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Impostazione del problema: la verità tra logica e realtà

La verità e la realtà: dalla critica alla metafisica

1. Impostazione del problema: la verità tra logica e realtà

L’ontologia della conoscenza di Tommaso d’Aquino permette a Maréchal di mostrare come ogni conoscenza, nella sua oggettività, si rapporta o, meglio, si deve rapportare alla norma assoluta del primo principio: ogni verità esprime qualcosa di necessario e di universale, qualcosa di eterno, anche quando la realtà di riferimento è intrinsecamente contingente e relativa; tutto ciò implica la pretesa di esprimere la conformità tra la determinazione soggettiva, il vero come oggetto conosciuto, e «l’ordine assoluto di riferimento». Proprio in questo rapporto basilare traspare quella proporzione che è anche un primo livello dell’analogia d’essere tra pensiero e realtà, fondamentale per intendere il rapporto tra soggetto e oggetto, e che non può non essere presupposta. A livello trascendentale (in senso forte) tale conformità tra l’intelligenza del soggetto, come facoltà spirituale, e la norma assoluta dell’oggetto, come essenza dell’essere, realizza la definizione del classico concetto di “verità” ovvero mostra l’orizzonte del logos: «Veritas est adaequatio rei et intellectus»1.

Infatti guadagnando un simile livello ontologico profondo, ovvero recuperando il trascendentale in senso classico, si arriva a comprendere che il “vero” A) implica il reale come intelligibile e quindi B) si dice sempre in relazione ad una intelligenza (o all’Intelligenza); se ci si tiene allo stesso livello, ma si cambia principio di riferimento, si può pure notare il profilarsi di un’analogia diretta con la relazione – anch’essa trascendentale – tra il bene come reale appetibile e l’appetito stesso o volontà2. In questo senso il vero può essere inteso come il “bene” proprio dell’intelletto, almeno in quanto è quella perfezione finale cui l’intelligenza aspira e tende: percorrendo questa via sino al vertice analogico, ovvero al fondamento stesso del rapporto di proporzione, si può arrivare a trovare un’intelligenza perfetta ovvero un’intelligenza che possiede la pienezza del vero e che, anzi, «nella sua pura attualità» è l’Identità «assoluta dell’intelligente e dell’intelligibile» ovvero la Verità stessa; allo stesso modo si può pure dire, parallelamente, che il bene rappresenta la verità della volontà, ovvero la sua essenza autentica e determinatrice, e che il suo analogato assoluto si troverà nella vera volontà, nell’attualità piena della volontà e della desiderabilità, ovvero in quell’unità suprema di volontà e finalità che è la Bontà.

In questo prospetto sono stati anticipati diversi elementi di indagine. Per fornire un quadro un po’ più completo di questo discorso, possiamo aggiungere da subito altre osservazioni di Maréchal e, per prudenza, precisare che l’Intelligenza appena richiamata non è certo da intendersi come una mera maggiorazione dell’intelligenza umana e nemmeno come una generica razionalità del cosmo o come un vago insieme delle verità umane: per essere davvero l’intelligenza suprema di riferimento, essa deve caratterizzarsi in relazione ma anche in

1

S. Th., I, q. 16, a. 1 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 105 [p. 85]. Maréchal fa riferimento al primo articolo del De Veritate (Quaestiones Disputatae De Veritate). L’edizione di riferimento per noi è quella delle Edizioni Studio Domenicano; Quaestiones Disputatae, Voll. I, II, e III, De Veritate, Bologna 1992-1993; essa è sostanzialmente uguale alla versione utilizzata e citata da Maréchal nelle sue opere – dalle quali riportiamo le citazioni – anche se va osservato che non sempre i codici latini coincidono in modo perfetto. Il riferimento all’opera sarà abbreviato, conformemente alle diciture di Maréchal, in Verit. In questo caso si propone un confronto con Verit., q. 1, a. 1 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 105 [p. 85].

2

«Sicut bonum nominatur id, in quod tendit appetitus: ita verum nominat id, in quod tendit intellectus» S. Th., I, q. 16, a. 1 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 106 [p. 85].

‘alterità’ rispetto all’intelletto immanente; usando termini ipotetici diremo che, nella misura in cui si connotasse – come sembrerebbe – alla stregua di una realtà ulteriore e incondizionata, questa intelligenza somma non potrebbe ricevere alcuna perfezione intelligibile ma, semmai, sarebbe da concepire come «l’origine prima e la forma eminente» di ogni altro vero e, cioè, come la «verità divina», prima e creatrice3. Questo approdo rappresenta in vero l’ultimo e fondamentale livello dell’analogia e, per questo, l’essenziale complemento della proporzione di partenza: nella misura in cui la verità, nella sua connotazione di relazione tra intelligibilità e intelligenza, non dovesse darsi come assoluta e fondante, sarebbe condizionata e quindi si presenterebbe come elemento non autonomo; questa verità potrebbe esistere ed essere tale solo in virtù di altro e, nello specifico, del rapporto a quella intelligenza assoluta che è la stessa Verità4.

Ciò che si è voluto richiamare e prefigurare attraverso questo primo ragguaglio, e con un minimo di taglio ‘critico’, è chiaramente la considerazione scolastica – e tomista in particolare – per la quale, quando trattiamo filosoficamente il tema di verità, non possiamo non arrivare a considerare tutta la realtà nel suo aspetto metafisico e, quindi, anche somiglianze e differenze tra i diversi livelli e, in particolare, tra il piano trascendente e quello immanente. Da una parte la somiglianza risulta essere condizione necessaria per la possibilità di questo ragionamento sull’essere e sulla verità; dall’altra parte la dissomiglianza ci ammonisce a non sottovalutare la complessità del problema e a vagliare le specificità delle diverse dimensioni. Nella consapevolezza di ciò, e nel momento in cui consideriamo lo statuto del piano dell’esperienza diretta, occorre soffermarsi con attenzione sulle problematiche implicate dalla condizione di imperfezione di questo medesimo piano e dalla non (piena) coincidenza tra le cose e il pensiero o, meglio, dallo scarto tra l’assoluto che traspare nel pensiero e la relatività del dato. Proprio nella convinzione di riuscire a fornire una soluzione a questi e ad altri problemi, che nella loro apparente contraddittorietà diventano il punto di partenza dell’indagine speculativa, il sapere scolastico ha indagato la natura del trascendentale e si è concentrato sulla sua valenza logico-ontologica: solo in un orizzonte metafisico e totalizzante, comprensivo di ogni entità ideale e reale e delle loro relazioni, risulta possibile cercare di impostare una dottrina pienamente sensata e di dirimere la questione della verità. Inoltre, quando si articola la dottrina della verità come trascendentale (in senso forte) cioè in quanto caratteristica coestensiva dell’essere, si deve altresì notare che essa non può che darsi secondo proporzione ontologica ovvero non può che ricalcare l’analogia dell’essere stesso, pur sotto distinti rilievi, ed è quindi solo in una prospettiva trascendentale e analogica, in tutti i livelli in cui è articolata, che è possibile guadagnare un concetto di verità autentico e capace di rapportare incondizionato e condizionato5.

3

Cfr. S. Th., I, q. 16, a. 6 e Verit., q. 1, a. 4 citati in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 106 [p. 86].

4

Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 106 [pp. 85-86].

5

Il concetto di fondo è tratteggiato in modo molto preciso da Melchiorre, il quale evidenzia che Kant, nella lettura di Maréchal, non perviene a un punto di mediazione tra intuizioni sensibili e formatività metasensibile. «Per uscire dall’alternativa e per rinvenire un’intrinseca connessione fra i due campi, sì da poter spiegare tanto la formatività, quanto l’oggettività del conoscere, occorrerà, dunque, cogliere un’interconnessione dei due versanti, un nesso ontologico che conceda alla coscienza non una prensione del fenomeno, ma una qualche reale adeguazione all’essere». In filigrana rispetto a queste considerazioni, inoltre, traspare una questione molto interessante ma parimenti complessa: «Maréchal parla a questo proposito di un’assenza, nel discorso kantiano della prospettiva analogica. Personalmente ridurrei questa riserva. Ho cercato di far vedere come in realtà Kant supponga fra i due campi, quello categoriale dell’intelletto e quello intuitivo dell’esperienza, un vero e proprio nesso analogico (cfr. il mio Analogia e coscienza trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Mursia, Milano 1991, pp. 18 ss.). Si può però sottolineare come questo nesso, che nel testo kantiano risulta in termini di una vera e propria reciprocità d’essere, venga di fatto espresso da Kant nel modo di un’analogia di proporzionalità. La fedeltà a questa dizione finisce poi per mantenere l’estrinsecità dei due piani e quindi il dualismo di cui parla Maréchal». V. Melchiorre, Figure del sapere, cit., pp. 137-138, testo e nota 10.

Per tentare di rendere più esplicita questa rimodulazione dell’eredità classica, da parte di Maréchal, si può sintetizzare la dottrina dicendo che, in prima istanza, chiamiamo vere le cose in quanto e nella misura in cui sono – cioè sono riconosciute come vere perché prima di tutto sono (se stesse) – e che, in seconda istanza, le medesime cose sono denominate vere, più specificatamente, in quanto e nella misura in cui sono intelligibili ovvero relate ad una intelligenza; in questo prospettiva si vuole evidenziare A) il fatto che al di fuori di una simile relazione del reale con se stesso (identità/non-contraddizione) e con l’ideale (verità ovvero intelligibilità) un concetto di verità che si volesse distinguere dal rango di opinione non avrebbe senso e B) il fatto che, in un simile profilo, la verità ‘conosciuta’ costituisce in se stessa un riferimento costante e diretto all’intelletto e un non meno costante, per quanto indiretto, riferimento alla realtà. Per prevenire da subito una possibile obiezione, a questa sintesi, è opportuno aggiungere la notazione per cui la relazione tra cosa e intelligenza, nella sua analogicità, è (almeno) duplice: un conto è trattare della proporzione tra la realtà-verità trascendente e la realtà-verità immanente, un altro conto è indagare la proporzione tra realtà e verità in generale; per facilità si può affermare che la prima è una relazione essenziale, l’altra a confronto è accidentale. In effetti questa modulazione, presente nella visione dell’autore, non è da trascurare: in essa traspare una parte dell’importante e complessa differenza tra l’analogia di proporzione e quella di proporzionalità.

La «relazione essenziale», cioè «per sé», è un rapporto difficile da definire ma comunque intrinseco: è quella relazione «per cui una cosa si trova realizzata secondo la misura d’essere predeterminata in un’intelligenza creatrice» ovvero, in modo eminente, ciò per cui le essenze del creato «sono misurate» dall’Intelligenza e, in modo relativo, ciò per cui le produzioni umane «sono misurate» dall’idea dell’artista. In questo versante della relazione la verità dell’oggetto rappresenta in sostanza il “termine” formale del movimento, trascendentale, del pensiero: in termini critici, e quasi idealistici, si direbbe che il pensiero «fuoriesce parzialmente» da sé per realizzarsi in un «in sé» estraneo. Se poi si pone attenzione alla sua duplice accezione, si può parlare di intelligibilità assoluta, per sé, dell’oggetto in generale:

«Unaquaeque res dicitur vera absolute secundum ordinem ad intellectus a quo dependet»6.

Un oggetto ontologicamente relativo infatti esiste ed è intelligibile in virtù di quella assolutezza che emerge dalla «partecipazione necessaria» sia alla perfezione (relativa) di un’intelligenza, la quale rende intelligibile l’oggetto in senso generale, sia alla Perfezione dell’Intelligenza, che lo rende intelligibile in senso essenziale7.

La relazione accidentale è, in termini contrapposti, un rapporto preciso ma comunque esterno ovvero quella relazione per cui una cosa si trova rapportata a un’intelligenza dalla quale: A) è sempre realmente distinta; B) «non dipende» mai; C) «non è preconosciuta». Questo per altro è il piano immediato del «conoscibile», nel momento in cui è considerato nello specifico della relatività della sua realtà, e questo piano – come capita nel caso degli enti naturali rispetto alla nostra intelligenza – rappresenta il livello della «verità accidentale»: è il versante della relazione caratterizzato sia da una precisa proporzione tra oggetto-intelligibilità e soggetto-intelligenza (carattere di verità) sia da una non autosufficienza nel rendere ragione di questa proporzione (carattere di accidentalità)8.

Il suggerimento di Maréchal dovrebbe ora risulta abbastanza chiaro: se si riconosce e si segue l’analogia, si può autenticamente comprendere il rapporto di verità come partecipazione oggettiva all’intelligibilità totale, e quindi all’Intelligibilità, e di conseguenza si può arrivare a guadagnare una profondità metafisica che ci permette di parlare di verità ontologica; con

6

S. Th., I, q. 16, a. 1 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 107 [p. 86]

7

Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 106-107 [p. 86].

8

questa dicitura, per la precisione, si sottintende ciò che altrove si può indicare con il concetto di verità logico-ontologica – cioè di verità nel suo completo aspetto ideale e reale – ovvero il fondamento metafisico della verità logica. In questo caso viene terminologicamente rimarcata la distinzione, tra aspetto logico e aspetto ontologico, perché la denominazione di verità (solo) logica può anche limitarsi a indicare solamente il rapporto generale verità-intelligenza senza considerare la totalità dei rapporti: essa insomma può fare riferimento semplicemente alle capacità dell’uomo nel loro aspetto funzionale, magari esclusivamente ricettivo, e secondo il mero piano immanente. Per quanto tale versante di per sé non sia affatto preclusivo nei confronti di un’ulteriorità di senso, alla fine – come è capitato in alcuni autori e come è stato evidenziato dalla critica – rischia di circoscrivere la considerazione del vero all’interno dell’orizzonte umano e quindi nell’imperfezione e, magari, in una esasperata passività9.

In un’intelligenza perfetta, verità logica e verità ontologica coincidono necessariamente e perfettamente, perché questa intelligenza è la sua stessa perfezione intelligibile e determina sovranamente tutte le perfezioni intelligibili da sé distinte. […]; Dio conosce tutte le cose nell’atto puro della sua essenza10.

Cosa ci porta a notare l’argomento sviluppato da Maréchal? La coincidenza necessaria e perfetta di verità logica e verità ontologica, in un’intelligenza appunto perfetta, è ciò che può fondare la relazione veritativa immanente e condizionata: per spiegare davvero quest’ultima si deve dunque arrivare innanzitutto a riconoscere la necessità di tale realtà trascendente e incondizionata. In altri termini l’Intelligenza non può non essere anche l’Intelligibilità, ovvero la sua stessa perfezione intelligibile, e la medesima Intelligenza è, anzi, l’Essere in quanto assoluto di intelligibilità e intelligenza; proprio nel suo essere assoluta identità dei due poli trascendentali l’intelligenza divina determina, tramite creazione-partecipazione, tutte le altre intelligibilità nella loro relatività. L’analogia ci rivela insomma che in Dio, in quanto Logos, il principio della conoscenza oggettiva è tale Identità di Intelligibilità-Intelligenza ovvero (sono) la Perfezione e la Creatività del pensiero divino stesso: Dio conosce tutte le cose in se stesse perché conosce tutte le cose in Sé, nell’atto puro della sua essenza o, meglio, nell’Atto puro che è il suo stesso essere e che è la sorgente di ogni essere.

A questo punto si può anche passare/tornare al piano immanente, cioè considerare più nel dettaglio l’intelligenza imperfetta. In effetti bisogna approfondire le implicazioni dei limiti ontologici da cui siamo partiti – tra cui la stessa distinzione tra intelligibile e intelligenza e l’apparente contraddittorietà di tutte le verità e di tutte le intellezioni relative – e Maréchal, in prima battuta, ribadisce che: A) le verità e le intellezioni non assolute, in quanto condizionate e finite, si danno e si comprendono solo in forza della «derivazione dalla verità prima», cioè dalla Verità assoluta e infinita; B) tali derivazioni si traducono appunto in questi due canali polari, le intelligenze stesse e le cose. In seconda battuta l’autore, sottolineando che «l’intelligenza finita» è contraddistinta «per sua natura» dalla partecipazione (per quanto

9

L’analisi offerta da Moretto a questo proposito è indicativa: ci sembra che vengano rilevate queste stesse istanze di fondo e che parimenti si desideri sottolineare l’antiriduzionismo di Maréchal; all’interno di questa rimodulazione metafisico-critica vengono individuati ed evidenziati alcuni tratti essenziali della gnoseologia realista e, in particolare, vengono fatte emergere due eredità concettuali importanti. Da una parte siamo rinviati all’esemplarismo tomista: «[…] la necessità di una certa proporzione tra soggetto e oggetto ontologico, predeterminata da un’intelligenza creatrice, perché vi possa essere una nozione di “verità logica”, dal momento che questa nasce dall’incontro di due “canali paralleli” che discendono dalla stessa verità prima». Dall’altra parte siamo chiamati a porre attenzione al rapporto passività-attività, per quanto concerne l’intelletto, in una prospettiva che potremmo definire personalistica: «[…] la conoscenza non va tanto vista come un riflesso passivo dell’oggetto nel soggetto, quanto come termine di un’attività immanente, mentre l’oggetto ontologico è conosciuto nella misura in cui sarà entrato tra le condizioni dinamiche dell’attività del soggetto […]». D. Moretto, Il dinamismo intellettuale, cit., p. 301.

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limitata) alla Verità, ovvero all’Intelligenza-Intelligibilità creatrice, aggiunge che questa partecipazione può però essere realizzata in due modi diversi: «possesso naturale

dell’intelligibile» o ‘soltanto’ «esigenza dell’intelligibile».

Questa differenziazione è chiaramente importante e l’analogia si costituisce come elemento essenziale per portare avanti un simile discorso. Prima di spiegarla occorre però porre attenzione ad alcuni particolari snodi, che avremo modo di affrontare in più occasioni anche in altri capitoli, dal momento che essi richiedono una precisa modulazione dell’indagine che portiamo avanti proprio attraverso la via analogica. Che cosa significa questo richiamo all’attenzione? Per certi versi potrebbe apparire paradossale, o forse semplicemente contro-intuitivo, ma la dimensione analogica che ci consente di giungere al piano trascendente, in modo necessario, potrebbe non riuscire a fornire lo stesso livello di certezza in merito alla possibilità di prospettare adeguatamente tutto il quadro della totalità del reale. In altri termini: più si riflette sulle condizioni dell’analogia, più si scoprono potenzialità e limiti; essa non può condurci a conclusioni del tutto certe in merito ad alcuni oggetti di conoscenza che, per molti versi, sono maggiormente alla nostra portata rispetto all’infinito in sé; in sostanza non si può avere sempre lo stesso livello di necessità che l’analogia ci garantisce nel traguardare al piano trascendente più puro e allora la ricerca resta, almeno in parte, nell’ambito delle ipotesi.

Il caso problematico che si presenta nel passaggio prima riportato si nasconde nella dicotomia possesso-esigenza. Il concetto di ‘esigenza’ dell’intelligibile è abbastanza lineare: si indica così quella naturale connessione dell’intelligenza all’intelligibilità che non implica però un possesso connaturato; ci riferiamo quindi al caso dell’uomo, il quale non ha un vero

oggetto “a priori”. Quando invece parliamo del ‘possesso’ dell’intelligibile ci riferiamo a una

possibilità reale ma, in sostanza, a una realtà di cui non possiamo avere una conoscenza precisa e di cui non possiamo provare per certo l’esistenza: le «species» innate angeliche. Per il momento è opportuno rimandare il discorso, con l’eccezione di un punto specifico: in entrambi i casi la partecipazione alla realtà divina (Intelligenza) porta nell’attività naturale della realtà immanente (intelligenza angelica piuttosto che umana) «il segno permanente della verità prima» almeno come «condizione “a priori”»11.

Che cosa implica a livello critico questa esigenza dell’intelligibile che emerge nel plesso delle condizioni a priori di verità? Abbiamo rimarcato che la realtà stessa è verità, in senso trascendentale forte, in quanto è in sé intelligibile ovvero aperta all’intelligenza e, specularmente, abbiamo rimarcato che ciò significa che la verità stessa è reale proprio in quanto è essere rapportato all’intelligenza. Una prima importante conclusione risiede nel fatto che «ogni intelligenza» creata – a suo modo – «definisce» attivamente («mensurat») «il vero» e quindi, pur nella sua imperfezione, prolunga la attività e la spontaneità originaria dell’intelligenza perfetta: anche l’intelligenza umana opera esattamente in questo senso, quando impone all’intelligibile potenziale, al dato, «la forma dei primi principi». Questo «imperativo logico», se opportunamente scandagliato, rimanda dunque all’ontologia, a una struttura più profonda e ‘assoluta’ rispetto all’esperienza immediata, a una proporzione essenziale tra la verità prima e l’intelletto finito: tale imperativo esprime un «esemplarismo» dinamico e un dinamismo formale, nel suo stesso nucleo, e quindi «una dottrina dell’a priori intellettuale» a livello metafisico12.

«Veritas secundum quam anima de omnibus judicat, est veritas prima. Sicut enim a veritate intellectus divini effluunt in intellectus angelicum species rerum innatae, secundum quas omnia

11

Cfr. ibi, pp. 107-108 [p. 87].

12

cognoscit, ita a veritate intellectus divini exemplariter procedit in intellectum nostrum veritas primorum principiorum secundum quam de omnibus judicamus» 13

In vero si può considerare, in modo complementare, anche il versante dell’oggetto. Se l’uomo è finito e ha capacità finite allora non stupirà il fatto che lo stesso uomo non potrà davvero commisurarsi a ciò che lo supera né avere immediata evidenza dell’infinito e, quindi, dell’Oggetto; tuttavia questo non preclude ogni tipo di conoscenza dell’oggetto supremo, almeno nella misura in cui vi è una qualche relazione tra l’Infinito, sotteso al finito, e l’infinitezza di cui è capace l’intelligenza.