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L’essere e l’identità L’unità tra realtà, intelligibilità e universalità

L’essere e l’analogia: metafisica trascendentale e metafisica di trascendenza

3. L’essere e l’identità L’unità tra realtà, intelligibilità e universalità

3.1. L’unità: dalla realtà alla categoria

Maréchal ha più volte considerato il problema logico e ontologico dell’identità e dell’unità: che cosa implica per un ente, sia reale sia ideale, essere se stesso e, quindi, non essere nessun altro? come si connotano le distinzioni e le differenze? se la molteplicità implica l’unità, questa unità deve essere sullo stesso livello della molteplicità o (anche) deve rimandare a qualcosa di ulteriore? Questi sono alcuni esempi; a questo proposito possiamo ricordare quanto abbiamo appena notato con l’autore: questo genere di problemi ritorna in alcuni aspetti rilevanti del legame tra la realtà e l’idealità per quanto concerne i rapporti tra forma e materia, tra efficienza e fine, tra sinolo e persona e tra tutte queste sfere. Inoltre il discorso si è aperto in diverse occasioni e in diversi modi alla teoria delle specie come intermediari intellettivi dinamici tra sfere diverse. Possiamo pure proporre una lettura 83 Cfr. ibi, p. 214 [p. 179]. 84 Ibi, p. 215, n. 1 [p. 180, n. 27]. 85

Cfr. ibi, C. La funzione dell’intelletto agente secondo la teoria generale delle potenze. L’astrazione della

abbastanza netta sullo statuto epistemico delle species: se l’attività dell’intelletto agente ha come «effetto immediato» la presenza o, meglio, la “manifestazione” di «species» nell’intelletto possibile, e se queste di conseguenza determinano “formalmente” il passaggio dalla potenza all’atto del medesimo intelletto possibile, proprio alla ‘specie’ da una parte si deve riconoscere «una funzione dinamica e formale (id quo)» e dall’altra si deve negare una valenza oggettiva ove con ciò si intenda la pura valenza “contenutistica” (id quod).

Esse realizzano l’implicito dello schematismo kantiano: una tensione all’unità ideale che si fonda sulla realtà stessa ed è sviluppata dall’intelligenza. Tommaso d’Aquino le paragona in effetti alla «forma specificatrice» dell’azione esterna riferendole analogicamente all’azione intellettuale immanente86: un’azione immanente non crea nulla – soprattutto non in senso fisico – al di là «della propria forma» e, quindi, la specie non costituisce la concettualizzazione del dato; tuttavia è la medesima specie a rendere possibile tale concettualizzazione in forza del suo essere dinamica formale procedente dalla sensibilità al concetto. Essa insomma diventa il vettore unificante e «il termine dell’azione immanente» in «un atteggiamento oggettivante»87.

In effetti Maréchal sottolinea più volte che la teoria delle specie risulta efficace nel superamento dei problemi derivanti dalla convergenza di sfere (per alcuni versi) eterogenee nel processo di conoscenza. Gli stessi termini della questione di partenza possono essere presentati sotto un noto rispetto problematico. Occorre notare infatti che vi è sempre un elemento da decifrare, il quale non va dimenticato se si vuole avere un panorama più chiaro della relazione tra intelligibile e sensibile: la distinzione tra concetto e rappresentazione. Questa problematica della distinzione si dà anche, e forse soprattutto, quando vi è corrispondenza schematica e simbolica, quando i due fronti sembrano avere immediata consonanza. Di fatto, senza la consapevolezza di questo elemento, la teoria analogica delle specie, appena ricordata, apparirebbe insensata: non ci sarebbe il problema dell’unità formale emergente dalla molteplicità sensibile; il concetto potrebbe essere inteso come un’idea innata suscitata dalla sensazione oppure come la permanenza di una percezione puramente empirica. Tuttavia si correrebbe il rischio di fraintendere sia il rapporto effettivo sia la innegabile differenza tra l’immagine semplicemente presente e la vera nozione.

Quale potrebbe essere una conseguenza specifica e rilevante del fraintendimento appena denunciato? In definitiva sarebbe l’impossibilità di spiegare alcune dinamiche piuttosto evidenti, come la capacità di pensare (ed esprimere) un certo fenomeno in «un’altra» gradualità o qualità o situazione (a seconda della categoria). Per un motivo o per un altro verrebbero meno i legami tra il singolare e l’universale, tra la parte e il tutto: non verrebbero colte le possibilità offerte dal logos nella ricchezza propria dell’analogicità dell’essere. Questo esempio può risultare tanto più significativo, naturalmente, nella misura in cui 1) si hanno presenti le ragioni per rifiutare l’innatismo platonico e 2) si è notato che la sensazione, nel quadro del rapporto oggetto-soggetto richiamato, non può essere identica ma comunque si dà come ‘uguale’ all’immaginazione intesa nella sua concretezza. Da una parte l’autore nega le presenza di concetti intrinsecamente avulsi dall’esperienza; dall’altre parte egli sottolinea che, nella varie occorrenze percettive, non è necessario ipotizzare una seconda rappresentazione oggettiva o, comunque, una rappresentazione mutuata dalla rappresentazione sensibile e resa generale e ‘indipendente’ nelle facoltà sovrasensibili.

Alla fine le letture ricordate configurerebbero un non-senso: un intelligibile sensibilizzato o un sensibile puramente intelligibile. In questi casi non spiegherebbe come mai quel soggetto, che conta di procedere al di fuori dell’immagine, abbia obliato ‘pregresse’ conoscenze o si trovi di fronte al vuoto, psicologico, e non riesca in ultima istanza a trovare

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Cfr. S. Th., I, q. 85, a. 2 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 215 [p. 180].

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quel “qualcosa” di permanente, al di sotto della mutevolezza sensibile, che pure deve essere riconosciuto.

In base a quanto evidenziato occorre ammettere, in prima battuta, che il concetto risulta elemento necessario e “cosciente” ma occorre ammettere pure, in seconda battuta, che non per questo il concetto puro è sufficiente a ricoprire o soppiantare il ruolo dell’immaginazione:

Il concetto, per quanto cosciente, non basta a se stesso, come rappresentazione, e mantiene quindi un rapporto necessario con l’immagine concreta88.

Il concetto abbisogna dell’esperienza sensibile, in qualche misura, ed è ciò che si intende quando – in Kant e in Tommaso d’Aquino – si riconosce che la struttura categoriale-formale del concetto umano ha un legame intrinseco con la rappresentazione: è il rapporto necessario con la sensibilità. Come si spiega? A livello metafisico la ragione è da cercare nella condizione di sinolo del soggetto, ma per comprendere davvero la portata di questo punto occorre prestare attenzione alla natura della sinolicità propria dell’uomo: si tratta del solo livello in cui si può parlare di persona tra le realtà sinoliche. Che cosa significa? Avremo di approfondire maggiormente la questione nei capitoli successivi; per il momento possiamo rimarcare un punto essenziale che è già stato fatto trasparire in altre occasioni: il sinolo indica l’unità di forma e materia, e quindi anche dell’unità delle potenzialità derivanti da una causa e dall’altra, ma nel caso dell’uomo indica qualcosa di più ovvero l’unità tra una forma propriamente immateriale, con le sue corrispondenti capacità, e una materia che comporta la spazio-temporalità.

Proprio qui entra in gioco la specie e, in forza di questa, si deve cercare di evitare ogni facile riduzionismo ovvero – per richiamare il doppio errore citato in precedenza – ogni interpretazione che cerca l’unità, e anche l’identità, in chiave ‘monistica’: tutta la conoscenza o (aut) è dovuta allo spirito o (aut) è dovuta alla materia. Da una parte è l’intelligenza che concettualizza ma, nel farlo, non ci fornisce banalmente un «doppione», «autosufficiente» e «sublimato», della rappresentazione immaginativa e quindi, dall’altra parte, il concorso del fantasma non è, e non può essere, la totalità della conoscenza ma non è nemmeno secondario o (pseudo-)necessario solo al modo di uno «stimolo» per l’intelletto agente. Quest’ultima osservazione, inoltre, pertiene direttamente al ruolo della specie: né il fantasma né la specie sono cause principali ma neppure mere cause ‘occasionali’. La specie ha funzione di convergenza formale e dinamica tra sensibilità e intelletto: non deve essere considerata un duplicato del fantasma. Per chi interpretasse la teoria in questo modo l’immaginazione diventerebbe ultimamente superflua, almeno in seguito alla produzione della «species» nell’intelletto possibile. In altri termini la specie assumerebbe la valenza di trasformazione del fantasma: rappresenterebbe intelligibilmente, di per sé, «ciò che l’immagine rappresentava sensibilmente». La questione dell’unità e il problema del rapporto tra la specie e il fantasma sono ben più articolati e profondi89.

In definitiva Maréchal tenta a più riprese di mostrare come non sia opportuno cedere a interpretazioni che mescolano elementi eterogenei, nella loro stessa eterogeneità, per imporre una soluzione ‘semplice’ e risolvere i problemi dell’unità e del ponte tra una sfera e l’altra. Questo discorso è valido per la questione delle categorie, e del loro effettivo valore, e quindi per alcune problematiche presenti nell’analitica trascendentale kantiana, ma prepara anche il terreno per considerazioni ulteriori, presentate in seguito, che riguardano la dialettica trascendentale. Si pensi alle antinomie circa l’idea di mondo e alle critiche alle prove dell’esistenza di Dio. L’autore richiama ancora Tommaso d’Aquino, il quale aveva posto in chiaro questa situazione già prima della riflessione critica kantiana: l’Aquinate sottolinea che

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Ibi,p. 216 [p. 181].

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l’oggetto della intellezione è la verità intelligibile, nella sua unità e purezza, ma contemporaneamente osserva che nessun atto primario di intellezione e nessun ricorso alla ««species» è possibile, se non in presenza del fantasma, nel fantasma»90. Lo stesso Tommaso evidenzia altresì che bisogna evitare di cadere in un errore opposto e pensare che ciò contraddica la dottrina dell’astrazione91: l’unità che emerge dal fantasma, attraverso la specie, è per converso chiaro indizio di astrazione dalle particolarità e dalla molteplicità.

Se si guarda a questo frangente specifico, si può notare che ciò che manca davvero alla teoria kantiana (per quanto molto attenta al rapporto tra categoria e rappresentazione) rispetto alla dottrina tomista è ancora una volta la verticale metafisica. Maréchal propone infatti, per tramite dell’Aquinate, un rilievo esperienziale e un’analogia per rendere ragione del rapporto concetto-fantasma attraverso la realtà stessa e la sua identità ontologica. Si pensi allo stretto legame tra pensiero e immagine: vi è un’analogia che prospetta la proporzione necessaria tra il modo della nostra conoscenza intellettuale e l’oggetto proprio, in quanto connaturale all’intelligenza, a partire dall’unità di forma e materia nell’uomo. «Impossibile est intellectum nostrum, secundum praesentis vitae statum, quo passibili corpori conjungitur, aliquid intelligere in actu, nisi convertendo se ad phantasmata»92. L’attuazione delle specie nella mente è condizionata dal rapporto (e quindi dalla convertibilità) all’immagine attuale

analogamente a come l’attualità (spazio-temporale) di una forma in quanto forma del sinolo è

condizionata dal rapporto alla materia.

Dunque, se si guarda a questo ulteriore fattore e lo si guadagna, si può arrivare facilmente a comprendere la modalità d’azione del legame. Anzi, per spiegare la logica della rappresentazione occorre partire inevitabilmente dal reale e, su tale base, ci si accorge che può sussistere solo un tipo di “comunicazione” tra l’intelligibile e il fantasma: questa unità tra il concettuale e il rappresentabile è il risultato della convergenza forma-materia o, meglio, dell’attività dell’intelletto agente nell’unità sinolica del soggetto – ente sia sensitivo sia razionale – di cui si è previamente richiamata la natura: sia persona sia, appunto, sinolo. La

species ricopre un ruolo fondamentale nella prospettiva della dimensione umana del logos:

quello di «mezzo dinamico» (via ad) di convergenza; essa fa emergere l’universalità ma al contempo richiede il contatto con il fantasma per attuarsi e determinarsi. In definitiva la specie configura un’unità dinamica, la connessione tra forma e materia nell’intellezione, il passaggio tra potenza e atto che veicola la conoscenza dalla rappresentazione alla conoscenza compiuta. In tutto questo la specie ripropone un’analogia reale – la proporzionalità tra aspetti del soggetto e aspetti dell’oggetto – e costituendosi come «forma di un’operazione in atto», come risultante unitaria di un processo di unificazione, può risplendere nella coscienza con significato pienamente oggettivo pur non essendo l’oggetto effettivo della coscienza.

Questi rilievi hanno un certo peso per la questione dell’unità. Sulla via del logos e dell’analogia (e per alcuni versi della metafora) si può così affermare con Maréchal che: 1) nel fantasma è possibile intravedere la specie intelligibile, la quale si presenta nell’unità del dato e indica l’unità della dinamica concettuale; 2) anche le specie già acquisite non sono tracce statiche e possono “ridiventare” principi in atto (di conoscenza universale) solo in

90

«Connaturale est homini ut species intelligibiles in phantasmatibus videat […]. Sed tamen intellectualis cognitio non consistit in ipsis phantasmatibus: sed in eis contemplatur puritatem intelligibilis veritatis». S. Th., II-II, q. 180, a. 5 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 217 [p. 182].

91

«[…] intellectus noster et abstrahit species intelligibiles a phantasmatibus, in quantum considerat naturas rerum in universali: et tamen intelligit eas in phantasmatibus: quia non potest intelligere ea quorum speciem abstrahit, nisi convertendo se ad phantasmata». S. Th., I, q. 85, a. 1 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 217 [p. 182].

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relazione o, meglio, in convergenza con un fantasma93. In questa prospettiva la species non è nessuno dei poli tra i quali è tesa: né il semplice dato né l’immagine, né la pura categoria né il concetto; essa si presenta soltanto come «disposizione dinamica dell’intelletto, diversificata qualitativamente, in funzione del fantasma». Questa caratterizzazione, tuttavia, fa guadagnare alla specie un rilievo particolare rispetto alla ricordata questione dell’unità, in particolare per il versante tra logica e ontologia, e ci suggerisce che essa permette di cogliere meglio l’analogia sia tra pensiero e realtà sia tra i loro diversi livelli.

Per sottolineare l’importanza di questa acquisizione, si può fornire un’altra prospettiva circa la stessa questione. Si può sfruttare il concetto di «habitus» mentale: quando questa descrizione viene riferita alla «species», si sottolinea da una parte che essa è connaturata al soggetto – e non è un passaggio tassonomizzato in modo più o meno proprio – ma, dall’altra parte, si osserva che essa esiste solo nella sua dinamicità di “atto primo” della conoscenza, intrinseco all’atto primo (esistenza) del soggetto. Per l’uomo la specie esiste ma non come vero termine ultimo dell’azione intellettiva, bensì nel senso di principio virtualmente presente: è un ‘termine’, ma non definitivo; inoltre è principio di conoscenza formale, intermedio e dinamico – e ha il suo radicamento nella realtà del soggetto – ma richiede un’attuazione successiva.

In altri termini, nel suo livello essenziale, la specie intelligibile non è oggetto di conoscenza perché, al massimo, risulterebbe conoscibile solo per uno spirito capace di cogliere direttamente le essenze – ovvero per uno spirito che non avrebbe bisogno delle specie o, almeno, non della loro modulazione come fattori di mediazione della conoscenza – dal momento che solo questo spirito puro sarebbe capace di intuizione immediata, non di semplice appercezione o autocoscienza, anche nei confronti della propria essenza e, per proprietà transitiva, di tutti i suoi aspetti e di tutte le sue potenze. In questo caso le attuazioni intellettive dinamiche, le specie in quanto atti primi d’azione, sarebbero oggetti di conoscenza come aspetti dell’oggetto conosciuto, cioè dell’essenza personale, e della sua unità. Tuttavia questa intuizione può essere caratteristica peculiare nelle forme separate (negli angeli) ed è caratteristica eminente in Dio, ma sicuramente è assente nell’uomo “viatore”, nel soggetto come unità di forma e materia. Quest’ultimo, per altro, è l’unico ad avere davvero bisogno delle specie normalmente intese, cioè come unità dinamica di sensibilità e intelletto, e della loro capacità di rapportare l’immagine alle categorie del concetto94.

Questo rilievo rientra in quelle connotazioni che collocano l’uomo nella sfera ontologica della realtà spirituale, e quindi nella possibilità del rapporto tra soggetto e oggetto, e che allo stesso tempo, tuttavia, lo individuano al piano più basso e suggeriscono la sua dipendenza da una entità trascendente. Ancora una volta l’analogia marca la somiglianza a livello generale, cioè nella realtà del pensiero, ed esplicita la differenza a livello specifico. La differenza – nella quale si cela comunque l’indice di partecipazione metafisica – emerge bene dalla

species, la quale: 1) non è sicuramente necessaria per Dio, perché Dio è l’archetipo cui la

specie aspira ovvero l’Identità di Intelligenza e Intelligibilità; 2) per il puro spirito e per la sua intellezione è già (e sempre) necessaria e sufficiente in quanto specificazione intellettuale – cioè in quanto differenza nell’unità essenziale – perché una pura forma (l’angelo) per conoscere non abbisogna dell’unificazione di sensibilità e intelletto; 3) nell’uomo è necessaria, proprio per il darsi della convergenza di fantasma-e-concetto, e ‘da sola’, tuttavia, non è sufficiente per strutturare la coscienza oggettiva, perché per compiersi e portare così all’oggettività deve sempre essere realizzata in quanto unità e relazione dinamica a un altro fattore di oggettività ovvero al fantasma attuale. Lo specifico della species nell’uomo è

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«Dicendum quod species conservatae in intellectu possibili in eo existunt habitualiter, quando actu non intelligit […]; unde ad hoc quod intelligamus in actu, non sufficit ipsa conservatio specierum […].». S. Th., I, q. 84, a. 7 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 218 [p. 183].

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proprio questa unificazione dinamica tra immagine e categoria: è proprio questa unificazione a permettere di superare la visione schematica di Kant. Proprio per oltrepassare alcune aporie kantiane, però, occorre capire esattamente che cosa, nella specie, si relaziona al fantasma: è la significativa differenza tra l’essere umano e gli altri livelli di realtà personali95.

Maréchal non ha dubbi e, se si considerano i vari rilievi analogici e i vari richiami al

logos, non dovrebbe stupire il senso di un’affermazione apparentemente criptica: «il termine

superiore della relazione imposta al fantasma dall’intelligenza è l’unità speculativa

dell’essere»96 che si basa sull’identità dell’essere stesso. Che cosa significa? Abbiamo affermato che il fantasma è importante ma da solo non avrebbe senso – non spiega tutti gli aspetti della conoscenza – e che va considerato in relazione alla specie intelligibile e, così, all’intelligenza stessa nella sua formalità e dinamicità; dobbiamo ora osservare che tale relazione non può non imporre quella che è la forma intelligibile per eccellenza cui l’intelligenza mira, in senso trascendentale, e che cerca di approssimare sempre più ovvero l’essere stesso come intelligibilità in sé. Certo, una simile sintesi della riflessione che abbiamo portato avanti necessita senz’altro di un approfondimento; una certa letteratura critica – come nel caso di Melchiorre – ci è di grande aiuto, ma per seguire il discorso di Maréchal adesso cercheremo di dimostrare, in prima battuta, che tale «termine superiore» è effettivamente «un’unità» e di spiegare cosa si intende con ciò97.

A questo scopo si possono proporre due passaggi, mediante i quali possono essere ripresi e rivisitati alcuni guadagni precedenti.

Il primo passaggio. Dovrebbe risultare molto utile, per comprendere come la specie si relaziona al fantasma, ricordare che la relazione di fondo tra l’intelligenza e il fantasma è «immateriale e astratta». Per quanto infatti l’immagine abbia origine sensibile, e quindi materiale, il suo fattore o «supporto ontologico» superiore, l’intelligenza, è essenzialmente «immateriale». La ricezione intellettiva del fantasma, spogliato «da ogni materia individuale», è a sua volta immateriale e quindi si costituisce come «astratta»: in sostanza siamo di fronte alla nota astrazione «universalizzante», la quale è possibile in virtù della spiritualità del soggetto98.

Il secondo passaggio. Utile e complementare dovrebbe essere il sottolineare 1) la non- staticità ovvero la dinamicità del rapporto (tra fantasma e concetto) e 2) il fatto che ogni potenza operativa dell’agente si orienta ai suoi oggetti materiali «secondo caratteri astratti» (o quantomeno generali). Il fatto che la persona umana possa recepire da subito l’oggetto, in effetti, non significa che possa coglierne appieno la singolarità (materiale). Vi è nell’intelletto una disposizione essenziale permanente – in questo senso si può richiamare l’attribuzione di “habitus” fatta alla specie e parlare di ‘abitudine’ metafisica – che non si rivolge direttamente e peculiarmente alla particolarità sensibile: non ha questo o quello come oggetti. Tale disposizione riguarda piuttosto i caratteri generali dell’essenza dell’oggetto considerato. In

95

Cfr. ibi, La «specie intelligibile». La «specie intelligibile» come relazione all’immagine, pp. 215-219 [pp. 180- 183].

96

Ibi,p. 219 [p. 184].

97

La cospicua incidenza della questione analogica nell’indagine sull’essenza e sull’unità – e sul legame tra le facoltà del soggetto e su quello tra il soggetto come realtà e il reale come oggetto – è messa in luce molto bene da Melchiorre. Possiamo rifarci alle sue considerazioni per inquadrare meglio il discorso: «Quale poi sia il modo strutturale di questa unità e com’essa permetta la subordinazione del sensibile all’intelligibile, del particolare all’universale, di nuovo si può dire solo pensando ad una gradualità d’essere che in sé implichi l’identico e il diverso, il continuo e il discreto, l’uno e il molteplice: analogia, dunque, nella costituzione del soggetto […], ma ad un tempo analogia riconosciuta nel tessuto stesso del reale, nel nesso che da ultimo permette di raccogliere l’essere determinato nell’orizzonte delle categorie. Siamo così a quell’unità categoriale del reale di cui diceva Kant, ma dando all’espressione un valore non puramente gnoseologico: la misura che, ad un tempo, regola il