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Ontologia della conoscenza e necessità dell’analogia

La verità e la realtà: dalla critica alla metafisica

2. Ontologia della conoscenza e necessità dell’analogia

2.1. Coscienza e autocoscienza nell’orizzonte analogico

In effetti Maréchal è convinto di poter risolvere alcuni problemi del rapporto tra la relatività intrinseca al dato e l’assolutezza sottesa all’intelligenza sfruttando adeguatamente i passaggi appena tratteggiati: se la verità è, nella sua sostanza, «una proprietà trascendentale dell’essere», «omne ens est verum», e quindi anche «una relazione universale dell’essere con se stesso», allora deve essere compresa ed espressa «in termini ontologici» e totalizzanti

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«Et quia per eam judicare non possumus nisi secundum quod est similitudo primae veritatis, ideo secundum primam veritatem de omnibus dicimur judicare» Verit., q. 1, a. 4 e S. Th., I, q. 16, a. 6 citati in J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 108-109 [p. 88].

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Cfr. Verit., q. 1, a. 2 e a. 5 citati in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 109 [p. 88].

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secondo l’analogia16; questa è appunto la caratura ontologica del logos, è la metafisica della conoscenza ed è appunto questa a poter esprimere la correlatività della «perfezione dell’essere» e «del vero» e, quindi, «della conoscenza»17.

Una precisazione di metodo. Nel cercare di comprendere la realtà in quanto intelligibile e, con essa, tutti i fattori salienti della conoscenza, l’autore appronta la sua dottrina sia secondo una via ascendente sia secondo una via discendente: se il primo problema che affronteremo in senso esteso – più avanti – sarà inevitabilmente quello della sensibilità, e del suo rapporto con la formalità, tuttavia è bene rimarcare che Maréchal si affida talvolta a peculiari capovolgimenti e, in effetti, nell’introdurre le riflessioni sull’ontologia in generale guarda da subito e complementarmente al vertice gnoseologico e metafisico. In altri termini egli si pone la domanda sulla natura della conoscenza partendo non da problemi relativi ma dall’Assoluto reale cui l’intelletto umano partecipa. Se poi si tiene a mente la questione, rimarcata da subito, delle prove dell’esistenza di Dio e della loro funzione nell’insieme del discorso del filosofo, non dovrebbe sorprendere tale varietà di articolazione.

Nello specifico egli ricorda che Tommaso d’Aquino, alla domanda sulla possibilità di Dio di conoscersi, risponde che non solo vi è questa possibilità ma che essa non può non darsi e, anzi, non può non essere realtà: in Dio l’intelligenza e l’intelligibilità sono elementi perfettamente identici; nell’Essere infatti i due termini in questione non possono indicare entità diverse, e nemmeno principi reali diversi, cioè possono dirsi distinti ma solo a livello di ragione18. Certo, come è evidente, nella sfera del realtà immanente la distinzione è reale: un ente intelligibile può non essere intelligente e un ente intelligente può non esaurire l’intelligibile; sempre secondo l’autore, tuttavia, è bene notare – e questo è il fine contrappositivo di tale discesa dalla Perfezione intellettiva – che questa è una condizione derivante dalla finitudine, dalla presenza della potenza (passiva), e quindi da una realtà che esiste effettivamente ma solo in forza di una ragion d’essere ulteriore. Considerate in se stesse, e soprattutto in senso assoluto, l’intelligenza e l’intelligibilità non comportano necessariamente potenzialità e imperfezione19.

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Cfr. Verit., q. 1, a. 1 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 110 [p. 89].

17

J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 110 [p. 89]. Cfr. id., PdM, I, cit., pp. 63-90; in questa sezione (Libro II, Capitolo III) si affronta il problema dell’antinomia dell’uno e del molteplice all’interno della storia della filosofia antica o, almeno, all’interno di una parte di questa. Nello specifico si prospettano le soluzioni sintetiche al problema e l’avvento di una critica di stampo metafisico; gli autori considerati sono Socrate, Platone e Aristotele, cui si attribuiscono rispettivamente il ritorno dell’equilibrio tra i due poli della dicotomia (rispetto a eraclitei ed eleati) all’interno del concetto e, in merito al tentativo di rendere ragione della forma e della dinamica dell’intelletto, la prima formulazione di realismo (esagerato) e la prima formulazione di realismo moderato.

18

Cfr. S. Th., I, q. 14, a. 2 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 110 [p. 89].

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Per quanto non tutti i critici siano concordi nel riconoscere, in questa come nelle altre occorrenze argomentative, la stessa importanza a simili (e protratti) richiami alla dimensione logico-ontologica e alla sottesa analogia, questi ultimi rappresentano nondimeno dei passaggi necessari per comprendere lo sviluppo teoretico di una simile proposta. Inoltre non si può dimenticare che un’altra parte della critica, di sicuro, ha offerto riscontri assimilabili: per quanto concerne il discorso introdotto vale un’osservazione chiara e sintetica di Moretto: «[…] affinché il dato sensibile diventi “oggetto” è necessario che esso sia fatto interagire con delle condizioni a priori che gli conferiscano universalità, in cima alle quali Tommaso pone l’esistenza e l’unicità di Dio, dal momento che per lui l’unità dell’essere non si esaurisce nell’unità del nostro atto astrattivo: se non c’è verità senza intelletto, allora non ci sono delle verità assolute ed eterne senza un’intelligenza eterna […]» D. Moretto, Il

dinamismo intellettuale, cit., p. 305. In una riflessione a partire dalle citazioni di Tommaso d’Aquino (nel Cahier

V) da parte di Maréchal, B. Pottier mette opportunamente in evidenza la necessità sia della verità metafisica in quanto verità dell’essere – supportando così la dimensione dell’analogia – sia dell’evidenza oggettiva su di essa fondata. In forza del recupero di questi guadagni, infatti, si può sperare di superare l’altrimenti irresolubile problema del ‘ponte’ tra realtà e conoscenza. B. Pottier, Maréchal et Thomas d’Aquin, in Au point de départ, cit., pp. 27-47.

Dio si conosce perché, in Dio, essere privo di potenza, intelligenza e intelligibile sono perfettamente identici, dato che la distinzione reale di questi due termini esiste solo là dove questi ultimi presentano una loro «potenzialità», una loro imperfezione relativa […]20.

Se in Dio, in quanto essere in senso pieno, la conoscenza e l’autocoscienza sono attività necessarie, allora queste possibilità sono generali ma non solo astratte: sono reali in forza di un fondamento assoluto. A questo punto però resta da chiedersi: a livello immanente, stante la differenza reale, come si può realizzare quella convergenza tra intelligenza e intelligibile, la quale rende possibile sia la conoscenza sia l’autocoscienza? Come avviene in altre questioni imperniate sull’analogia, come si può facilmente evincere, il dipanamento del problema è affidato alla dottrina dell’atto; anche il precedente richiamo all’Essere creatore è chiaramente in linea con questa soluzione. «Nell’identità di un atto», in generale, vi può infatti essere la coincidenza di conoscente e conosciuto: la conoscenza è di per sé «prerogativa dell’atto», è atto (secondo e) specifico di un atto (primo) nonché atto a sé intrinsecamente intelligibile «perché identico a se stesso»21.

Prima di argomentare questa affermazione, si potrebbe già obiettare che la potenzialità – o almeno la potenzialità in quanto basata sull’atto – non è totalmente opposta all’attualità, non nei termini della pura negatività, e quindi potrebbe essere ricompressa in quella identità, attribuita solo all’atto, che sta alla base della coincidenza conoscente-conosciuto e della ‘trasparenza’ del conosciuto rispetto al conoscente. La premessa è senz’altro vera; tuttavia la potenzialità di per sé indica comunque un non-essere, e quindi un non-atto, e sancisce la non pienezza ontologica della realtà imperfetta. Nello specifico Maréchal vuole sottolineare la ‘divisione’ interna di questa realtà, tra ciò che potrebbe essere e ciò che è, e in definitiva la sua differenza metafisica rispetto alla Totalità dell’essere: in altri termini essa dice di una perfezionabilità – e per molti versi questa perfettibilità del reale rappresenta un fattore positivo – ma proprio per questo evidenzia pure una mancanza nell’atto-realtà e, cioè, una «divisione» dell’atto da se stesso o, meglio, dalla sua piena attualizzazione.

Tenendo a mente questi motivi, e in prospettiva analogica, si è affermato che Dio e solo «Dio», in quanto «atto puro», conosce e «si conosce quindi perfettamente». In generale ogni essere intelligente può conoscere e conoscersi; nella misura in cui è la proporzione dell’identità ontologica (della realtà conoscente) a determinare la proporzione di queste conoscenze, però, occorre affermare che solo l’analogato principale è attualità autocosciente ovvero che solo l’Essere che coincide con la propria essenza, e che di conseguenza è sempre identico a sé, può conoscere perfettamente tale essenza. L’autocoscienza infatti può essere intesa come sintesi di oggetto e soggetto, come ogni conoscenza, e suppone un movimento di uscita e di reintegrazione rispetto a sé. Questo movimento, tuttavia, è peculiare e necessita prima di tutto di un autentico centro di attività per prendere coscienza dell’essenza e produrre la relazione conoscitiva:

[…] la condizione ontologica prossima della conoscenza come presa di coscienza non è l’unione di due elementi, soggetto e oggetto, bensì l’unità interna di questo atto stesso. Nella misura in cui un essere è veramente in atto, sia per essenza che per un’operazione strettamente immanente, è autocosciente e, – aggiungiamo ora – se porta in sé la forma dell’«altro», è cosciente anche di questo «altro» […]22.

Seguendo l’analogia si può dunque affermare che, quanto più una realtà intellettiva è contraddistinta da un atto (secondo) unitario, tanto più è capace di coscienza e autocoscienza e quindi che, andando alla condizione ontologica profonda, tanto più tale realtà è un atto 20 J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 110 [p. 89]. 21 Ibi, p. 110 [pp. 89-90]. 22 Ibi, p. 111 [p. 90].

(primo) unitario tanto più è intelligenza; Dio, in quanto Atto puro, non solo si conosce ma è l’Autocoscienza assoluta e perfetta, è l’intelligenza pienamente autocosciente proprio perché è l’unità o, meglio, l’identità sussistente di essenza ed essere ovvero l’Identità dell’atto23.

Nella misura in cui un essere (spirituale) è veramente in atto, dunque, può essere autocosciente: nella misura in cui una mente esiste può pure essere consapevole di sé e, anzi, la sua esistenza è tanto più autentica quanto più è autocosciente. Ma allora si deve concludere che, a maggior ragione, nella stessa misura in cui si dà un atto spirituale allora si deve dare la possibilità della conoscenza in generale: l’essere spirituale deve allora poter essere cosciente anche dall’«altro» nell’eventualità che ne porti la forma ovvero nel caso in cui abbia presente nella mente, come nel caso dell’introiezione intenzionale, la forma ideale ricavata dalla forma reale. Insieme a Tommaso d’Aquino, Maréchal arriva così a distinguere e a riunire, nella loro analogia, i due aspetti del processo di conoscenza: «l’aspetto ontologico dell’immanenza dell’oggetto nel soggetto» e «l’aspetto psicologico» dell’attività «della coscienza». In realtà l’eredità è per molti versi già aristotelica come ricorda lo stesso Aquinate:

«nella conoscenza l’atto del conoscibile […] e l’atto del conoscente […] sono un solo e medesimo atto»24.

Di sicuro tale affermazione va ulteriormente approfondita, ma fornisce già così un vettore abbastanza preciso.

Se si guarda al logos e alle condizioni ontologiche prossime e profonde, appena espresse, la coscienza come autocoscienza è in definitiva «la presenza dell’atto a se stesso»: A) è la non-contraddizione o, meglio, l’identità della realtà nella sua attualità a fondare l’atto di conoscenza/autoconoscenza in cui si presenta a se stessa; B) si avrà «ovunque si svilupperà un’attività che sia termine […] della coscienza stessa» secondo analogia – in modo totale o parziale secondo la proporzione dell’atto primo – e quindi l’Atto puro sarà piena autocoscienza mentre un atto (spirituale) finito avrà un’autocoscienza limitata. In questo senso si può affermare che l’immanenza dell’oggetto rispetto al soggetto è logos ovvero è partecipazione ontologica «all’atto interno del soggetto» nella sua purezza, è riproposizione in termini imperfetti dell’identità perfetta di Oggetto e Soggetto nell’Atto: la coscienza oggettiva è dunque effetto immediato di una causa prossima, cioè dell’immanenza dell’oggetto, e di una causa trascendente ovvero della partecipazione dell’oggetto e del soggetto all’atto infinito25.

Da quanto riportato, dovrebbe risultare chiaro che occorre guardarsi dalla tentazione di intendere queste considerazioni alla stregua di un semplice truismo ovvero di ridurre la definizione della verità all’identità della conoscenza con se stessa. Se l’identità dell’atto primo e dell’atto secondo sono le condizioni formali necessarie, e se la (auto)conoscenza come dinamica può pure essere descritta come un riflesso, non bisogna comunque sottovalutare il rapporto tra attività e finalità: in sostanza non bisogna leggere la capacità intellettiva e la auto-trasparenza del soggetto in senso puramente passivo. Anzi, se la dinamica conoscitiva compiuta si ha alla fine con la volontà – con la tensione che porta il soggetto verso l’oggetto – già nella relazione fondata sull’intelligenza, come capacità di introiettare formalmente l’oggetto, risulta chiaro che non è l’oggetto come oggetto ad essere il vero agente e che semmai è il termine di un’attività immanente del soggetto a “portare” virtualmente l’oggetto dentro il conoscente.

23

«Redire ad essentiam suam nihil aliud est quam rem subsistere in seipsa […]. Virtutes cognoscitivae per se subsistentes cognoscunt seipsas […]. Per se autem subsistere maxime convenit Deo. Unde, secundum hunc modum loquendi, ipse est maxime rediens ad essentiam suam, et cognoscens seipsum». S. Th., I, q. 14, a. 2 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 111 [p. 90].

24

S. Th., I, q. 14, a. 2 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 112 [pp. 90-91].

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Attraverso questa precisazione, con un taglio più critico e centrato appunto sul conoscente, Maréchal conclude che l’attività del soggetto in definitiva ha come termine immanente l’oggetto solo nella misura in cui quest’ultimo è proporzionato all’intelligenza (e alla volontà) ovvero nella misura in cui entra tra le condizioni sia formali che dinamiche dell’attività soggettiva. Questa accezione potrebbe e dovrebbe essere condivisa dalla filosofia trascendentale; essa rappresenta, prima di tutto, la traduzione di quella norma logico- ontologia classica, espressa in varie formule basilari, e cioè proprio quella traduzione che è stata in parte abbandonata, proprio perché rimanda all’orizzonte analogico e metafisico appena ricordato. L’autore cerca per l’appunto di recuperare tale orizzonte: «cognitum autem est in cognoscere secundum modum cognoscentis»26; «Cognoscentis et cognoscibilis oportet esse aliquam proportionem»27. Come ben rilevano alcuni critici, tra cui Melchiorre, è in questo orizzonte che la filosofia trascendentale trova la sua autenticità e il suo vero ruolo: è sulla base di questo fondamento e di questo inveramento della prospettiva critica che diventa possibile sostenere un’adeguata e valida presenza dell’oggetto nel soggetto e, quindi, parlare di conoscenza oggettiva o, ancor meglio, di conoscenza della realtà28. In effetti sono stati prodotti vari tentativi di prospettare una oggettività alternativa ma tutti condividono un inevitabile problema: qualora non si ammetta o, comunque, non si possa ammettere l’immanenza dell’oggetto al soggetto, si deve riuscire a trovare un principio formale e dinamico vicariante (pensiamo a una sorta di species impressa) per non rischiare di ridurre la conoscenza a opinione. Certo, di primo acchito potrebbe anche sembrare fattibile, ma resterebbe almeno da affrontare un ostacolo non indifferente: il fatto che questo principio di conoscenza, come oggetto del pensiero, sarebbe comunque conosciuto appunto per l’immanenza della species o, se si vuole, del mero (e depauperato) fenomeno. Il caso più eclatante è forse quello del nominalismo: esso si presenta come un fenomenismo ma, nella sua riduzione della conoscenza a percezione del fenomeno, non può accettare il ‘vero’ fenomeno con la sua connessione all’essenza noumenica e, per la stessa ragione, non può accettare la teoria della species con il suo rimando alla dimensione ontologica29. La «similitudo objecti» è «un principio ontologico» – e nondimeno analogico – che si radica nella forma o, meglio, nell’atto e «che si inserisce nella fase dinamica della soggettività»30. 2.2. L’analogia nella realtà e nella verità

Il vero come realtà intelligibile-e-intelletta, come logos appreso, non può caratterizzarsi come il mero riflesso esterno di una ‘x’ aliena, del tutto eterogenea sull’intelligenza, ma deve essere considerato come rapporto tra la dimensione formale (e attuale) dell’oggetto e quella del soggetto e, sulla stessa scia, deve essere inteso alla stregua di un fine già presente, per

26

S. Th., I, q. 12, a. 4 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 113 [p. 92].

27

A titolo esemplificativo, come si nota in J. Maréchal, PdM, V, cit., p. 113 [p. 92], si possono considerare le argomentazioni portate in S. Th., I, q. 12, a. 1 e in S. Th., I, q. 88, a. 1.

28

Nella misura in cui si condividono gli asserti gnoseologico-metafisici ricordati, per Melchiorre «si deve anche riconoscere che un’indagine sulla struttura del processo conoscitivo o sulla condizione ontologica della conoscenza è non soltanto decisiva, ma come tale preliminare per stabilire la misura, i modi e infine la stessa obiettività del rapporto all’essere. La via della riflessione trascendentale è così veramente il punto di partenza

per ogni possibile metafisica». Per ovviare a possibili fraintendimenti si può specificare ulteriormente cosa

Maréchal intende con “priorità della critica trascendentale”, all’interno dell’orizzonte metafisico, e sottolineare che non è partire da un punto di vista soggettivo: «è soltanto astrarre dalla distinzione metafisica di soggetto e oggetto. Darsi, alla prima, la conoscenza come obiettiva, nel senso ontologico del termine, o, al contrario, come soggettiva, sarebbe pregiudicare, dalla partenza, le soluzioni che ci si aspetta dalla critica: sarebbe adottare l’attitudine dogmatica» (PdM, III [1944³], p. 109-110)». V. Melchiorre, Figure del sapere, cit., pp. 136-137, testo e nota 8.

29

Cfr. Verit., q. 10, a. 4 citato in J. Maréchal, PdM, V, cit., pp. 113-114 [p. 92].

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quanto non compiutamente, nella tendenza naturale del pensiero. Se questa è la caratterizzazione ontologica e causale generica, occorre poi scendere nello specifico e notare che non può non esserci analogia come proporzione entitativa tra gli atti e, in senso più dinamico, tra questo «desiderio» alla base dell’attività e il fine cui essa tende. Acquisito questo livello ontologico-trascendentale, si può parlare di conoscenza oggettiva e si può indicare come conosciuto l’essere-vero posseduto.

Per accennare a una questione ripresa anche in seguito, bisogna notare che proprio tale dinamicità di base trascendentale permette eventualmente di parlare di illuminazione: si può pure dare per scontato che si possa ricorrere a un tale concetto, ma a condizione che sia ricondotto o in termini di potenzialità, come apertura dell’intelligenza alla realtà, o limitatamente alle relazioni di mediazione dell’essere. In sostanza l’intelligenza stessa può essere intesa come un lume finito, che partecipa alla luce infinita, con l’avvertenza che ciò non è da intendersi come una larvata dichiarazione di innatismo; in altri termini le nostre facoltà conoscitive non sono spiegabili con una pura e passiva trasmissione della verità, dal basso dell’esperienza o dall’alto dell’Intelligenza, ma sono piuttosto da intendersi o come semplici ma attive aperture al puro conoscibile, al loro grado minimo, o al massimo grado come autentiche ma limitate partecipazioni a Dio in quanto intelligenza creatrice. Maréchal osserva, in linea con Tommaso d’Aquino, che di base «la verità è causata in noi dalle cose» in quanto attualità intelligibili e che, allo stesso tempo, la medesima verità implica un ruolo prioritario, attivo e causale – nel processo di adeguazione – da parte dei soggetti in quanto attualità intellettive. Tenendo presente questo punto di vista trascendentale (classico) si può capire perché l’autore afferma che l’attribuzione di verità compete tanto ai soggetti quanto agli oggetti, per diversi rispetti, ovvero perché tale attribuzione è tanto nostra quanto della realtà31. Attraverso il concetto di logos si vuole sottolineare proprio tutto questo:

la verità è inseparabile dall’essere; si trasmette soltanto attraverso le relazioni dell’essere32

La verità è inseparabile dall’essere e quindi, nella misura in cui si riconosce la dimensione logico-ontologica dell’analogia, la verità è pure inseparabile dall’analogia dell’essere proprio perché è inseparabile dal livello metafisico e dai diversi gradi dell’intelligenza richiamati in precedenza. La verità trascendentale è l’essere considerato in tutti i suoi livelli e in rapporto all’intelligenza ed è, in definitiva, una relazione da essere (ogni oggetto) a essere (ogni soggetto). Questa verità non potrebbe certo venire compresa, nella sua natura, all’interno di tutti i sistemi speculativi: non all’interno di quelli che la rendono una pertinenza pressoché esclusiva del soggetto, piuttosto che dell’oggetto, e neppure all’interno di quelli che sottovalutano, magari fino a negare, la sottesa proporzione ontologica orizzontale (intelligibile-intelligenza) e verticale (verità-Verità).

A questo punto il quadro potrebbe risultare alquanto articolato e non sarebbe implausibile l’imporsi di una domanda del tipo: quali sono i livelli del discorso da prendere in considerazione, secondo l’autore, per districarsi nella risoluzione della questione essere- verità?

«Omnis cognitio perficitur per assimilationem cognoscentis ad rem cognitam, ita quod assimilatio

dicta est causa cognitionis […]. Prima ergo comparatio entis ad intellectum est ut ens intellectus

correspondeat: quae quidam correspondentia adaequatio rei et intellectus dicitur; et in hoc formaliter ratio veri perficitur. Hoc est ergo quod addit verum supra ens, scilicet conformitatem, sive adaequationem rei et intellectus: ad quam conformitatem, ut dictum est, sequitur cognitio. Sic ergo entitatis rei praecedit rationem veritatis sed cognitio est quidam veritatis effectus» 33