazione; ogni limitazione infatti inficerebbe l’essere divino con il non-essere.

Invece l’essere comune, ovvero «l’essere astratto», è l’essere in generale. Anche questo essere è “senza aggiunta”, in effetti, ma non perché sia reale al massimo grado bensì perché di per sé non indica alcuna realtà: esso da una parte comprende tutto l’esistente ma dall’altra non significa una attualità (specifica). Se ci si riferisce all’essere in quanto essere comune, quindi, si sta intendendo non l’eminenza del reale ma la astrazione massima; di conseguenza la sua

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Una precisazione logico-linguistica che può risultare opportuna in generale – a cominciare da questa distinzione – riguarda l’“ens”, come concetto e come termine, in Tommaso d’Aquino. Maréchal adotta la dottrina tomista e la sua fraseologia; quindi può capitare che, in alcuni contesti non specifici, ens sia usato come sinonimo di essentia e soprattutto di esse. Questo si può notare bene, ad esempio, nelle divisioni di base, che sono riferite all’ens e all’esse: reale e logico, commune e divinum, per essentiam e per partecipationem, (ecc). Il motivo risiede nel fatto che l’ente esprime la totalità della cosa e può essere quindi riferito, nell’orizzonte analogico, a ogni realtà: esso connota in modo particolare il suo rapporto con l’essere, inteso a sua volta in senso analogico, tanto che si può distinguere dalla res nella misura in cui quest’ultima fa riferimento in particolare all’essenza (II Sent., d. 37, q. 1, a. 1). L’ente in sostanza è “ciò che ha l’essere” (I Sent., d. 37, q. 1, a. 1) e “ciò che partecipa all’essere” (S. Th., I, q. 4, a. 2), è “essere in atto” (S. Th., q. 5, a. 1) e ciò che “dice l’atto d’essere” (I Sent., d. 8, q. 4, a. 2). Per approfondimenti si può consultare B. Mondin, La metafisica di S. Tommaso

d’Aquino e i suoi interpreti, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2002, pp. 210-212; voce «Ente» in id., Dizionario enciclopedico del pensiero di san Tommaso d’Aquino, Edizioni studio Domenicano, Bologna 2000,

pp. 238-242; d’ora in poi Dizionario enciclopedico.

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assolutizzazione – cioè l’attribuzione a questo ‘tipo’ di essere della connotazione di essere (reale) assoluto – sarebbe contraddittoria; questo è l’essere universale ed è “senza determinazioni” nel senso che è ‘aperto’ alle determinazioni e a tutti i generi. In definitiva tale denominatore comune è l’essere indeterminato, cui tutti gli enti possono essere riferiti, ed è per questo che esso rappresenta la potenza d’essere dei singoli e, quindi, nessun essere attuale: tale essere si può predicare virtualmente di tutto e ciò è dovuto al fatto che esso «è in potenza rispetto a tutte le determinazioni». Questo essere è dunque comune nella misura in cui è l’essere non-determinato: in definitiva esso comprende potenzialmente ogni connotazione aggiungibile perché le esclude in atto ovvero perché non è nessuna di queste.

«Aliquid cui non fit additio potest intelligi dupliciter. Uno modo ut de ratione ejus sit quod non fiat ei additio [excludit additionem]. Alio modo intelligitur aliquid cui non fit additio, quia non est de ratione ejus quod sibi fiat additio [praescindit ab additione] […]. Primo igitur modo esse sine additione est esse divinum [purum esse], secundum modo esse sine additione est esse

commune»179.

Nello spiegare le valenze della ‘semplice’ espressione di partenza di Maréchal, in definitiva, siamo stati subito spinti ad affrontare radicalmente la questione di fondo e, quindi, a volgere l’attenzione verso i due poli dell’analogia dell’essere e al classico orizzonte logico- ontologico. Da una parte è emerso il vero analogato (principale), il polo assoluto, cioè l’Essere trascendente in quanto realtà nel senso più pieno; dall’altra parte ci siamo trovati di fronte quasi a un non-polo, all’essere immanente nella sua dimensione più vicina all’ideale generico ovvero nel suo senso più astratto. In virtù di tale struttura possiamo tentare di scandagliare e di comprendere la pressoché infinita varietà, reale e ideale, dell’essere180.

Come si può notare nella teoria kantiana, e in particolare nella dialettica trascendentale, si può cercare di fare a meno di una simile impostazione, e delle sue implicazioni, nell’affrontare i problemi legati all’oltrepassamento dell’esperienza. Tuttavia ci si espone all’impossibilità di rendere ultimamente ragione dell’esperienza stessa. In effetti si può procedere per sola proporzionalità e, cioè, guardando ai rapporti, tra realtà o aspetti della realtà, senza considerare i diversi livelli degli enti; senza l’attribuzione-proporzione, tuttavia,

179

S. Th., I, q. 3, a. 4 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 249-250 [p. 210].

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A questo punto potrebbe risultare opportuna un’altra precisazione, concettuale e terminologica, circa la dottrina di Tommaso d’Aquino. Come si è cercato – e si cercherà – di far emergere, Maréchal si rivolge alla metafisica tomista, nella speranza di correggere la filosofia trascendentale, perché riconosce alla prima un rilievo fondativo e originale: essa si incentra su un concetto di essere che va al di là del semplice fatto e approda all’atto e all’atto sommo; l’esse in generale è plurisemantico ma, soprattutto, è analogico in quanto si fonda sull’atto supremo che è l’esse ipsum. Certo, “esse” può rimandare anche a “essentia”, indirettamente e sotto alcuni rispetti, ma la sua connotazione più propria è quella di “actus essentiae”, cioè l’essere in senso ontologico, da cui deriva “esse” come “actus judicii” e cioè l’essere in senso logico. Dall’esse come actus essentiae deriva la capitale distinzione tra esse commune (o esse universale) e esse absolutum o esse ipsum: il primo indica il ‘reale’ minimo, ovvero lo stato d’esistenza in quanto predicabile di tutti gli enti, mentre il secondo indica l’intensità massima di realtà e, quindi, l’attualità e la perfezione di ogni atto; per conseguenza l’essere comune si configura come il concetto più astratto, in quanto privo di determinazioni, mentre l’essere stesso sussistente è la realtà come eminente pienezza di determinazioni. Nell’orizzonte tomista Dio è essere nel secondo senso: esse ipsum (S.

Th., I, q. 3, a. 4); in lui l’essenza si identifica con l’essere e ciò sancisce la sua assoluta e radicale trascendenza.

Nello stesso orizzonte, d’altronde, la forma è atto ma l’essere in senso intensivo è atto superiore alla forma stessa. Che cosa implica ciò? L’essere può costituire appunto l’atto della forma, pura o sinolica, ma al suo massimo è lo stesso essere sussistente ovvero trascende la dimensione formale generale: l’esse ipsum è per essenza e, cioè, perché è il suo stesso atto d’essere. L’essere in senso pieno è dunque l’attualità eminente, la causa di tutti gli enti in quanto partecipanti all’atto dell’essere (S. Th., I, q. 4, a. 1) e la perfezione somma. Quando si parla di Dio, in definitiva, non si può proprio applicare il concetto comune dell’esse ma solo quello intensivo: Dio è l’esse ipsum, actualitas omnium actuum e perfectio omnium perfectionum. Per approfondimenti si può consultare B. Mondin, La metafisica di S. Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti, cit., pp. 203-210, 212- 216; voce «Essere» in id., Dizionario enciclopedico, cit., pp. 260-268.

non spiegheremmo davvero né il reale né la possibilità di oggettivarlo. A tal proposito è bene osservare che vi è poi da evitare, e forse a maggior ragione, un altro orientamento: se consideriamo la varietà ontica, la quale si trova tra la pura attualità e l’estrema potenzialità, e se ci poniamo come obiettivo quello di capire i vari «esseri», i vari piani e significati dell’essere, non possiamo pensare di ridurre tutto a un quadro metafisico troppo semplificato e in definitiva semplicistico181. Potrebbe sembrare una prudenza troppo generica, ma è tesa a evidenziare quella tipologia di errore che, nella sua massima portata, accomuna la prospettiva dell’univocità a quella (contraria) dell’equivocità; il nostro compito è per converso quello di arrivare a riconoscere in questi enti le «partecipazioni graduate» all’essere che sono comprese tra i due estremi indicati182.

Ma che cosa vuole sottolineare Maréchal, mediante questi approfondimenti teoretici, in merito alla possibilità di convergenza tra criticismo e tomismo? Il fatto 1) che da una compiuta analisi dell’intelligenza, e della sua struttura dinamica, si può ricavare una considerazione dirimente circa il legame essenziale di questa con l’essere, con la realtà del principio di identità e non-contraddizione – e non semplicemente con il mero genere logico – e 2) che il legame metafisico con il reale comprende diversi e inaggirabili aspetti. La ricerca e la ‘ricostruzione’ ideale dell’unità, imprescindibile per lo stesso criticismo, può compiersi solo come ricerca dell’unità trascendentale e questa ha senso e fondamento come unità dell’essere in senso analogico.

In altri termini: gli oggetti mentali possono essere spiegati, nella loro oggettività, solo nella misura in cui rimandano alla realtà, nella sua unità, e a loro volta gli enti reali si possono spiegare solo grazie alla loro proporzione rispetto all’essere stesso da cui dipendono. Sia che