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Il ruolo del giudizio tra logica e ontologia

La verità e la realtà: dalla critica alla metafisica

3. Il ruolo del giudizio tra logica e ontologia

In effetti un nodo che il filosofo metafisico e il filosofo critico devono sciogliere, ‘prima’ di poter interagire, è rappresentato dall’analisi riflessa dei nostri contenuti di coscienza, del loro statuto epistemico e della misura in cui si costituiscono e si distinguono per il loro riferimento, anche minimo e indeterminato, ad un assoluto logico.

Cosa abbiamo ricavato, per il momento, a tal proposito? Con Maréchal siamo giunti alla conclusione che ogni conoscenza vera presuppone una proporzione ontologica e che, all’infuori dell’intuizione intellettuale, per il soggetto deve darsi il potere di assimilare l’altro e di assimilarlo in quanto altro: la conoscenza è oggettiva nella misura in cui l’altro affluisce al soggetto, che lo formalizza e vi si adegua, e si rende al contempo presente come forma- altra, cioè forma dell’altra realtà, alla coscienza. La «ratio formalis veri», la condizione logico-ontologica, è stata infatti indicata come il particolare stato (trascendentale) in cui il soggetto è totalmente sé, come unitario agente conoscente, ed è pure l’altro «nell’identità 52 Ibi, p. 124 [pp. 101-102]. 53 Ibi, p. 125 [p. 102]. 54

dell’atto immanente»: per questo si è detto che tale stato per la conoscenza rappresenta in più modi il principio – sia ontologico e profondo (come origine) sia procedurale e prossimo (come inizio) – rispetto alla cognitio ovvero al suo momento più completo e conclusivo. Quest’ultima, invece, è stata indicata come la precisa presa di coscienza dell’oggetto sulla base del «rapporto di verità», in quanto attivato e compreso dal soggetto, ovvero sul fronte soggettivo ultimo dell’adeguazione-assimilazione (adaequatio intellectus et rei).

Inoltre è stato specificato che tale assimilazione all’oggetto è possibile nella misura dell’immaterialità del soggetto. La ragione che ha portato a questa specificazione è stata la necessità di rimarcare che la verità, nella sua dimensione analogica, è sempre verità ma sul fronte oggettivo non può essere propria dell’essere relativo come lo è dell’essere assoluto e sul fronte soggettivo, all’interno del solo piano immanente, non può essere propria della sensibilità come lo è dell’intelligenza. Di certo, da parte di Maréchal, non si è voluto lambire un più o meno larvato platonismo, per contrastare le impostazioni empiristiche, ma evidenziare contemporaneamente che da una parte non si può non partire dal senso – e quindi per molti versi non si può non seguire la sensibilità – e che, dall’altra parte, il senso stesso è in sostanza un «analogato dell’intelligenza» («deficiens participatio intellectus»). La verità del senso è importante, per alcuni versi inaggirabile, ma è particolare e contingente e quindi, considerata nell’orizzonte della proporzione d’essere, risulta comunque minore e non autonoma rispetto a quella dell’intelligenza; la verità dell’intelligenza è l’unica che può aprire alla necessità e alla totalità e, per conseguenza, è solo in quest’ultima che si può più propriamente riscoprire il logos.

Anzi, confrontandosi da un lato con i capisaldi dell’idealismo, soprattutto con il concetto di assoluto come autocoscienza, e sostenendo dall’altro lato una visione più analogica e personalistica, Maréchal ha rilevato che proprio l’indagine sull’intelletto, in quanto aspetto attivo (come atto secondo) più alto e proprio della natura del soggetto (come atto primo), poteva aiutarci a rilevare il modo in cui i diversi livelli della verità, tra unità e molteplicità, si rapportano nel processo di conoscenza. La prima tappa concerne naturalmente le contiguità e le distinzioni tra intelletto e senso.

In particolare è stato affermato che è la natura immateriale dell’intelligenza a renderle connaturale sia l’adeguamento a tutta la realtà sia la (auto)trasparenza, basata sulle proprietà logico-ontologica dell’atto esistenziale, e che dunque è questa spiritualità sostanziale a rendere il soggetto capace sia di conoscenza e di coscienza, in generale e a vari livelli, sia di vera autocoscienza. In definitiva l’autore insiste sul fatto che il rapporto di verità con l’oggetto progressivamente acquisito da parte del soggetto – nella misura in cui è inteso come attuazione e perfezione dell’intelligenza in quanto tale – deve essere concepito, con entrambi i suoi termini, in una dimensione ulteriore rispetto alla sola materia e al senso, una dimensione totalmente “luminosa” e radicata nel trascendente55. Occorre ripensare sia l’oggetto sia il soggetto: l’oggetto in quanto essere intelligibile manifesta la sua apertura passiva al soggetto e la sua partecipazione all’Essere che è Intelligibilità (e Intelligenza); il soggetto in quanto essere intelligente manifesta la sua apertura attiva all’oggetto e la sua partecipazione all’Essere che è Intelligenza (e Intelligibilità); il soggetto in quanto agente autocosciente manifesta la sua presenza a sé e la sua partecipazione all’Essere che è Autocoscienza. La cifra della connessione tra soggetto e oggetto, sia a livello di senso sia a livello di vera intelligenza, è stata dunque trovata nella immanenza formale-spirituale dell’oggetto nel soggetto: questa è basata a sua volta sul rapporto apriorico e trascendentale di verità, come verità logica e analogica, e si attua in virtù dell’intelligenza e della dinamica di assimilazione dell’essenza oggettiva. D’altronde è nel momento del compimento di questo specifico tipo di intellezione, quando il precedente possesso formale del rapporto di verità logica si completa e viene

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davvero a coscienza, che l’oggetto può presentarsi pienamente: quando l’oggetto diventa davvero oggetto conosciuto, esso non è più una modalità dell’oggetto formale, considerato in generale, ma diventa equivalente all’autentica conoscenza della verità, perché restituisce sia la realtà sia la coscienza della conoscenza della realtà. Quest’ultima, in estrema sintesi, è precisamente la conoscenza oggettiva in quanto conoscenza dell’oggetto di cui si ha coscienza56.

Il passo successivo consiste appunto nell’individuare e comprendere quella specifica operazione che può efficacemente completare il possesso formale (e dinamico) e quindi introdurre ‘in pieno’ nella nostra coscienza il rapporto di verità logica. Per l’autore questa operazione non può che basarsi sulle condizioni ontologiche oggettive più volte richiamate e inoltre può, e anzi deve, permettere una maggiore dischiusura della convergenza con quanto rilevato dalla prospettiva critica. D’altra parte, in tale operazione, sono racchiuse anche le «condizioni ontologiche soggettive» del rapporto ed è attraverso queste che può rimodularsi la prospettiva moderna. Maréchal a tal proposito si rifà direttamente ad Aristotele e a Tommaso d’Aquino e considera che la verità specificatamente logica, nella sua basilarità, viene riferita al rapporto trascendentale tra oggetto e soggetto e che, nella sua completezza, si trova espressa basilarmente nel giudizio.

Forse, per capire il motivo di tale attribuzione di funzione completante al giudizio, bisogna prima di tutto fare un passo indietro e osservare che in ogni autentica conoscenza è possibile isolare per astrazione diversi momenti, soprattutto precedenti, e riconoscerli come fattori necessari ma non ancora sufficienti. Come abbiamo in parte già visto, e vedremo anche più avanti, proprio i momenti precedenti all’atto giudicativo basilare introducono in noi alcune fondamentali determinazioni e tuttavia non possono già introdurre la compiuta «conoscenza

di un oggetto in quanto oggetto».

Sensazione e concetto – se guardiamo alla loro base trascendentale – conferiscono al soggetto lo «stato di conformità» all’oggetto: in questo senso rappresentano l’oggetto in modo adeguato; ma, se li consideriamo da soli, essi non risultano sufficienti a completare l’operazione. Da una parte, innanzitutto, essi devono esseri intesi secondo la gerarchia prima richiamata: l’adeguazione dipende più dall’intelligenza che non dal senso e ciò rivela una a apriorica dipendenza, nei confronti dell’intelletto, da parte del senso. Dall’altra parte, in secondo luogo, né la sensazione né il concetto possono restituire l’oggetto in modo pieno: non possono fornire subito la coscienza del rapporto e, in questo senso, non permettono di accedere alla verità ‘saputa’. Quest’ultima è la consapevolezza della verità come presenza della cosa in noi: è l’acquisizione riflessiva del rapporto che coinvolge sempre oggettività e soggettività. La verità, in prima istanza, è certamente rappresentata «nella coscienza» e, quindi, ha una dimensione oggettiva che rimanda alla dimensione propriamente reale; essa tuttavia non è ancora propriamente posseduta dal soggetto, cioè non ha una dimensione oggettiva completa, perché non solo non è pienamente riflessa ma non è ancora oggettivata «per la coscienza»57.

Ma allora come e dove si danno le condizioni per poter parlare di vera e propria conoscenza oggettiva? Per Maréchal l’effettiva “oggettivazione” dell’oggetto, nella sua condizione necessaria e sufficiente, si ha in quella attuazione della conoscenza che comprende sia la forma dell’oggetto nel soggetto (condizione necessaria) sia la coscienza che il soggetto guadagna circa il medesimo rapporto di conformità tra determinazione soggettiva e realtà esterna (condizione sufficiente). Essa deve essere prodotta da un atto omogeneo, spontaneo e ulteriore da parte del soggetto: il giudizio. La sintesi giudicativa è per l’appunto quell’atto che comprende e ripresenta contemporaneamente il modellarsi sull’oggetto, cioè l’introiezione-

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Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 126-127 [p. 104].

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immanenza dell’essenza oggettiva, e il presentarsi autoconsapevole, come conforme al medesimo oggetto, da parte del soggetto58.

Per cercare di chiarire almeno in parte questa teoria della coscienza, ovvero della riflessione sulla conoscenza, ci si può avvalere di un’assonanza critica, la quale però può non apparire immediatamente collegabile. La premessa per capire tale riferimento sta nel distinguere il ‘materiale’ e il ‘formale’ in senso procedurale, in questo caso, e quindi nei termini di una conoscenza incompleta in un caso e completa nell’altro. Se si considera il rapporto di verità in toto occorre riferirsi sia al livello essenzialmente trascendentale (incompleto) sia al livello di effettiva realizzazione (completo): si deve dunque parlare di questo medesimo rapporto sia come A) conformitas rei et intellectus, il cui termine “soggettivo” (sensibilità e soprattutto “intellectus”) è dato come intrinseco al rapporto – ovvero come materialmente già costituito nelle facoltà del soggetto in quanto agente materiale e spirituale – sia come B) legame formalmente posto in quanto tale, secondo entrambi i suoi termini, ovvero come piena e ‘perfetta’ assunzione del valore di oggetto da parte della determinazione soggettiva59.

Il luogo dove il materiale è compiutamente unito nel formale esplicita, in modo autentico, ciò che stiamo cercano: la conoscenza consapevole e la consapevolezza conoscitiva formalmente poste. Si è detto che ciò avviene nel giudizio basilare. Il giudizio in senso tecnico è precisamente l’atto attraverso cui gli stati soggettivi o, meglio, le presenze oggettive nel soggetto acquisiscono in pieno valore oggettivo: è proprio perché vengono consapevolmente riconosciute che possono diventare veri oggetti conosciuti. Questo elemento riveste in modo evidente un ruolo importante, secondo l’autore, nel tentativo di modulare criticamente la metafisica. Proprio per questo motivo, però, il termine non può che essere inteso in un senso più profondo, rispetto a quanto ricavabile dal minimo comune denominatore delle prospettive critiche, cioè va inteso almeno nel suo valore di intelletto “espresso”, «intellectus componens et dividens», di elemento procedurale fondato nel logos: nel giudizio si compie la capacità di riconoscere e, in un certo senso, di porre consapevolmente «l’essere e il non-essere nella rappresentazione».

Prima di questo livello la rappresentazione, a prescindere dal discorso sulla conformità oggettiva basilare, non può essere vera o falsa nel senso comune del termine: essa non è pienamente recepita e, quindi, non può essere davvero discriminata. Certo, essa può anche essere considerata vera per i suoi connotati trascendentali, a cominciare dal fatto che è qualcosa in sé ed è qualcosa per noi, ma in questo caso si parla semmai del principio di identità (e non-contraddizione) in quanto discriminante di fondo: non ci troviamo di fronte a una consapevole differenziazione tra verità e falsità. Al limite si può pure dire che tale rappresentazione sia vera o falsa (solo) per estrinsecità: è astratta da quella consapevolezza che ci rende noti i connotati citati, ovvero i fattori logico-ontologici, da intendersi come i rapporti più profondi ma meno percepibili tra l’oggetto al soggetto. Mediante il giudizio, invece, essa è compiutamente interiorizzata, è fatta propria dal soggetto, il quale scopre la presenza dell’oggetto in quanto oggetto e la sua relazione ad rem. Solo così la rappresentazione concettuale può diventare un «quoddam proprium» dell’intelletto e dispiegare la presenza dell’altro (in noi), in quanto forma ideale, fino a fornirne autentica consapevolezza60.

Così, inoltre, l’intelletto si mostra in pieno nel suo essere attività superiore: dimostra in modo definitivo di essere l’atto emergente di una forma sostanziale spirituale. A questo punto dovrebbe infatti risultare chiaro che l’attuazione dell’intelligenza non è semplicemente

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Per un ragguaglio sul concetto di giudizio nel solco della dottrina di Maréchal rimandiamo a P. Gilbert, La

semplicità del principio, EDB, Bologna 2014, pp. 222-224.

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Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 128 [p. 105].

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l’effetto dell’influsso dell’oggetto ma, insieme, è il compimento di quella capacità spirituale che introietta l’oggetto, attraverso la forma, e lo struttura come idea. Tale introiezione essenziale e tale strutturazione intellettiva sono indici di una tensione che è propria del soggetto, come persona, e che si radica nella realtà e, anzi, nelle profondità del reale. Guardando agli effetti astrattivi e riflessivi, si evince in modo inequivocabile che l’intelligenza non è sottomessa alla materia e che è capace di ‘possedersi’ fino a uscire da sé e a tornare su di sé. In questo senso la componente intellettiva si caratterizza come attività di grado superiore, come capacità attiva che può giungere fino a quella formale e consapevole opposizione (soggetto-oggetto) che avviene nell’identità e nell’immanenza della dinamica del soggetto61.

In conclusione, per quanto concerne la conoscenza umana compiuta, il giudizio risulta essere il solo atto che realizza pienamente la verità logica e che la realizza in forza della presa di coscienza di un significato delle rappresentazioni. Occorre precisare che, nell’accezione di tale giudizio, non è compresa in prima battuta l’affermazione esplicita di verità della proposizione: c’è riflessione rispetto ai termini del giudizio, e alla loro verità, ma non c’è da subito un giudizio-riflesso-sul-giudizio. La differenza è, per esempio, quella che si riscontra tra “a è b” e “è vero che a è b”. Altrimenti bisognerebbe intendere la conoscenza giudicativa dell’oggetto, cioè l’espressione estesa della verità, come anteriore alla coscienza compiuta e riflessa, ma non espressa, della verità. Per capire questa differenza di grado all’interno della prospettiva riflessiva, occorre distinguere tra la verità implicita (exercita) nel giudizio e quella conosciuta (signata) nelle riflessioni: la prima indica un rapporto trascendentale effettivamente colto ma – per usare termini facilmente distinguibili – soprattutto vissuto (o

agito) dalla coscienza; questo rapporto è dedotto dal modo della rappresentazione ma non è

davvero ri-conosciuto. In questo senso si può anche intendere il giudizio come ‘riflesso’, per l’autocoscienza implicita in ogni atto immanente del soggetto, ma sarebbe una riflessività di base e priva della sua piena espressione; a partire da questa rappresentazione i principi richiesti per la “verità” del giudizio devono essere postulati e considerati come essenzialmente implicati nel processo. La riflessione compiuta su questo stato di cose è invece la precisa presa di coscienza, successiva ed esplicita, del rapporto di verità logica.

La conoscenza è proporzionata alla riflessione, come è proporzionata all’immanenza dell’oggetto e come è proporzionata all’immaterialità del soggetto: le tre espressioni corrispondono62

Queste ultime precisazioni dovrebbero inquadrare meglio la situazione. Da una parte si deve considerare il fatto che la sensazione, per quanto non ridotta all’immediata sensorialità, o lo stesso concetto, considerato nella sua semplicità, non bastano per presentare o racchiudere – esplicitamente o implicitamente – tutti gli elementi necessari e sufficienti per il darsi del compiuto (ed espresso) rapporto di verità logica. Se per contro, dall’altra parte, si considera la conoscenza vera e propria, allora risulta evidente che l’intelligenza comprende davvero quando arriva ad affermare o negare e, dunque, quando giudica compiutamente ciò che risulta dal tendenziale adeguamento tra reale e ideale.

Dovrebbe allora risultare altrettanto evidente che questa espressa discriminazione vero/falso è nella natura stessa dell’atto intellettivo, per quanto connoti soprattutto il suo compimento, e che sia questa natura sia la forma che ricade sotto tale atto immateriale implicano tutta una serie di fattori formali e dinamici che sono apriorici ed essenziali. Questi poi, a loro volta, comportano il riferimento alla realtà esterna nella sua caratterizzazione analogica: il giudizio diretto, in sostanza, pone esplicitamente l’oggetto – il quale è immanente in quanto forma ideale ed è vero in quanto corrisponde a una forma reale – e con

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Cfr. Verit., I, q. 3 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 129 [p. 106].

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ciò pone in prima battuta, in modo riflessivamente implicito, la relazione di verità che è relazione logica e ontologica tra soggetto e oggetto.

Traendo spunto da quanto abbiamo appena ricordato su conoscenza e riflessione, si può persino parlare di riflessione del soggetto su di sé, a patto di intendersi sul significato della parola e sul livello di intensione del concetto. In fondo nella dottrina di Maréchal è messo spesso in rilievo l’aspetto analogico e in questo caso non manca un riferimento, che svilupperemo anche in altri capitoli, al grado d’essere del soggetto come elemento determinante per il grado d’intellezione. In base a quanto è stato evidenziato, infatti, non è improprio affermare che la conoscenza e la auto-conoscenza devono corrispondere alla riflessione, nella sua versione essenziale, almeno in determinati aspetti: A) nella misura in cui è proporzionata all’immanenza, se si considera l’oggetto in quanto alterità presente alla coscienza; B) nella misura in cui è proporzionata all’immaterialità, se si considera il soggetto in quanto agente (auto)cosciente. Tenendo presente queste accezioni, il termine riflessione può essere impiegato per designare non solo la riflessione completa ma anche quell’autocoscienza che ogni atto immanente racchiude naturalmente in sé63. Risulta chiaro che le precedenti considerazioni hanno lasciato degli spazi da colmare e in base a quanto è stato affermato, in definitiva, il nodo da sciogliere in prima istanza non è tanto il ruolo del concetto o della riflessione, bensì lo statuto della sensibilità e il legame con la materia in quanto polo evidente e problematico della realtà: adesso che la panoramica è più completa, si dovrebbe comprendere di più la difficoltà, e la necessità, di determinare meglio il rapporto con l’apriorità e la forma, cioè con ciò che è eterogeneo al piano puramente materiale.