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Il rapporto logico-ontologico tra a priori e a posteriori nell’intelletto

L’essere e l’analogia: metafisica trascendentale e metafisica di trascendenza

1. Il rapporto logico-ontologico tra a priori e a posteriori nell’intelletto

Le argomentazioni metafisiche approntate per chiarire la natura della conoscenza, nella sua componente di percezione sensibile, hanno messo in evidenza la necessità di diversi elementi. A tale proposito si possono evidenziare il legame tra causa materiale e causa formale e, soprattutto, l’orizzonte analogico ovvero il rapporto proporzionato – e fondato sulla partecipazione alla trascendenza – tra realtà dell’oggetto e realtà del soggetto. Si è cercato di far notare che, in sostanza, senza questi fattori diventa impossibile pervenire alle condizioni di possibilità dell’esperienza e del sapere oggettivo. In definitiva si correrebbe il rischio di perdere il legame veritativo con la realtà. Proprio considerando quanto è stato appena ricordato, tuttavia, Maréchal sottolinea che la sensazione, per quanto unificata nella sussunzione in forma di spazio e tempo, non può essere considerata alla stregua di un vero

concetto: la sensazione non ha il livello di unità sufficiente e neppure una dimensione

necessaria e universale. Da una parte il concetto stesso ha certamente una basilare connessione con la sensibilità, ed anzi le è strettamente legato fin dal suo ‘inizio’; dall’altra parte esso implica nella sua stessa essenza, almeno in ultima istanza, qualcosa che oltrepassa tale dimensione, qualcosa di superiore al molteplice implicito nell’esperienza, cioè implica una forma in quanto unità metasensibile, un’unità non meramente quantitativa e, anzi, sostanzialmente universale, «unità […] che non può essere in alcun modo paragonata anche alla più complessa associazione di elementi sensoriali»1. A ben vedere questo stesso tipo di unità è certamente riconosciuto e analizzato già all’interno della filosofia kantiana e specificamente della dottrina delle categorie, dove assume il valore di «condizione a priori»2. Proprio sulla scorta dell’indagine svolta da Kant possiamo usare la stessa denominazione, aprendola però a una valenza più ‘forte’, e realisticamente connotata, ovvero operando una sorta di ritorno alle origini aristoteliche della dimensione categoriale: «chiamiamo intelletto la facoltà definita da queste condizioni a priori metasensibili»3.

Come si dovrebbe facilmente intuire, il discorso a questo punto si presenta in termini analoghi a quello affrontato nella sezione precedente. Abbiamo visto che le forme a priori della sensibilità esercitano una funzione ricettiva rispetto al dato sensibile e che questa ricezione non è totalmente passiva, dal momento che tali forme rendono ordinato il dato mentre lo intoiettano nel soggetto. Adesso dobbiamo riconoscere che le forme unificatrici dell’intelletto compiono qualcosa di simile, con la differenza che queste 1) sono categorie logico-ontologiche nel senso più pieno e 2) operano in senso più attivo e su elementi (già) acquisiti e, come tali, determinati a livello mentale o psicologico. Le categorie sono le forme di ordine superiore anche nella visione kantiana e di fatto attuano la concettualità partendo da

1

J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 185 [p. 155].

2

Si può considerare in particolare ciò che emerge in J. Maréchal, PdM, III, cit., pp. 125-174. Trattando del problema della sensibilità e quello dell’a priori dello spazio e del tempo – come si è visto nel capitolo precedente – la questione è già venuta alla luce. Quando poi si passa alla deduzione delle categorie, e al dibattito circa la sua valenza metafisica piuttosto che trascendentale, il discorso diventa ancor più centrale; nella Critica della Ragion

pura l’apice della trattazione si trova nella messa in tema del rapporto tra appercezione pura e dimensione

categoriale.

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quegli stessi fenomeni sensibili che, a loro volta, sono il risultato dell’unificazione attuata dalle precedenti forme. Si tratta di capire l’effettiva portata di questa impostazione. Le categorie in quanto forme intellettive, nella prospettiva trascendentale, non assorbono immediatamente il dato e non ne operano la prima ‘unificazione’, ma organizzano e strutturano quella pluralità di elementi fenomenici che sono già stati inizialmente attuati nella loro conoscibilità. Proprio in questo passaggio si apre con forza la questione metafisica, nella misura in cui si può affermare che esse, così, realizzano la vera unità concettuale (aspetto logico) e parimenti (aspetto ontologico) rendono presente al soggetto l’oggetto in quanto noumeno, realtà in senso più proprio.

Secondo Maréchal, infatti, nel passaggio dalla sensibilità all’intelletto agisce una condizione più profonda e determinante: si riscontra un’apriorità di livello superiore e di conseguenza – come si era specificato trattando della corrispondenza tra il livello di attualità e il livello di apriorità – si riscontra parimenti un livello superiore di attualità e quindi anche di attività. Questa attività intrinseca alle categorie, secondo l’autore, può essere caratterizza come spontaneità ed è ciò che si intende con “spontaneità intellettuale” in senso tecnico: essa si connota nel suo essere tendenza ad un’unità più piena ovvero a quell’unità che fa chiaramente emergere l’analogia. Che cosa significa ciò? La spontaneità mette in risalto le somiglianze tra la formalità intellettiva e la formalità sensibile in quanto si tratta pur sempre di forme, ma allo stesso tempo marca la loro differenza proprio nel diverso e superiore grado di attività delle categorie. Le prime somiglianze e le prime differenze tra i piani della formalità dovrebbero quindi risultare chiare: in entrambi i casi ci troviamo di fronte a una determinazione, ad un’assunzione di forma, ma per quanto concerne l’intelletto non si tratta più di una semplice “in-formazione” del contenuto (sensibile) ma di una vera e propria attività costitutiva o ricostitutiva, fondata su strutture immutabili, cioè di una sintesi che ricostruisce in modo pieno, a livello ideale, la realtà nelle sue strutture essenziali.

Per prudenza specifichiamo che, adoperando la dicitura di ‘sintesi’ in questo contesto, non si vuole intendere che l’unità emergente sia un mero composto – non sarebbe un’unità fondata sul principio formale – ma si desidera anzi affermare che questa unità di sintesi rimanda sempre alla forma e che è caratterizzata da una ‘maggiore’ formalità, e da un’intensione maggiore, rispetto alla semplice unità (formale) almeno quando quest’ultima è intesa nel suo senso generico: «unità sintetica» indica in sostanza l’unità ultima di una diversità già inizialmente definita e, limitatamente a questa accezione, si “oppone” alla semplice dicitura di «forma» almeno quando con questa si intende l’unità immediata della pura diversità fenomenica. Maréchal specifica che Tommaso d’Aquino ha esposto, in termini ontologici, una concezione della spontaneità intellettuale analoga: essa infatti è 1) basata sull’analogia e, nel senso specifico, è 2) convergente con la filosofia trascendentale e, di conseguenza, con questo tentativo (metafisico) di ripresa della stessa. Come si potrà facilmente immaginare, anche in questo caso non si vuole sostenere che vi sia identità tra l’approccio metafisico classico e l’approccio trascendentale moderno, ma si desidera tentare di mostrare quali punti di contatto possono essere individuati: tale è uno degli obiettivi perseguiti dall’autore, il quale nello specifico conta di realizzarlo mostrando come recuperare l’assetto ontologico, alla base dell’intelletto, per rispondere ai problemi della critica circa i limiti della conoscenza umana4.

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Vi sono alcuni autori che si preoccupano del vincolo restrittivo che si potrebbe venire a creare partendo da una prospettiva critica. Un chiaro esempio in tal senso ci è fornito da M. Chen: «partendo da un punto di vista fenomenale, il soggetto e la sua tendenza finale saranno anch’essi fenomenali». Occorre però osservare che l’approccio iniziale non è necessariamente esaustivo nel fornire la condizioni di possibilità in virtù delle quali si sviluppa. Si potrebbe banalmente notare – in considerazione di un tema attinente e importante – che anche le prove a posteriori per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, se sono autentiche, non sono solo a posteriori: si distinguono sicuramente dalle prove a priori, nel dispiegamento iniziale e nella scansione, ma non sono opposte; queste ultime a loro volta e ‘specularmente’, se sono autentiche, non possono essere – pena la contraddizione –

Per fornire un primo ragguaglio è opportuno tornare alla dimensione dell’analogia prima accennata ed evidenziare che in questa sono strutturalmente comprese le somiglianze e le differenze tra i poli della conoscenza: essa è insieme stretta, quando si considera il confine tra la sensibilità e l’intelletto, e inevitabilmente meno intensa quando si guarda alla specificità, alla «unità ultima» e alle «virtualità proprie dell’intelletto stesso»5. In altri termini, per quanto concerne il processo di conoscenza umano, si afferma che: 1) l’anima, come principio di attività, e il corpo, come principio di passività, sono fusi insieme secondo un’intrinseca complementarità – non sono quindi realtà eterogenee come la “res cogitans” e la “res extensa” di cartesiana memoria – e ciò emerge bene nell’intuizione sensibile («Sensatio est actus

conjuncti»); 2) l’anima umana in quanto forma spirituale sopravanza sostanzialmente il corpo

e analogamente l’atto intellettuale, costitutivo del concetto, esercita sulla materia una esclusiva e peculiare attività, libera da qualsiasi partecipazione interna del corpo («Ipsum intellectuale principium, quod dicitur mens vel intellectus, habet operationem per se, cui non communicat corpus»)6.

Se si guarda al rilievo distintivo, tuttavia, può sorgere qualche dubbio sull’affermazione di contiguità e magari può riaffiorare la domanda sulla plausibilità, o anche sulla possibilità stessa, della effettiva conciliazione nell’intelletto, e nell’intelligenza stessa, tra quella che è stata definita la ‘spontaneità’ e la passività. Maréchal stesso in effetti si dimostra consapevole di questa problematica ed esamina alcuni punti delicati. La formazione del concetto, come rimarcato, richiede una conciliazione di diversi elementi e tra questi vi è sicuramente «una

rappresentazione di origine sensibile» indicata anche come «immagine» o «fantasma»7; altrettanto sicuramente, però, questa rappresentazione è necessaria ma non sufficiente per ottenere un concetto – almeno nel momento in cui con questo termine non indichiamo una semplice impressione – e quindi richiede inevitabilmente un passaggio ulteriore. Possiamo girare questa osservazione, e provare a definire meglio gli aspetti in gioco, per far capire come si può evitare di interpretare impropriamente l’analogia: a livello generale si può affermare che vi sia proporzionalità, sul modello del rapporto materia-forma, tra immagine-intelligenza da una parte e dato-sensibilità dall’altra; tuttavia, scendendo più nel profondo, la ricezione dell’immagine nell’intelligenza è da intendersi in modo simile ma non identico alla ricezione del dato nella sensibilità. Per quanto vi sia sicuramente tale somiglianza, occorre evitare la tentazione riduzionistica e, per discernere il vero significato dell’a posteriori, è necessario evitare sia di applicare meccanicamente la proporzionalità, per non fraintendere la proporzione, sia di ridurre empiristicamente l’intelligenza a una pura passività priva di categorie essenziali, o a una sensibilità di secondo grado, e l’uomo stesso a entità meramente fisica. Di fatto quella da cui veniamo messi in guardia è una lettura che viene tentata a più riprese – anche nella convinzione di evitare alcune questioni derivanti della proposta che prevede una effettiva ‘sinolicità’ e un’unità reale nella differenza di principi – ma che suscita di fatto problemi irresolubili.

Tra le conseguenze, infatti, vi sarebbe in prima battuta la rinuncia a qualsiasi pretesa, esplicita o implicita, di attribuire valore di universalità al concetto: senza categorie, e senza l’intelligenza come facoltà spirituale, non si potrebbe parlare di esperienza in termini unitari, proprio perché verrebbe a mancare l’unità concettuale; questa infatti non può essere intrinseca al dato, il quale è come tale molteplice. In un certo senso non si potrebbe parlare nemmeno di

totalmente a priori. M. Chen, Conditions a priori dans la connaissance objective selon le p. Joseph Maréchal s.

j., dissertazione, PUG, Roma 1960, p. 46.

5

J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 186, n. 2 [p. 156, n. 3].

6

S. Th., I, q. 75, a. 2 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 186-187 [p. 156]. Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 185-187 [pp. 155-156].

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Abbiamo riportato la terminologia classica, e forse arcaica, sempre per uso tecnico: con la dicitura “fantasma” si desidera per un verso richiamare anche il “fenomeno” e, in generale, si conta di ritagliare una valenza semantica più ristretta e vincolante rispetto alla “immagine”.

dimensione a posteriori, dal momento che verrebbe a mancare il vero a posteriori: esso è decisamente essenziale per la conoscenza ma non è comunque sufficiente e non avrebbe pieno valore senza un corrispondente fattore apriorico. Se, per intenderci, provassimo a figurarci un eventuale ‘concetto’ che fosse solo empirico, che fosse «intrinsecamente costituito» in forza dell’unità complementare di un’immagine concreta (dato) e di una ipotetica “forma intellettuale” omologa (forma del dato) – cioè non propriamente categoriale e anzi simile a questa medesima immagine – ne ricaveremmo l’equivalente di una percezione e ci troveremmo di fronte alla figurazione di un effetto ‘intellettivo’ dalle proprietà strettamente individuali e quantitative. Se poi considerassimo il piano più propriamente metafisico, e andassimo dall’essenza del concetto all’essenza della causa del medesimo concetto, ricaveremmo che l’eventuale omogeneità dei fattori di composizione interna del concetto indicherebbe una corrispondente omogeneità della facoltà e che una tale struttura sarebbe del tutto uguale, più che analoga, a quella di materia e forma nelle realtà prettamente materiali8: l’intelligenza sarebbe forma della materia ma sarebbe privata del suo statuto di facoltà spirituale e di tutte quelle caratteristiche associate che le permettono di trascendere la materia. Il rapporto tra forma e fantasma non può dunque consistere banalmente nell’assunzione e nella trasformazione immediata del medesimo fantasma in una sorta di principio formale, in un improprio cambio di dimensione d’essere, quasi come se la forma ideale potesse essere considerata alla stregua di una traccia del fantasma fissata nella mente. Lo stesso Kant da una parte afferma che la sensibilità è certamente indispensabile per integrare la concettualità pura delle categorie, e ottenere una conoscenza effettiva, ma dall’altra parte distingue sempre con attenzione il concetto dall’immagine o, meglio, le caratteristiche del concetto da quelle dell’immagine. In alternativa, ammesso e non concesso che si possa arrivare ad ipotizzare che questa assunzione del fantasma come forma sia una descrizione genericamente valida del processo cognitivo, occorrerebbe tenerne presente soprattutto la genericità ovvero la valenza (molto) sintetica; altrimenti questa alternativa configurerebbe un materialismo (gnoseologico) con tutte le incognite del caso. Questo passaggio si ricollega all’osservazione ricorrente con cui, guardando alla dottrina di Maréchal, sottolineiamo la necessità di evitare l’estensione impropria dell’analogia. In questo caso si tratta di rimarcare un paio di punti: da una parte la causalità propria dell’intelletto, che è indubbiamente di carattere categoriale-formale (per adesso non valutiamo il problema del “dinamismo intellettivo”), non può essere spiegata in quel senso limitante che alcune scuole di pensiero hanno attribuito alla «causalità formale» e, per capire questo, basta pensare alle ipotesi che vi leggono la traccia della sensazione o una indefinita proprietà emergente; dall’altra parte la causalità del fantasma – e in questo caso si può davvero parlare analogamente – è certamente di richiamo materiale ma «corrisponde solo imperfettamente alla nozione stretta di "causalità materiale"»9.

Che cosa significa? Possiamo anche provare a fornire una traduzione di questi rilievi metafisici in una versione più vicina alla filosofia critica e alle sue conseguenze. Si potrebbe pensare al rapporto tra la funzione-soggetto del kantismo (io-penso) e la realtà-soggetto dell’idealismo (Io e non-Io) e dire che, per la precisione, l’attività intellettuale con la sua dimensione apriorica non dovrebbe essere connotata nel senso riduttivo e statico prima ricordato, ovvero come un a priori impoverito e privo della spontaneità, altrimenti si darebbe come la riproposizione anticipata di un certo a posteriori. A questo punto, però, potrebbe sorgere un dubbio di segno inverso. Se con l’analogia abbiamo indicato una contiguità ma anche una diversità, e se abbiamo fatto alcune osservazioni sulle facili uguaglianze da evitare, in fondo ci si potrebbe chiedere: per risolvere simili questioni è davvero indispensabile il rilievo analogico, data la difficoltà del suo impiego? Un prima risposta è naturalmente implicita in quanto fin’ora esposto: al di fuori di questo orizzonte diventa impervio rendere

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Cfr. S. Th., I, q. 75, a. 5 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 188, n. 1 [p. 157, n. 6].

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adeguatamente conto sia delle somiglianze sia delle differenze tra realtà e idealità – quello che cerchiamo di compiere seguendo l’autore – secondo le diverse proporzioni. Nello stesso solco si può completare il quadro della risposta e far notare che, se un certo livello analogico è da trattare con le dovute distinzioni, un altro livello dell’analogia è meno immediato ma anche meno problematico e, anzi, rappresenta il referente principale per il senso in cui è stata citata (e intesa) la questione dibattuta e cioè la spontaneità: quando si passa dalla proporzionalità, con cui abbiamo indicato i rapporti immagine-intelligenza e dato-sensibilità, alla questione della proporzione della stessa intelligenza – e quindi ai diversi gradi di intelligenza – e della sua spontaneità, possiamo ricavare A) che il rapporto di questa con il fantasma si spiega adeguatamente in base al livello ontologico di attualità e B) che in definitiva si può spiegare per davvero solo in questo modo.

Perché questa differenza tra l’aspetto proporzionalistico e quello attributivo- proporzionale? Attraverso la proporzione possiamo considerare i rapporti fondativi e i diversi gradi ontologici e, quindi, trarre le opportune conseguenze circa le differenze e le somiglianze tra gli analogati. Da una parte, nella dottrina di Maréchal, si afferma che il termine spontaneità (in senso tecnico) marca una specificità ma non indica qualcosa di univoco. Nel caso dell’intelligenza umana, anzi, questa spontaneità è lontana dall’essere perfetta e totale e, quindi, esprime un rimando a qualcosa di altro, e di superiore, ed è somigliante ma anche lungi dall’essere davvero uguale a questo analogato di riferimento: l’Intelletto divino. Nell’uomo infatti la facoltà intellettuale comporta attività ma anche, e sempre, una certa passività – nella quale si trova appunto la sensibilità per un verso e il fantasma per un altro verso – dal momento che questa facoltà umana non può essere piena attività, e non può quindi fare del tutto a meno dell’immagine, così come l’uomo stesso non può fare del tutto a meno della potenza (e della materia) in quanto non può essere completamente e perennemente in atto. Lo stesso passaggio (gnoseologico) «dalla potenza all’atto» ha dunque come condizione inaggirabile la presenza del fantasma, con la sua passività e con il suo situarsi in una sorta di “tabula rasa”, e avviene in conformità al suo contenuto10.

Dall’altra parte, sempre secondo Maréchal, questo discorso deve essere completato proprio per non lasciare in sospeso il quadro fondativo che è stato fatto trasparire. In altri termini: è bene non perdere di vista la somiglianza tra immanenza e trascendenza e, a fronte dell’attuazione della citata passività, occorre riconoscere il necessario concorso di un agente in atto come «causa prima»; questo significa che non può non darsi un’attualità “causante” perché si operi appunto il passaggio all’atto – principio del primato dell’atto: «nihil transit de potentia in actum nisi per ens in actu» – e ciò esclude ovviamente un’azione del fantasma così come l’attualità del piano spirituale esclude la possibilità di una sua “presa”, di una sua modificazione sostanziale, ad opera del piano materiale11. Nel versante di questo riconoscimento dell’attività del pensiero come attuazione ad opera di una realtà spirituale – e quindi sulla scorta del riconoscimento della somiglianza tra l’atto finito e l’Atto infinito nella capacità di attuazione – si sta inoltre escludendo, almeno a livello implicito, la necessità di spiegare ogni attività attraverso il riferimento a un perenne e totale intervento spirituale esterno, o comunque “altro”, alla stregua dell’ipotesi occasionalistica circa la trascendenza. In definitiva non occorre caratterizzare ogni attività come un intervento divino continuo e diretto al di fuori della necessità naturale12.

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«Intellectus humanus, qui est infimus in ordine intellectuum, et maxime remotus a perfectione divini intellectus, est in potentia respectu intelligibilium: et in principio est sicut tabula rasa in qua nihil est scriptum […]. Sic igitur patet quod intelligere nostrum est quoddam pati». S. Th., I, q. 79, a. 2 (cfr S. Th., I, q. 54, a. 4) citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 188 [pp. 157-158].

11

Cfr. S. Th., I, q. 79, a. 3 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 189, nota 1 [p. 158, n. 7].

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«Si quis vero dicat quod Deus potuit hanc necessitatem vitare, dicendum est quod in constitutione rerum

naturalium non consideratur quid Deus facere possit, sed quid naturae rerum conveniat, ut Augustinus dicit». S. Th., I, q. 76, a. 5 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 189 [p. 158].

L’autore inoltre rintraccia gli antecedenti di quest’ultima fallacia e si giova di un’analogia tra il caso in oggetto, in virtù del principio di proporzione richiamato, e una particolare questione sollevata da Tommaso d’Aquino contro le letture averroistiche. Separando nettamente la parte passiva del processo conoscitivo da quella attiva, e separando parimenti la causa della passività da quella dell’attività, si rendeva apparentemente più facile spiegare il