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Estirpazione identitaria

1.2. La costruzione del nemico

1.2.3. Estirpazione identitaria

Il nemico individuato corrisponde spesso ad una parte della popolazione innocua, non dannosa per la società o per il potere vigente. Il popolo armeno, per esempio, non rappresentava una vera minaccia per gli ottomani, proprio come gli ebrei non costituivano un pericolo per le mire onnipotenti della Germania nazista e non erano responsabili della “pugnalata alle spalle” di cui la propaganda nazista li aveva accusati. Queste categorie di persone sono state strumentalizzate dalle campagne politiche per fare in modo di accrescere il potere e per creare un capro espiatorio contro cui sfogare le proprie frustrazioni.

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Gli armeni non costituivano una minaccia concreta per l'Impero ottomano […] Gli ebrei non avevano alcuna possibilità di minare la solidità e la compattezza del Terzo Reich, e non erano certo responsabili di quella “pugnalata alle spalle” di cui la propaganda nazionalista li aveva accusati […].65

Le violenze collettive hanno avuto sempre bisogno dell'appoggio delle masse e del loro consenso, spontaneo oppure generato politicamente, necessitano delle forze e del sostegno della popolazione per poter produrre violenza. La giustificazione spesso trovata dalle società era quella di una colpa da attribuire al nemico perseguitato per la quale era legittimo produrre violenza.

Le violenze di massa compiute da stati e governi, […] hanno avuto bisogno dell'appoggio e della partecipazione di una parte della popolazione. Che fosse maggiormente spontaneo o indotto, o in alcuni casi anche forzato, questo appoggio doveva trovare la giustificazione del proprio atteggiamento in una condivisa e accettata idea di colpa da attribuire al nemico.66

La costruzione del nemico è prodotta con determinate azioni, attraverso la diffusione di un'ideologia vengono legittimate le violenze con cui investire il nemico. Quest'ultimo viene indivuato in soggetti ben riconoscibili, da ghettizzare,

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Flores M., Tutta la violenza di un secolo, cit., p.40

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accusare e ricercare. Le masse vengono incitate verso la loro sparizione, la violenza è legalizzata e ritenuta necessaria. Il gruppo ghettizzato, è ritenuto il principale colpevole delle precarie condizioni in cui si trovano le popolazioni che ricorrono alla violenza.

L'individuazione di una etnia come nociva è, nella società che Foucault definisce normalizzatrice, la legalizzazione dell'uccisione. Nel momento in cui uno Stato di potere fonda la sua politica sul biopotere, la sua funzione omicida è data dal razzismo e dall'intolleranza.

La razza, il razzismo, sono- in una società di normalizzazione- la condizione d'accettabilità della messa a morte […]. A partire dal momento in cui lo Stato funziona sulla base del biopotere, [la] funzione omicida dello stato stesso non può essere assicurata che dal razzismo.67

Le caratteristiche del capro espiatorio vengono utilizzate contro di lui per costruire il nemico. Esse sono esaltate all'estremo fino a costituire il cavallo di battaglia della propaganda razziale. Per questo motivo, Adriano Zamperini ritiene che le atrocità collettive abbiano un carattere impersonale. Il nemico viene desoggettivato, privato delle sue caratteristiche e la società viene privata della sua pluralità e viene conformata agli standard dichiarati leciti.

Le atrocità collettive, sebbene si realizzino tramite relazioni

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interpersonali, hanno generalmente un carattere impersonale. La vittima viene spogliata della propria soggettività, di qualsiasi differenza individuale e consegnata al ruolo di nemico.68

L'estirpazione identitaria avvolge tutto, elimina l'individuo. La categorizzazione delle differenze si impone davanti il loro essere uomini e cancella la loro essenza umana. La minoranza etnica non è considerata con le caratteristiche di una persona, con un nome, ma viene definita dalla sua appartenenza razziale. Non si può parlare, sostiene Semelin, di Martin, Bagdaw e Séraphin, ma di un ebreo, un tutsi e un serbo.

Il criterio identitario travolge tutto, definisce tutto: annienta l'individuo. Questi non si chiama più Martin, Bagdaw, Séraphin, è prima di tutto UN ebreo, UN serbo, UN tutsi.69

La colpevolizzazione del nemico, sottolinea Fornari, è essenziale nel processo di esplusione del capro espiatorio per evitare il senso di colpa, a seguito delle atrocità collettive. Il mondo viene estremamente semplificato e diviso in amico e nemico, nel quale la scissione tra bene e il male si pone come fondamento della società.

La colpevolizzazione del nemico sembra pertanto di importanza fondamentale per evitare il senso di colpa che la guerra provoca nell'uomo [...] Tale scissione del mondo in amico e nemico ha il carattere di un'estrema semplificazione, per cui il bene e il male non

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Zamperini A., Psicologia dell'inerzia e della solidarietà., cit., p.15

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vengono più integrati in una stessa situazione istintiva e in uno stesso rapporto oggettuale [...].70

L'estirpazione identitaria non è generata da una forte differenza tra il popolo ed il nemico. Semelin, riprendendo un concetto freudiano sul narcisismo delle differenze, affronta la tematica sulla necessità di esaltare le piccole differenze da contrapporre alla prevalente uguaglianza degli esseri umani. Essi tendono a marcare le diversità antropologiche, esaltando le piccole differenze e ponendole come altamente discriminatorie per accendere l'odio interetico.

Egli osserva che gli esseri umani- assomigliandosi tutti- cercano di differenziarsi gli uni dagli altri mettendo in risalto delle piccole differenze. Poiché ne esagerano l'importanza, questo investimento diviene causa di ostilità tra gli uomini.71

Le differenze tra i vari popoli sono così poco conosciute e capite dagli individui da permettere facilmente l'emergere di scontri degli uni contro gli altri.

Questa guerra ha inoltre messo in luce un fenomeno che sembra quasi inconcepibile: i popoli civili, si conoscono e si capiscono talmente poco da potersi volgere l'uno contro l'altro.72

Un esempio di estirpazione identitaria è quello avvenuto durante le Foibe: la

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Fornari F., Psicoanalisi della guerra, cit., pp.40-41

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Semelin J., Purificare e distruggere cit., p.38-29

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popolazione non ammessa veniva gettata in queste cavità naturali, che venivano generalmente utilizzate con la funzione di discarica. In questo modo il nemico veniva equiparato ad immondizia, ad un oggetto di cui disfarsi, era smaltito come un rifiuto, in quanto non era necessario alla società. In questo contesto la vita umana veniva totalmente svalorizzata, equiparata a cose inutili per la società, e definita politicamente non-vita.

Da sempre in queste cavità naturali […] veniva gettata l'immondizia; i contadini vi scaraventavano carcasse di animali, attrezzi rotti, macerie.

[…] precipitandola nella foiba si finiva per equiparare,

simbolicamente la persona da uccidere a ciò che agli uomini non serve più, alla spazzatura.73

La de-umanizzazione consiste nella de-personificazione dell'individuo, il quale viene spogliato dei propri diritti e della propria essenza. La vittima concepita dai suoi persecutori come estranea alla natura umana è ritenuta meritevole di subire violenza.

Per questo motivo tali soggetti non hanno diritto ad alcun tipo di asilo morale e la loro morte non ha lo stesso valore delle persone “meritevoli di esistere”. Infatti, sottolinea Adriano Zamperini, solo i soggetti di diritto possono morire.

La morte fisica presuppone la morte sociale. I soggetti di diritto non possono essere sottoposti a una politica di sterminio, coloro che sono

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stati privati di ogni tutela giuridica e morale sì. Le atrocità collettive sono pertanto esercitate all'interno di un contesto socioculturale che mira, attraverso la violenza istituzionalizzata, alla rappresentazione della vittima come corpo estraneo al consorzio umano.74

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