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Il rapporto tra a priori e sensibilità in senso critico e metafisico

La verità e la realtà: dalla critica alla metafisica

4. Il rapporto tra a priori e sensibilità in senso critico e metafisico

4.1. La causalità materiale tra pura sensazione e conoscenza oggettiva

Dopo la panoramica sul giudizio si è dunque pensato di tornare specificatamente sulla sensibilità: cerchiamo di spiegare meglio perché. Abbiamo visto che, per Maréchal, è attraverso il giudizio che l’uomo prende definitiva coscienza dell’oggetto in quanto tale ed è così che egli dà esplicitazione ed espressione al logos. Se questo è vero, allora si può affermare che è proprio nella sintesi del giudizio che si trova il dato immediato e il punto di partenza della riflessione, sia critica sia metafisica, rispetto all’essere reale. Come abbiamo ripetuto più volte, e come si evince dallo stesso concetto di ‘sintesi’ attribuito al giudizio, il senso e le altre componenti possono – e per alcuni versi debbono – essere considerate come prioritarie e precedenti; tuttavia la stessa sensibilità assume la sua piena funzione appunto nel compimento dell’intellezione, quindi nel giudizio, e proprio in tale situazione contribuisce alla costituzione del dato. Proprio il dato si manifesta come il primo e soprattutto l’unico vero frutto della ricezione immediata, il portato in cui si esprime ogni «pensiero distinto» e dal quale si origina ogni «azione volontaria». Infatti l’autore rimarca a più riprese che il dato come elemento sensibile è una versione di base e incompleta: esso deve essere superato – o almeno deve essere superata la sua limitazione – se si vuole arrivare al vero dato e spiegare la conoscenza oggettiva; il medesimo autore, però, ammette al contempo che il dato sensibile non può essere sostituito per la funzione che svolge.

Come si è probabilmente intuito da quanto appena affermato, non ci si trova di fronte a una pura monade in senso logico e, oltre all’oggetto globale, si possono distinguere anche aspetti parziali mediante l’astrazione: così emergono unità oggettive corrispondenti al «semplice concetto» e persino alla «sensazione pura». Proprio il concetto e la sensazione

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indicano processi intellettivi e psicologici, reali e distinti, che precedono il giudizio in modo analogo a quello in cui la forma e la materia precedono – ciascuna secondo il suo ordine – il composto sinolico. Per questo stesso motivo essi sono fondamentali ma, per quanto fondamentali, non possono rientrare nella «chiara coscienza» se non nell’unità del giudizio, dove trovano la loro autentica dimensione, e in effetti non possono nemmeno essere completamente astratti da quest’ultimo. Pure secondo il kantismo la nostra esperienza, nel suo stato puro e immediato, non fornisce direttamente alcuna conoscenza né dell’apprensione né della sensazione: in sostanza si deve procedere in modo deduttivo e inferenziale, nello specifico per arrivare alla sensazione a partire dal concetto e per comprendere il concetto a partire dal giudizio. In questo senso Maréchal riconosce una grande importanza all’analisi operata da Kant, intesa come piena opposizione a ogni empirismo o comunque a ogni riduzione del dato al solo dato sensibile, e afferma che il giudizio è l’unico vero «dato centrale della critica umana della conoscenza»64.

Attraverso la convergenza della dottrina di Tommaso d’Aquino e della filosofia critica si possono analizzare più compiutamene gli elementi costitutivi del giudizio nel loro rapporto con l’oggetto. Come prima osservazione può essere utile ribadire che il giudizio, in quanto unità di una diversità su base analogica, presenta elementi materiali ed elementi formali e che questi sono però da interpretare diversamente se intesi in senso funzionale piuttosto che ontologico: per comprendere meglio la somiglianza e la differenza tra il materiale/formale trascendentale, espresso nel giudizio, e il materiale/formale metafisico, significato nel giudizio, tali elementi si possono ridurre a tre livelli in rapporto alla costituzione dell’«oggetto»:

1. la materia del giudizio, vale a dire i suoi «termini» considerati in se stessi, come semplici concetti; 2. La forma che erge a «giudizio» questo duplice elemento materiale. Essa si suddivide, a sua volta, in:

2 a forma sintetica del giudizio, cioè l’unità complementare di soggetto e predicato, in quanto tali; 2 b forma oggettiva del giudizio o affermazione65.

Al primo livello si ha la ‘materia’ nel senso di molteplicità dei costitutivi predicamentali (dei dato concettualizzati ed espressi) – almeno come duplicità di soggetto-predicato – e in tale pluralità, all’interno del giudizio, emerge il possibile accostamento dei concetti e dei corrispondenti termini alla materia vera, alla materia in senso ontologico, e alla sua valenza di potenzialità d’utilizzo: si tratta di costitutivi che fungono da sostrato. Se poi si osserva attentamente, si nota che in questo caso la ‘forma’ vale sempre come elemento di determinazione e di intelligibilità, in senso ontologico, ed è assunta funzionalmente con la duplice valenza di (2 A) unità (che richiama il sinolo), rispetto alla molteplicità dei termini, e di (2 B) perfezionamento (che richiama l’atto) rispetto al processo.

Se si osserva ancora più attentamente, inoltre, si può notare l’estensione della base analogica di quel processo deduttivo e inferenziale cui si è accennato prima. L’analogia può cioè essere percorsa anche in ordine inverso: essa rivela che la considerazione fatta per il giudizio può essere ritrovata all’interno dei suoi due termini in quanto semplici concetti; anche il concetto, in effetti, è «unità rispetto alla diversità» sensibile e, per quanto sia ultimamente caratterizzato dalla parte formale, esso è comunque composto da un «elemento materiale» e un «elemento formale». Si può anche estendere senza troppe difficoltà questa ricognizione, nella misura in cui riguarda sempre un’unità conoscitiva rispetto alla molteplicità, scomponendo persino il molteplice sensibile in unità associative – inferiori all’unità concettuale – e arrivando così agli elementi ‘psicologici’ «irriducibili»: «gli elementi

sensoriali». Questi ultimi sono i fattori che si rapportano direttamente alla materia e

rappresentano «la materia prima della conoscenza umana».

64

Cfr. ibi, p. 131 [p. 110].

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Questa valenza della sensibilità è in fondo la prima convergenza col kantismo da considerare e non potrebbe essere più evidente. Per quanto il ruolo materiale dell’elemento sensibile, sul fronte funzionale e soggettivo, sia stata una conquista della teoria di Kant e per quanto esso rappresenti un’innovativa opposizione a una certa variante dell’ontologismo – in particolare a quella che è stata propugnata da Cartesio – nondimeno questa conquista rappresenta comunque la ripresa di un’eredità, di carattere ontologico e oggettivo, dei filosofi scolastici ortodossi e anche di quelli dissidenti e più empiristi: «nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensu». Nella dottrina di Tommaso d’Aquino si può ben notare: egli non ha difficoltà a rilevare l’importanza della materia e della sensibilità e in seconda battuta, anzi, deve sottolineare come – stante l’origine sensibile della conoscenza – l’intelligenza non sia una mera trasformazione o trasposizione della sensibilità. Tale sensibilità infatti fornisce il punto di partenza, il ‘materiale’ appunto, attraverso il contatto con la materia ed è quindi da ritenersi necessaria; tuttavia non può essere considerata anche sufficiente, in ordine alla conoscenza vera e propria, perché non fornisce il formale e quindi non rende ragione di tutti gli aspetti di quest’ultima66.

In grande sintesi si può affermare che questa sia la posizione del realismo moderato e dello stesso Maréchal. Guardando però alle interpretazioni di alcuni critici, corre l’obbligo di fare una piccola ma importante precisazione: se da una parte, come si è notato, tale realismo si vuole distinguere recisamente dall’empirismo nominalista, dall’altra parte lo stesso Tommaso d’Aquino si trovava ad avere come avversari anche autori dell’altro fronte (estremo), cioè i rappresentanti del realismo esagerato. Dunque non ci si deve stupire se nel realismo tomista, ripreso dall’autore, si trovano formulate anche espressioni apparentemente provocatorie o, nella misura in cui possono sembrare in controtendenza con la linea generale, enigmatiche. Di fatto si devono dunque registrare – com’è evidente già dalla citazione precedente circa il rapporto senso-intelletto – sia una certa volontà di opporsi alle varie modalità di platonismo sia il fatto che non c’è mai stata occasione in cui sia stato negato il valore superiore dell’oggetto formale dell’intelligenza. Questo oggetto, nello specifico, è costituito da quelle determinazioni metasensibili che rendono compiutamente intelligibile la materia ed elevano la sensazione a concetto: «per sensibilia ad intelligibilia»67.

Per riconoscere la plausibilità di questo aspetto dell’avvicinamento tentato da Maréchal, tra la prospettiva classica e quella moderna, occorre però scendere più nel dettaglio: quali implicazioni dovremmo trarre, circa la materia, e in che termini potrebbero accomunare la prospettiva critica e la prospettiva metafisica? A grandi linee la sensazione come tale «suppone» una «realtà sussistente» ed esterna (al senso) in entrambi i casi; ribaltando in parte

66

Cfr. ibi, pp. 132-133 [pp. 110-111].

67

S. Th., I, q. 1, a. 9 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 133 [p. 111]. Uno scorcio rappresentativo delle diverse letture ci viene suggerito da Melchiorre: in Przywara sembra concretarsi un’accusa di unilateralità, nei confronti della ricezione della dottrina tomista da parte di Maréchal, ovvero di preferenza della componente platonico- agostiniana a scapito di quella aristotelica. Cfr. E. Przywara, Kantischer und thomisticher Apriorismus, in «Philosophisches Jahrbuch der Görres-Gesellshaft», 42 (1929), pp. 1-24; poi in Kant heute, Eine Sichtung, München 1930, pp. 49-75; nello specifico Kant heute, cit., pp. 69-75. In Siewerth viene rafforzato il sospetto di una conclusione ontologistica, da parte di Maréchal, e più in particolare di un’articolazione di stampo idealistico- ontologistico. Cfr. G. Siewerth, Das Schicklsal der Metaphysik von Thomas zu Heidegger, Johannes, Einsiedeln 1959, p. 238. Sulla base di quanto è già stato indicato (e di quello che verrà esplicitato più avanti) dovrebbe risultare abbastanza evidente l’esagerazione di simili interpretazioni, le quali comunque hanno trovato documentate obiezioni in autori come Wingendorf. Cfr. E. Wingendorf, Das Dynamische in der menschlichen

Erkenntnis. Ein neuer Losungversuch des erkenntnistheoretischen Grundproblems, Vol. I: Das Dynamische in der menschlichen Erkenntnis, erstellt aus der thomistischen Erkennntnistheorie, Vol. II: Der thomistische Dynamismus der menschlichen Erkenntnis, betrachtet vom traszendentalen Gesichtpunkt aus und verglichen mit der kritischen Philosophie, Hanstein, Bonn 1940; d’ora in poi Das Dynamische in der menschlichen Erkenntnis;

nello specifico E. Wingendorf, Das Dynamische in der menschlichen Erkenntnis, II, cit., pp. 153 ss. Cfr. V. Melchiorre, Figure del sapere, cit., p. 138.

il punto di partenza cartesiano, si potrebbe dire che, per quanto i sensi ci possano ingannare, non possono ingannarci sul fatto che percepiscono (ovvero che percepiamo) qualcosa. Già da questo semplice, ma saldo, rilievo si apre la strada verso la constatazione di una «cosa in sé», da cui il soggetto può da subito ricavare «impressioni elementari». La facoltà sensibile in sostanza è quella basilare capacità, contraddistinta da questa «ricettività» esterna e da questa ‘passività materiale’, che può essere ‘dedotta’ a priori dall’imperfezione stessa della nostra conoscenza intellettuale; naturalmente non si tratta di un’autentica deduzione, ma della presa di coscienza della limitatezza e della materialità del soggetto in quanto sinolo.

L’autore si rifà anche in questo caso a Tommaso d’Aquino ma, per mostrare la lunga storia di questa considerazione, torna pure alla fase più classica e guarda sia ad Aristotele sia ai punti di accordo e di disaccordo rispetto a posizioni estreme come quelle di Democrito e di Platone. Già allora era stato notato come l’operazione ricettiva della sensibilità apporti un «concorso materiale», simile a quello descritto, al processo intellettivo: «quodammodo est materia causae»68. La posizione aristotelica è infatti intermedia e risponde in modo dottrinalmente efficace sia all’esperienza psicologica sia alla constatazione dell’imperfezione dell’intelligenza discorsiva: in sintesi noi facciamo esperienza della materialità e, riflettendoci, ci accorgiamo di poterla superare ma anche di non poterne fare del tutto a meno.

«[…]. Anima autem intellectiva, secundum naturae ordinem, […] infimum gradum in substantiis intellectualibus tenet, in tantum quod non habet naturaliter sibi inditam notitiam veritatis, sicut angeli, sed oportet quod eam colligat ex rebus divisibilibus per viam sensus […]»69.

Si è sottolineata l’imperfezione intrinseca alla discorsività perché l’intelligenza considerata in sé non è materiale, ma può essere di diversi livelli ontologici e la limitazione in questo caso non deriva dallo stato creaturale generico bensì da quello specifico. Nella scala analogica dell’intelligenza si possono tematizzare e prospettare menti che sono create ma anche naturalmente separate dalla materia: sono le entità angeliche contraddistinte dal solo intelletto. Considerando tali forme in quanto entità create ma separate (dalla materia) – e rimandando ad altre sezioni i particolari teoretici circa la possibilità di queste esistenze – non si potrebbe non notare la differenza rispetto alla normale condizione umana. Per quanto il soggetto umano come persona, cioè come realtà spirituale, possa effettivamente prescindere dalla materia, tuttavia non può aggirare l’esigenza del concorso materiale di una facoltà ricettiva. In termini metafisici si può affermare che la conoscenza umana è per natura analoga alla natura umana: è sinolica. In termini critici si può azzardare l’osservazione per cui «una facoltà intellettuale che non è né puramente intuitiva, né dotata di idee innate esige il concorso di una facoltà ricettiva esterna»70.

Se per astrazione isoliamo la sensazione «pura», possiamo anche definirla come un dato «primordiale» o irriducibile e, per i soggetti strettamente legati alla materia, necessario. Essa si presenta come una sorta di «contatto del soggetto», in particolare della componente materiale del soggetto, con una incognita parimenti materiale che «lo limita», e «lo modifica», e che non può essere conosciuta se non attraverso questa modalità. In sostanza il fatto di conoscere la materia suppone una «facoltà ricettrice del dato esterno», che richiama la concezione della sensibilità come «potentia passiva»71, e consequenzialmente anche disposizioni fisiche per tale ricettività. Maréchal insiste su questo apparente truismo per specificarne al meglio le connotazioni metafisiche in ordine alle ricadute critiche: se la conoscenza è il risultato dell’unità (ideale), naturale o acquisita, tra soggetto e oggetto allora

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S. Th., I, q. 84, a. 6 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 135 [p. 112].

69

S. Th., I, q. 76, a. 5 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 135 [p. 112].

70

Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 135 [pp. 112-112] sulla base (precedentemente citata) di S. Th., I, q. 76, a. 5.

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tale unione non solo deve essere supposta dalla conoscenza ma deve anche essere considerata nei termini che possiamo ricavare dagli effetti più evidenti. In altre parole l’unione delle due polarità nell’intelletto umano, per quanto essenzialmente formale, non può avvenire a prescindere dalla materialità: un’azione immanente e spirituale, d’altra parte, non può svolgere il ruolo di intermediario esterno e fisico tra gli «in sé». Il metafisico e il filosofo critico, ciascuno a loro modo, arrivano a riconoscere questa peculiarità: in ogni soggetto che non possiede per natura i propri intelligibili come capita nel caso degli angeli o di Dio – ovvero nel caso di una virtualità che attiene alla pura forma o, al grado massimo, in quello della Realtà-Idealità che è propria dell’Atto puro – l’unità di oggetto e soggetto esige (anche) una «causalità fisica».

La conoscenza umana rientra appunto in tale ambito. Il suo principio formale rappresenta il grado più basso della proporzione analogica, tra le intelligenze, ed essa stessa è proporzionata alla sinolicità del soggetto; l’uomo in sostanza possiede una conoscenza discorsiva, cioè progressiva e connotata almeno in parte dalla temporalità, e tale condizione esige una facoltà ‘ricettiva’ rispetto all’esterno almeno per il darsi di un primo livello del logos. Quella unione tra soggetto e oggetto, che struttura l’acquisizione del vero, sarà perciò realizzata inizialmente tramite l’azione fisica di una realtà sull’io. Considerato sotto tale profilo, il processo iniziale svela sia una basilare «comunione potenziale» tra similarità sia, guardando più nello specifico all’io, una «vera e propria passività». Naturalmente non si sta escludendo qualunque attività da parte del soggetto, ma si sta mettendo in luce la prevalenza dell’inerzialità nella corrispondenza tra aspetti materiali. Quest’ultima precisazione può risultare utile per non dimenticare che il soggetto non diventa attivo solo a un certo punto e che esso è già (sempre) aperto all’acquisizione ulteriore dell’intelligibilità virtuale. Per un soggetto almeno in parte materiale, inoltre, la passività è anche la condizione che permette una certa immediatezza di fronte all’agente esterno72.

Maréchal ritiene che una simile prospettiva possa ben agganciarsi alle proposte kantiane, ma per chiarire meglio il concetto deve rifarsi alle riflessioni di Tommaso d’Aquino, naturalmente basate sull’analogia, e fornire anche in questo caso le coordinate. Nel precisare la natura di tali disposizioni, inoltre, vengono avanzate opportune ma apparentemente paradossali distinzioni. Tra un soggetto umano e un oggetto qualsiasi, infatti, intercorre lo stesso piano d’esistenza (immanente) e ad essere veramente attivo è il soggetto; è quest’ultimo, tuttavia, che in prima battuta deve subire la materialità, senza la quale non potrebbe avere un contatto con l’esterno. Invece un agente trascendente, in quanto tale, deve essere ‘oltre’ le possibilità di un agente umano ma, allo stesso tempo, deve essere così attivo da essere causa dello stesso soggetto immanente e, in quanto causa, non può essere considerato come radicalmente esterno all’anima:

Dio è distinto dalla sua creatura, ma non è esterno ad essa73

Dio in sostanza è realmente distinto e ‘altro’ rispetto alla creatura ma, in quanto causa dell’esistenza della stessa, non può venire caratterizzato banalmente come esterno e quindi neanche come un normale oggetto esterno.

Si profila dunque un’implicazione tra la ricettività soggettiva del mondo esterno e la corporeità e questa comporta materialità e, dunque, quantificabilità: in questo senso la facoltà sensibile può essere detta davvero corporea e la sensazione può essere definita come «atto degli organi sensoriali»74. La «modificazione» intrinseca a questo atto ha dunque, in primis, valore propriamente fisico: negare tale consistenza sarebbe una forzatura inversa al 72 Cfr. J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 135-136 [pp. 113-114]. 73 Ibi, p. 137 [p. 114]. 74

riduzionismo materialista75. Anche per questo si è insistito su quella che potremmo chiamare esteriorità della ricettività: la ricettività in ordine alla conoscenza è comunque spiritualmente connotata, ma nondimeno possiede questa caratura, questa rimodulazione del concetto medioevale di «passio praedicamentalis» ovvero della modificazione del paziente in una materia comune a questo e all’agente.

Per avanzare ulteriormente Maréchal deve però approfondire, con Tommaso d’Aquino, l’aspetto meno direttamente critico e più manifestamente metafisico. Si è detto che sarebbe errato negare tanto il fattore spirituale della ricezione quanto l’aspetto materiale della sensibilità, stante l’evidente disomogeneità tra i due elementi. Resta da chiedersi: come si possono comporre? Per far questo è opportuno notare che tale condizione ricettiva, da una parte, va riconosciuta come necessaria e, dall’altra parte, non è certamente da intendere come un’unica e monolitica componente e, men che meno, come condizione sufficiente. La stessa sensibilità risulterebbe insensata e, anzi, impossibile se non vi fossero fondamenti ulteriori alla stregua di ricettività superiori e facoltà “passive” immateriali. Anzi, proprio questa complessa connessione di piani, su base sinolica, ci permette di riferirci alla stessa intelligenza umana sia come a una facoltà attiva (atto secondo), e persino costitutiva dell’oggetto, sia come a una facoltà ricettrice e, quindi, anche come a una facoltà «passiva». Il nodo della questione si risolve se si comprende il livello analogico e logico-ontologico essenziale: in quanto livello più basso tra le attribuzioni d’intelligenza, l’intelletto umano rappresenta anche il livello di maggiore passività;

[…] in senso generale, ovunque c’è potenza, si danno una certa ricettività e passività: un essere in potenza infatti non può, in quanto tale, attuarsi da se stesso76.

In Kant e nella sua distinzione tra sensibilità e intelletto sembra essere venuto a mancare l’importante contributo di un simile discorso; senza considerare direttamente la creazione, nei suoi annessi e connessi, si tratta ora di ri-conoscere questa dimensione metafisica per spiegare la natura del soggetto. Nell’emanazione generale dell’essere, la potenza non è il puro (e contraddittorio) nulla, ma è il non-ancora essere, il non essere in quanto limite tra non realtà e realtà, è ciò che viene posto dalla-e-nella «prima limitazione dell’essere» in quanto tale: «l’essenza», considerata nella sua distinzione dall’essere, o la forma sussistente se considerata nella sua distinzione dall’atto d’essere.

A fronte di questa fondamentale distinzione, tra essenza ed essere, abbiamo perciò ribadito la differenza tra potenzialità e puro nulla per ricordare che la potenza indica passività nel senso di non-attività ma porta comunque in sé il riferimento a un atto preciso. Dobbiamo inoltre notare che la stessa forma in quanto tale non si connota tanto per la medesima potenza quanto per il suo atto e per la proporzione rispetto all’Atto che è Dio: