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Violenze collettive: radici ed elaborazione del trauma

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Academic year: 2021

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E non c'è niente di più bello dell'attimo che precede la partenza, l'attimo in cui l'orizzonte di domani viene a farci visita per raccontare le sue promesse.

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Indice

Introduzione...p.5 Capitolo 1. Violenze collettive

1.1.La violenza...p.7 1.1.1.Delirio di onnipotenza...p.7 1.1.2.Eros e Thanatos...p.20 1.1.3.Assenza morale...p.25 1.2.La costruzione del nemico...p.36

1.2.1.Necessità dei rapporti di violenza...p.36 1.2.2.Emozione politica...p.41 1.2.3.Estirpazione identitaria...p.49

Capitolo 2.L'utilizzazione della violenza

2.1.Stragi e violenza etnica...p.56 2.1.1.Pulizia etnica...p.56 2.1.2.Persecuzione, genocidio...p.59 2.1.3.Il corpo dei civili uccisi...p.61 2.2.Torture...p.64

2.2.1.Metodi di tortura...p.64 2.2.2.La distruzione della vittima...p.70 2.3.Le donne e la guerra...p.80

2.3.1.Lo stupro come “diritto del vincitore”...p.80 2.3.2.Stupro etnico...p.83

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Capitolo 3. I superstiti e il trauma

3.1.Trauma collettivo...p.90 3.1.1.Il trauma...p.90 3.1.2.Trauma culturale...p.98 3.2.Post traumatic Stress Disorder (PTSD)...p.102

3.2.1.Eco del trauma: ripetizione del sintomo..p.102 3.2.2.Disturbi fisici...p.105 3.3.Trauma transgenerazionale...p.110

3.3.1.Il trauma tramandato...p.111

Capitolo 4. L'oblio dopo la tragedia: Memoria

4.1.Le macerie della tragedia...p.126 4.1.1Legami con il passato...p.126 4.1.2.L'oblio della memoria: deficit nel ricordo 4.1.3.Ricordo incistato nel corpo...p.142

Capitolo 5. L'oblio dopo la tragedia: La cura del

trauma

5.1.Elaborare il trauma …...p.152 5.1.1.Necessità di elaborare il lutto...p.152 5.1.2.Azione terapeutica: comprendere la violenza 5.1.3..Elaborare il lutto...p.167

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Bibliografia...p.180 Bibliografia riviste...p.191 Filmografia...p.193 Sitografia...p.195

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Introduzione

Il bene e il male, il santo e il dannato, Dio e Satana, dinamiche, interazioni e scissioni violente sono vissuti e quesiti che attraversano come un filo rosso tutta la storia dell'umanità. In questa disserattazione cercheremo di enucleare delle tematiche che ci diano la misura del loro effetto sulla storia dei singoli e dei popoli. La storia e la filosofia si intrecciano con le riflessioni psicoanalitiche e pedagogiche; gli olocausti odierni ed il fanatismo delle ideologie ci danno una misura della violenza a cui possono portare, ma soprattutto della difficoltà di separare nettamente il bene dal male.

Chi combatte e per cosa? Soldati, nelle opposte linee delle trincee si oppongono a soldati. Da entrambe le parti sono uomini mandati a morire per un ideale, per la difesa della propria terra, per interessi economici e per fanatismi etnici e religiosi. Ma sono in realtà uomini identici, fratelli nell'anima, identici nelle problematiche e nelle paure.

L'uomo, essere in bilico tra una pura instintualità animalesca e la sua capacità di intelligere ed utilizzare la libertà di scelta, ha dentro di sé un caleidoscopio di emozioni, di passioni e sentimenti spesso in conflitto tra loro: amore, odio, compassione, gelosia, invidia e avidità. É padre e carnefice, ama e distrugge, prova pietà e massacra allo stesso tempo.

Attraverso i testi di Sigmund Freud, Simon Weil, Hannah Arendt, Wolfgang Sofsky, Susan Sontag ed altri autori cercheremo in questa tesi di delineare la complessità della natura umana e alcune delle motivazioni per cui si compie violenza.

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La brama di potere, il rifiuto per il diverso, la mancanza di empatia, l'affermazione della propria superiorità e il senso di onnipotenza declinano l'aggressività in miliardi di sfumature.

Nell'uomo assistiamo a qualcosa di inaudito nel mondo animale, la sana aggressività può trasformarsi in violenza e distruttività. Cercheremo di delineare in questo itinerario vari temi: il delirio di onnipotenza, le ideologie dominanti nel loro funzionamento di “assunti di base”, la Banalità del male, il trauma non elaborato che attraversa le generazioni e si trasforma in trauma transgenerazionale. La capacità di elaborare il lutto della propria impotenza, della propria caducità e di elaborare le esperienze traumatiche, come vedremo, sono le uniche virtù capaci di permettere agli individui e alle società di crescere in modo sano e democratico.

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Capitolo 1.Violenze collettive

1.1.La violenza

1.1.1.Delirio di onnipotenza

Melanie Klein in Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi del 1935 parla dell'onnipotenza come un tratto caratterizzante della posizione maniacale basata sullo svilimento e sul trionfo sull'oggetto e del suo valore. Il mondo fantasmatico del bambino, secondo Klein, è abitato da oggetti parziali scissi, dicotomicamente divisi in buoni e in cattivi, amati ed odiati che incarnano la dualità di pulsioni originarie, la pulsione di vita e la pulsione di morte.

Nel passaggio alla posizione depressiva l'oggetto scisso si ricompone in oggetto totale, in un momento amato e nell'altro odiato. Ricomporre l'oggetto richiede una maggiore capacità di sopportare il lutto, la paura di aver distrutto l'oggetto buono o di essere distrutto da quello cattivo ed una certa dose di onnipotenza necessaria per instaurare la fiducia nella capacità di restaurarlo.

In altri termini Winnicott ci parla di una fase nella quale è basilare l'illusione necessaria per la capacità di iniziare a fare esperienza.

Gli oggetti transizionali ed i fenomeni transizionali appartengono al regno dell'illusione che è alla base dell'inizio di un'esperienza. Questo primo stadio dello sviluppo è reso possibile dalla speciale capacità della madre di adattarsi al bisogno del bambino, concedendogli così

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l'illusione che ciò che egli crea esista realmente […].1

A questo fa seguito un graduale processo di disillusione e l'opportunità di una graduale disillusione permette lo svezzamento e la crescita.

Riprendendo le tesi di Melanie Klein si può osservare un'eccessiva onnipotenza fa da riscontro ad una estremizzazione delle pulsioni dell'odio o di amore di oggetti terribilmente persecutori o altamente idealizzati, difficili da riunire in un oggetto totale.

Disposizioni innate del bambino, una particolare intolleranza alla frustrazione e circostanze esterne sfavorevoli inducono un'inasprimento della dicotomia, un'incremento delle difese maniacali, un'inasprimento dell'onnipotenza e conseguenti impossibilità di vivere la dipendenza.

Secondo Klein, il meccanismo del diniego ha le sue origini in una fase precocissima dello sviluppo della persona, nella quale l'Io cerca di difendersi dalla paura dei persecutori interiorizzati la cui persecutorietà deriva dalla pulsione di morte appartenente all'Es. Questa, una delle più profonde angosce dell'animo umano è intollerabile e necessità di essere proiettata sull'oggetto. In questo procedimento, attraverso il diniego, l'Io prima denega tale realtà psichica, successivamente estende la sua azione anche agli oggetti esterni.

Attraverso esso l'Io cerca di liberarsi dal pericolo della melanconia, ma anche da una situazione paranoica non in grado di controllare: quella della dipendenza dall'oggetto. Quest'ultimo, soggetto a numerosi attacchi e portatore di molti pericoli, spinge l'Io, che vuole liberarsi da quest'angoscia, alla ricerca della sua

1

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autonomia.

Il legame dell'Io è però troppo stretto con l'oggetto perché egli possa rinunciare all'identificazione con essi e cercando di sfuggire a questa sofferenza, egli ricorre ad alcuni meccanismi, tra i quali il senso di onnipotenza.

[...] la sua identificazione con tali oggetti è troppo profonda perché

possa rinunciarvi; dall'altro, l'Io è perseguitato dalla paura degli oggetti cattivi e dell'Es. Nello sforzo di sfuggire a queste dolorose avversità esso finisce col ricorrere a meccanismi molteplici e diversi

[…]. Ciò che innanzitutto caratterizza la mania, è a mio parere, il

senso di onnipotenza, […] la mania si fonda sul meccanismo del diniego. […] Ciò vuol dire che prima di ogni altra cosa è denegata la realtà psichica; solo dopo di ciò l'Io può procedere a denegare quantità più o meno rilevanti della realtà esterna.2

La difficoltà ad accettare la propria radicale fragilità e precarietà può portare alla volontà di dominare l'altro oppure a un controllo assoluto dell'oggetto attraverso la distruzione.

Klein parlerà del lavoro del “lutto necessario” per raggiungere la posizione depressiva, per integrare l'oggetto buono con quello cattivo, la pulsione di vita con quella di morte.

In questo processo psichico il soggetto può giungere a denegare porzioni di realtà, viene generato un processo di demolizione e distruzione di ciò che può essere

2

Klein M, (1935), Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, in Scritti 1921-1958, Boringhieri, Torino 1978, pp.312-313

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pericoloso e causa di sofferenza per l'Io.

Si annulla l'oscillazione salutare fra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, che è la condizione essenziale del genere umano, come ci viene splendidamente rappresentato da Pascal.3

L'uomo infinitamente piccolo non è niente in confronto all'infinito ed è tutto in confronto al nulla, è incapace di individuare ciò da cui è stato generato e la grandezza nel quale è avvolto.

[…] che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla in confronto all'infinito,

un tutto in confronto al nulla, un qualcosa di mezzo tra nulla e tutto. Infinitamente lontano per poter comprendere gli estremi, la fine delle cose e il loro principio sono invincibilmente legati in un segreto impenetrabile per lui, che è ugualmente incapace di scorgere il nulla da cui egli è tratto e l'infinito da cui egli è inghiottito.4

Il carattere specifico della mania, secondo Melanie Klein, è dato dall'utilizzo dell'onnipotenza per poter controllare gli oggetti. Esso è necessario per denegare il terrore che si prova nei confronti degli oggetti, derivante dalla loro fragilità e dal pericolo a cui sono sottoposti. D'altra parte esso è anche necessario per poter utilizzare il meccanismo di restauro dell'oggetto con piena efficacia. Quest'ultimo è acquisito dal bambino nella posizione depressiva, nella quale attraverso la riparazione dell'oggetto, acquisisce fiducia nelle proprie buone qualità e nella persistenza dell'oggetto.

3

Pascal B., Pensieri, Montanari F.,(a cura di), La scuola, Brescia 1954

4

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Il maniaco attraverso l'onnipotenza crede che tramite la dominazione degli oggetti potrà impedire che essi causino danno alla sua persona e che non si feriscano tra di loro, soprattutto crede anche di poter essere completamente autosufficiente e potersi fornire tutto il “buono” di cui ha bisogno.

Ciò che è assolutamente specifico della mania [...] è l'utilizzazione del senso di onnipotenza al fine di controllare e dominare gli oggetti. Questo è necessario per due ragioni: a) per denegare il terrore che se ne prova e b) per far sì che il meccanismo di restauro dell'oggetto [...] possa essere attuato con piena efficacia. Il maniaco immagina che dominando i suoi oggetti egli possa impedire non solo che gli facciano del male ma anche che si danneggino a vicenda.5

Franco Fornari ritrova nella guerra un'analogia con l'esperienza amorosa: nei conflitti le parti cattive del Sé vengono alienate e proiettate sull'avversario, ovvero colui che minaccia l'oggetto d'amore.

[…] il carattere ambiguo della guerra come esperienza d'amore, in

quanto si fonda su un'alienazione delle parti cattive del Sé proiettate sul nemico, che viene perciò vissuto come il distruttore del proprio oggetto d'amore.6

Il maniaco vuole tenere sotto controllo gli oggetti: ponendoli sotto la sua

5

Klein M., Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, cit. , p.313

6

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dominazione vuole impedire che essi si feriscano e quindi, che causino sofferenza alla sua persona.

Ogni individuo, infatti, è vulnerabile alla perdita dei propri cari, Siamo corpi socialmente costruiti, uniti gli uni con gli altri nella propria fragilità e l'uomo convive con il costante terrore di perdere amici e parenti, in quanto ogni corpo è costantemente esposto alla contingenza ed a circostanze estranee.

[…] ciascuno di noi in parte è politicamente costituito dalla

vulnerabilità sociale del proprio corpo […]. La perdita e la vulnerabilità sono conseguenze del nostro essere corpi socialmente costituiti, fragilmente uniti agli altri, a rischio di perderli, ed esposti agli altri, sempre a rischio di una violenza che da questa esplosione può derivare.7

Nel pensiero freudiano viene affermato che il bambino da una parte rifiuta la realtà e dall'altra riconosce il pericolo che essa rappresenta rispetto al proprio soggetto, proprio da questa minaccia egli cercherà di difendersi. Il successo del meccanismo viene raggiunto da una scissione dell'Io, la quale aumenterà nel tempo.

[Il bambino] da un lato, con l'ausilio di determinati meccanismi

rifiuta la realtà [...] dall'altro riconosce il pericolo della realtà e assume su di sé […] la paura di quel pericolo, paura da cui in seguito

7

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cercherà di proteggersi.[…] Il successo è stato raggiunto al prezzo di

una lacerazione dell'Io che non si cicatrizzerà mai più, che anzi si approfondirà con il passare del tempo.8

Il restauro dell'oggetto è un'operazione che Melanie Klein riscontra nella crescita del bambino e mediante essa impara a ricostruire l'oggetto.

Klein ci descrive il rapporto che uno dei suoi pazienti aveva con i suoi oggetti, egli definiva la loro uccisione come un mantenerli in uno stato di “animazione sospesa”, ovvero, come una fase di momentanea pausa che egli poneva alla vita degli oggetti, quest'ultimi non erano completamente spariti in quanto egli avrebbe potuto “restaurare l'oggetto” in qualsiasi momento.

L'uccisione, che l'uomo conserva dalle prime fasi dello sviluppo, precisa Klein, è un meccanismo di difesa basilare nell'uomo e di annientazione dell'oggetto pericoloso, mentre il restauro di questo, corrisponde ad una sorta di resurrezione, di una capacità del bambino o dell'uomo adulto di richiamare in vita gli oggetti distrutti.

[Il maniaco] uccideva gli oggetti [...] perché, sentendosi onnipotente,

pensava di poterli richiamare in vita anche immediatamente. Uno dei miei pazienti descriveva questa situazione dicendo che “li teneva in animazione sospesa”. L'uccisione corrisponde al meccanismo di difesa (conservato alle primissime fasi dello sviluppo) della distruzione dell'oggetto; la resurrezione corrisponde al restauro

8

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dell'oggetto.9

Secondo Freud, è dall'impasto di Eros e Thanatos dal loro legame che nasce l'infinita varietà e bellezza della vita. Al contrario, il loro disimpasto conduce alle aberrazioni estreme della violenza, del sadismo, del masochismo. Esiste, ed è necessario alla vita una sana aggressività che permette di lottare per vivere, per raggiungere i propri obiettivi per “diventare persona”.

Dal punto di vista psicoanalitico possiamo […] supporre che si verifichino un impasto ed una mescolanza molto ampi e variabili delle due specie di pulsioni […] non abbiamo mai a che fare con pulsioni di morte e pulsioni di vita allo stato puro, ma sempre e soltanto con impasti nei quali le due pulsioni anzidette si mescolano in proporzioni variabili correlativamente all'impasto delle pulsioni, può verificarsi, sotto l'influenza di determinati fattori, il loro disimpasto.10

Il processo di costruzione del Sè pone due esigenze primarie a cui l'individuo deve rispondere: la prima è quella dell'esigenza di appartenere ad un gruppo, come possono essere la famiglia, gli amici, la seconda è quella di differenziarsi dalle altre persone come singolo differente, che possiede caratteristiche particolari che lo distinguono da ogni altro uomo.

Nel processo di costruzione del Sé, tuttavia, la diversità entra a pieno

9

Klein M., Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, cit., p.314

10

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titolo, in quanto struttura portante della costante dialettica che vede a confronto due opposte esigenze primarie, cui l'individuo deve rispondere: quella di appartenere a un gruppo di altri, più o meno allargato (famiglia, città, nazione, genere, lingua, religione) e insieme quella di differenziarsi dagli altri come singolo, cioè come soggetto che possiede caratteristiche uniche e irripetibili.11

Nella dimensione di onnipotenza la parte fragile, inerme dell'uomo viene allontanata dal Sé e viene proiettata violentemente sull'altro. Quest'ultimo mediante l'utilizzo della violenza, è ridotto a nullità, diventa una cosa e perde la sua forma di essere umano. Il Sé trionfante può sentirsi ora assolutamente onnipotente el 'aggressività è rivolta verso il corpo estraneo.

Attraverso il delirio di onnipotenza l'uomo distrugge quelle vite ritenute una minaccia per la propria incolumità, sacrifica il vicino per le differenze che non riesce ad accettare.

Da sempre gli uomini hanno ucciso e massacrato i loro simili, torturando il nemico fino a ridurlo in pezzi. Martino Doni nel testo Arianna e l'angelo descrive l'essere umano come un labirinto nel quale si annidano deliri onnipotenti.

La vita umana [è] un labirinto nel quale dar sfogo a deliri onnipotenti, sacrificando altri, di cui non si riesce ad accettare l'esistenza, al dio di se stessi.12

11

Galanti M.A., In rapido volo con morbida voce. L'immaginazione come ponte tra infanzia ed adultità, ETS, Pisa 2008, p.104

12

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L'uomo, sostiene Freud, è minato da un desiderio di onnipotenza, di cui ha rivestito le sue divinità che incarnano tutto ciò che egli sogna e che gli è negato. Nella figura divina l'individuo ha posto i propri ideali di società e l'uomo moderno, avvicinandosi ad essi e si è elevato allo stato di divinità.

Da lungo tempo egli si era fatto una rappresentazione ideale dell'onnipotenza e dell'onniscenza, cui diede corpo nei suoi dei. Ad essi assegnò tutto quel che pareva irraggiungibile ai suoi desideri, o era proibito. Possiamo dunque dire che questi dei erano ideali di civiltà. Oggi egli si è avvicinato molto al raggiungimento di questi ideali, è diventato egli stesso quasi un dio. […] .13

Butler definisce la violenza come un “contatto del peggiore tipo” nel quale la fragilità dell'uomo riesce a manifestarsi in quella che, secondo l'autore, è una delle forme più terribili, per le quali siamo consegnati, senza alcun controllo, alla volontà altrui. Chi agisce con violenza, agisce sul corpo dell'altro, cerca di ferirlo nel fisico e nella psiche.

Di sicuro la violenza è un contatto del peggiore tipo, un mezzo attraverso cui la vulnerabilità umana originaria si manifesta nella sua forma più terribile, e per il quale veniamo consegnati, senza alcun controllo alla volontà altrui.14

13

Freud S., (1929), Il disagio della civiltà, cit., vol.9, pp.580-582

14

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L'uomo sacrifica, elimina, fa violenza su ciò che lui ritiene diverso. Nella dimensione maniacale e violenta l'essere umano si ritiene un Dio onnipotente a cui gli altri devono essere sacrificati.

Per la sua brama di dominio e per l'intolleranza di accettare le differenze altrui, non prova compassione di fronte a persone che vengono massacrate.

Simona Forti ne I nuovi demoni riprende un passo di Sade. Per l'autore la malvagità che si esprime nel far violenza sull'altro è descritto come un “malessere rabbioso” che il carnefice prova nei confronti del diverso. Quest'ultimo è portatore di quell'alterità che gli appartiene e che il massacratore non riesce ad affrontare. Il marchese de Sade ci descrive il piacere derivante dal far soffrire l'altra persona: quello che il malvagio cerca di provocare nell'altro è un malessere interiore, egli proietta la sua aggressività su di esso.

La malvagità, che si esprime nel produrre sofferenza nell'Altro ed esercitare violenza sull'Altro, è, in realtà, il malessere rabbioso che il soggetto prova nei confronti di quell'alterità irriducibile che lo abita espropriandolo.15

Nel testo Il Paradiso della crudeltà Sofsky ritiene la nascita della violenza derivante dalla natura dell'uomo in quanto egli non ha freni ed è capace, grazie all'intelletto, di compiere qualsiasi terribile azione. Nel pensiero dell'autore l'individuo riesce in poche occasioni a dominare le sue pulsioni, deve, quindi, temere per la propria incolumità e per quella degli altri.

15

(18)

[...] la violenza nasce dalla specifica natura umana[…] Poiché non ha

freni, è capace di compiere qualsiasi misfatto. Poiché non è mai completamente in sé, deve temere la sua morte e la libertà degli altri.16

Nel carteggio con Freud, Einstein domanda quale sia il motivo per il quale il popolo si lasci guidare verso l'odio. Egli sostiene che nell'uomo risiede una necessità di distruzione che prende forma in circostanze particolari che danno luogo ad eventi catastrofici, tali sentimenti risiedono all'interno delle persone, ma solo in specifici contesti vengono ad emergere.

[…] com'è possibile che la massa si lasci infiammare […] fino al furore dell'olocausto di sé? Una sola risposta è possibile. Perché l'uomo alberga in sé il bisogno di odiare e distruggere. In tempi normali la sua inclinazione rimane latente, solo in circostanze eccezionali essa viene alla luce […].17

Una pulsione umana innata, per esempio, è quella aggressiva. Essa analogamente a questa avviene per la sessualità, sostiene Zamperini, deve essere scaricata. Essa è utilizzata in contesti sociali o sportivi, nella quale è utilizzata per agonismo. Altre volte è scaricata nelle atrocità collettive. L'aggressività è una pulsione umana innata e analogalmente alla sessualità deve essere scaricata. A volte viene utilizzata in contesti dove è positiva, in maniera socialmente accettabile, come per

16

Sofsky W., Il paradiso della crudeltà.Dodici saggi sul lato oscuro dell'uomo, Einaudi, Torino 2001 pp.7-8

17

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esempio in contesti sportivi o nelle discussioni politiche, mentre altre volte è utillizzata in contesti nocivi per la comunità attraverso la violenza.

[…] l'aggressività è una disposizione innata e indipendente, in quanto

è una pulsione che, similmente alla sessualità, richiede di essere “scaricata” più o meno direttamente. Questo processo può avvenire in maniera socialmente accettabile, come accade nelle dispute politiche e nell'agonismo sportivo, oppure in modo inammissibile, ad esempio manifestandosi attraverso l'insulto o la violenza fisica.18

Nell'onnipotenza infantile, l'aggressività, viene proiettata sull'oggetto cattivo in quanto non può essere controllato dal bambino.

L'infante, nei primissimi mesi di vita, è completamente dominato dalla pulsione di vita e dalla pulsione di morte e inizialmente esse sono confuse, infatti, un grosso progresso per il bambino è rappresentato dalla possibilità di separarli, di scinderli. La pulsione di vita pone l'attenzione sulle esperienze di gratificazione creando un “oggetto buono”, mentre la pulsione di morte si attacca alle esperienze di frustrazione e crea l'oggetto “cattivo”. Lo sviluppo del bambino, infatti, è caratterizzato da meccanismi di proiezione ed introiezione di queste due pulsioni. Il bambino introietta sia gli “oggetti buoni”, che sono determinati da ciò che lui stesso possiede, che gli “oggetti cattivi”, costituiti da ciò che a lui non è stato concesso. Il prototipo di entrambi gli oggetti è il seno materno, e su questi il bambino riversa la sua aggressività. Infatti il bambino indirizza i sentimenti di amore al seno buono, l'odio e persecuzione a quelli cattivi.

18

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Il lattante indirizza i suoi sentimenti di soddisfazione e di amore al seno “buono”, e gli impulsi distruttivi e i sentimenti di persecuzione a ciò da cui si sente frustrato, cio al seno “cattivo”. In questa fase dei processi di scissione operano al massimo, l'amore e l'odio, al pari dell'aspetto buono e di quello cattivo del seno, sono tenuti ampiamente distinti e separati.19

1.1.2.Eros e Thanathos

Un'intera nottata buttato vicino

a un compagno massacrato con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio[…]

Non sono mai stato tanto

attaccato alla vita.20

Veglia scritta dal poeta Giuseppe Ungaretti sul fronte fa risaltare il contrasto fra la

situazione cruda, disperata di stare accanto a un compagno massacrato, attraverso

19

Klein M, (1952), Le origini della traslazione, in Scritti 1921-1958, cit.., p.527

20

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un sentimento forte di attaccamento e amore per la vita. Mai si prova tanto entusiasmo e attaccamento alla propria vita come quando la morte è così vicina, l'istinto di sopravvivenza rende ogni uomo nemico dell'altro.

Canetti, ne Il sopravvissuto, sostiene che la vista di un defunto suscita nella persona viva una sorta di soddisfazione, poiché constata di essere ancora in vita, sembra quasi come se il defunto e il superstite avessero avuto un conflitto e solo uno fosse rimasto ucciso, mentre l'altro gli sta dinanzi vittorioso.

Il terrore suscitato dalla vista di un morto si risolve poi in soddisfazione, poiché chi guarda non è lui stesso morto. Il morto giace, il sopravvissuto gli sta ritto dinanzi, quasi si fosse combattuta una battaglia e il morto fosse stato ucciso dal sopravvissuto. Nell'atto di sopravvivere, l'uomo è nemico dell'altro […].21

Ogni uomo vivo sente come se la morte non lo riguardasse, scoppia di vita di fronte ai defunti, scaglia verso i loro corpi la pulsione di annientamento che ha dentro di sé.

Agisce perché lui è sempre in vita, massacra, perché non è lui a subire quelle violenze. La morte è lontana e non si considera come un pericolo imminente da scacciare. Il pericolo di perire, per questo uomo pieno di vita, è denegato.

La morte e la minaccia di essere a sua volta fatto oggetto di violenze non lo riguardano. Per questo motivo il carnefice può perpetrare violenza: la morte è scacciata in un angolo remoto, essa non è compresa nella sua vita.

21

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Il suo dominio sulla morte e la perpetrazione della violenza sull'altro, tiene sotto controllo la paura di essere annientato.

L'entusiasmo per la sopravvivenza è una forza di distruzione sociale. È come una dipendenza. Chi è ancora vivo dove altri sono morti sente più vita dentro di sé. La morte, che minaccia ogni uomo, sembra non riguardarlo.22

Lo stesso sentimento di soddisfazione di fronte alla morte altrui, è splendidamente descritto da Tolstoj, nel libro La morte di Ivan Il'ič. In esso la malattia del protagonista e la sua imminente morte suscitano negli altri personaggi la soddisfazione per la loro sopravvivenza.

[…] il fatto stesso della morte di un uomo conosciuto e vicino

suscitava in tutti coloro che ne venivano informati, come sempre, un sentimento di soddisfazione, giacchè a morire era stato lui e non loro.23

L'uomo di fronte alla morte si sente fortemente attaccato alla vita e dinnanzi a sé ha Eros e Tanathos. Le pulsioni di morte sono strettamente legate alle pulsioni di vita. Come ci viene splendidamente descritto da Freud in Al di là del principio di

piacere:

22

Sofsky W., Il paradiso della crudeltà, cit., p.10

23

(23)

[…] dobbiamo supporre che fin dall'inizio [le pulsioni di morte] si

siano associate alle pulsioni di vita.24

Hannah Arendt, in una frase citata da Simona Forti, ci descrive come il male radicale sia contraddistinto da un paradosso, il quale comprende una pulsione nichilista che tende alla distruzione e all'annientamento, ma al medesimo tempo chi perpetra la violenza ha dentro di sé un forte bisogno di vita.

[Per Arendt] il paradosso del “male radicale”: non solo [è]

un'irrefrenabile pulsione verso il nulla, ma un insaziabile bisogno di vita, [che] ha prodotto l'orrore del XX secolo.25

Stevenson, grande narratore e perciò grande conoscitore dell'animo umano ci offre una simbologia mitologica nel suo libro Lo strano caso- non tanto strano, potremmo dire- del Dr. Jekill e Sig. Hide. Già nella scelta emblematica dei loro nomi- l'uno- per bene, integrato, rispettato Je kill (strana commistione di inglese per io uccido), l'altro, Hide, legato ad hidden- nascosto. Non si può tracciare una riga rigida dentro di noi tra buono e cattivo, santo e dannato, non possono esserci popoli angeli e popoli demoni, né ideologie per il bene né ideologie per il male. Ogni fanatismo ogni forclusione dentro e fuori di noi porta alla aberrazione che va dall'esplosione delle emozioni violente alla programmazione asettica, studiata a tavolino, della sterminazione di un popolo.

24

Freud S., (1920), Al di là del principio di piacere, cit., vol.9, p.242

25

(24)

[…] mi trovai incamminato in una vita di profonda doppiezza […] più

che di difetti gravi, furono dunque le mie aspirazioni eccessive a far di me quello che sono stato, e a separare in me […] quelle due provincie del bene e del male che dividono e compongono la duplice natura dell'uomo […] È una maledizione per l'umanità, pensano, che queste due incongrue metà si trovino così legate, che questi due gemelli nemici debbano continuare a lottare così, nel fondo di una sola e angosciata coscienza.26

Freud riconosce di aver sempre teorizzato che la pulsione sessuale sia collegata ad una componente sadica, ma si chiede come sia possibile derivare la pulsione di morte dalla pulsione di vita in quanto la prima danneggia l'oggetto a cui è legata. L'autore teorizza, infatti, che la pulsione di morte staccatasi dall'Io si manifesti solamente in presenza dell'oggetto, per questo motivo si può spiegare come la pulsione sadica, che tende alla distruzione sia legata alla pulsione sessuale, ovvero di vita.

Abbiamo sempre riconosciuto la presenza di una componente sadica nella pulsione sessuale […] Ma com'è possibile derivare la pulsione sadica, che mira a danneggiare l'oggetto, dall'Eros che preserva la vita? Non si potrebbe supporre che questo sadismo sia in realtà una pulsione di morte che a causa della libido narcisistica sia stata costretta a staccarsi dall'Io, per cui può manifestarsi solo in relzione

26

(25)

all'oggetto? 27

1.1.3.Assenza morale

L'uomo di oggi deve andare oltre il passato, non deve più torturare, sterminare e uccidere. È necessario dimenticare le “nuvole di sangue salite dalla terra”, abbandonare le orme paterne e di creare un nuovo futuro, costituito da solidarietà e speranza: solo così potremmo sperare in un proseguimento pacifico dell'umanità. L'uomo del mio tempo, di Salvatore Quasimodo, rappresenta ogni uomo sulla faccia della terra. Tale individuo è rimasto immutato nei secoli, adesso deve provare ad andare oltre le orme percorse dal padre, fatte di violenza e sopraffazioni, evitando di commettere azioni che vadano contro l'umanità. Dalla poesia di Quasimodo si leva un grido, un richiamo alla necessità di cambiamento dell'attitudine umana e del superamento dell'intolleranza fra popoli e realtà diverse.

Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo. Eri nella carlinga con le ali maligne, le meridiane di morte, t'ho visto dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura.

[...]

Hai ucciso ancora,

come sempre, come uccisero i padri, come uccisero

27

(26)

gli animali che ti videro per la prima volta. […]28

Il poeta affronta il tema della immutabilità umana: l'uomo è rimasto costante, ha sempre fatto la guerra contro un nemico, ha ucciso, ha massacrato, perpetrando violenza verso un altro essere.

La natura umana dai tempi della pietra ai nostri giorni è rimasta identica a sé stessa, come Caino con Abele ancora oggi siamo capaci di distruggere anche il nostro fratello.

L'uomo nella carlinga è lo stesso che cacciava con la pietra e con la fionda, lo stesso che imbracciava le forche e che utilizzava strumenti di tortura, nonostante siano passati secoli, siano cambiate civiltà e domini è rimasto immutato.

La filosofa Adriana Cavarero nel 2008 pubblica Orrorismo, testo nel quale sostiene che da Omero ai nostri giorni l'uomo ha continuato a ripetere le stesse azioni; in tutti questi secoli vi è sempre stata violenza ed essa ha sempre investito innocenti. Donne, bambini, civili indifesi massacrati, stuprati od uccisi, fanno parte della nostra Storia, dalle origini fino ad oggi. Gli inermi sono sempre stati colpiti dalla violenza omicida, in nome di una guerra, di un Dio o della purezza razziale di un popolo.

Questi massacri, afferma l'autrice, sono tipici di ogni guerra e sono da lei definiti il “classico risvolto orrorista” di ogni scontro.

Donne stuprate e uccise, civili passati a fil di spada, innocenti feriti a morte fanno parte della violenza omicida di tutte le guerre, da Omero

28

(27)

ai giorni nostri, costituendone il classico risvolto orrorista.29

Claudine Vidal ci offre una testimonianza del reverendo Jean Bugigno, il quale si trovò ad assistere ad una vera e propria atrocità. Alcuni assalitori attaccarono il seminario, nel quale delle famiglie tutsi erano accorse per cercare asilo. L'attenzione del reverendo venne colta dalle urla provenienti dall'edificio, affacciandosi alla finestra egli assistette ad una scena di tremenda brutalità. Una donna che stava cercando di fuggire con il suo bambino venne fermata, le venne strappato il figlio dalle proprie braccia e davanti ai suoi occhi la testa dell'infante venne separata dal corpo con un colpo di macete.

Il reverendo udì ad un tratto delle urla, si precipitò e vide, dalla sua finestra, una folla di uomini, di donne e bambini inseguiti da uomini armati di machete che massacravano sul campo tutti coloro che venivano catturati. […] sotto la sua finestra: una donna che fuggiva con il suo bambino […] il suo inseguitore le strappò il bambino e le tagliò la testa con un colpo di machete […].30

Ovunque gli esseri umani compiono atrocità a danno dei propri simili, non c'è una particolare nazione o popolazione che compie violenze verso altre civiltà, ma sono gli uomini di tutto il mondo, senza differenze o particolari caratteristiche. In Asia, in America, in Europa un uomo tortura un altro, violenta una donna, mutila un ragazzo.

29

Cavarero A., Orrorismo. Ovvero della violenza sull'inerme, Feltrinelli, Milano 2007, p.128

30

Vidal C., Il genocidio dei Ruandesi tutsi: crudeltà voluta e logiche di odio, in Heriter F.,(a cura di), (1996), Sulla Violenza, Meltemi, Roma 1997, pp.251-252

(28)

Quello che Susan Sontag vuole sottolineare è il fatto che in ogni paese vengono commesse queste atrocità, l'uomo in ogni luogo commette violenza.

Gli esseri umani commettono dappertutto cose terribili a danno dei propri simili.31

Il pensiero di Marcello Flores evidenzia che ciò che ci colpisce della violenza è sia l'innocenza delle vittime che dall'intenzionalità con la quale si compie l'azione violenta. A maggior ragione rimaniamo impressionati da questa quando investe gli indifesi. Siamo colpiti soprattutto da quella volontà di compiere il male, che viene esercitato per motivi banali.

Cosa ci colpisce della violenza? L'innocenza delle vittime, in primo luogo; e a maggior ragione quando si tratta di donne, bambini e vecchi. La volontà di fare del male, in secondo luogo, da parte dei persecutori; soprattutto quando si esercita in modo diretto, consapevole e magari inutile, per “motivi abietti” […].32

L'uomo è capace di ogni azione e spesso, nel pensiero di Arendt, le azioni violente sono compiute proprio da quegli uomini, che non hanno scelto se agire per il bene o per il male; ne La banalità del male Eichmann veniva descritto come un uomo comune. La filosofa andando al processo di Gerusalemme si aspettava di trovarsi davanti un mostro, un essere spietato, invece, l'individuo che trovò, era un essere

31

Sontag S. ,Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003, p. 100

32

(29)

normale, che aveva contribuito ed organizzato le deportazioni degli ebrei senza la minima motivazione, ella affermava, infatti, che le azioni peggiori sono commesse da coloro che agiscono per motivi abietti.

[…] la triste verità è che il male è compiuto il più delle volte da coloro

che non hanno deciso di agire né per il bene, né per il male.33

Si può rimanere sconcertati anche dalla mancanza di empatia di fronte all'atrocità collettiva, sul come sia possibile compiere del male e rimanere impassibili di fronte al dolore altrui.

Hannah Arendt stessa riconduce l'incapacità di parlare di Eichman non tanto ad una incapacità verbale, ma ad una assoluta mancanza di empatia. In lui mancava l'introiezione del pensiero altro, sopprattutto delle emozioni altrui.

Quanto più [si ascoltava Eichmann parlare] tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata ad una capacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro.34

La mancanza di empatia caratterizza ogni perpetratore delle atrocità collettive: solo attraverso la disempatia si può commettere il male. Fred Uhlman, autore della Trilogia del ritorno, riporta in uno dei suoi tre testi la conversazione a cui aveva assistito nel ritorno in Germania dopo vent'anni di esilio. Egli era presente alla discussione tra ex compagni di scuola che negli anni del Terzo Reich erano

33

Arendt H.,(1978), La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987 p.9

34

(30)

stati SS. In queste righe possiamo notare le motivazioni banali, dietro le quali loro si erano rifugiati, per i crimini commessi e per la totale mancanza di empatia per il popolo che avevano sterminato.

-Ma noi non assassinavamo donne e bambini. Voi sì!

-Ubbidivo agli ordini... quel che ho fatto l'ho fatto per la Germania!35

Ciò che aveva contraddistinto i nazisti e i carnefici di altre stragi era stata la totale accettazione degli ordini imposti dalla Nazione. Eichman aveva sempre rispettato la legge e gli ordini a lui impartiti. Era stato un cittadino modello, che aveva sempre cercato di fare il suo meglio per il Reich.

Le sue azioni erano criminose soltanto guardando retrospettivamente, e lui era sempre stato un cittadino ligio alla legge, poiché gli ordini di Hitler- quegli ordini che certo egli aveva fatto del suo meglio per eseguire- possedevano “forza di legge”.36

Oriana Fallaci ritiene che attraverso l'abitudine l'uomo si possa assuefare ad ogni dolore, ad ogni concetto. Mediante essa si accettano ordini, è ritenuta dalla scrittrice come un potente veleno perchè si fa strada in noi silenziosamente e violentemente.

L'abitudine è la più infame delle malattie perchè ci fa accettare

35

Uhlman F., (1979), Niente resurrezioni, per favore, Teadue, Milano 1990, p.67

36

(31)

qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persona odiose, si impara a portar le catene, a subire ingiustizie, a soffrire ci si rassegna al dolore, alle solitudini, a tutto. L'abitudine è il più spietato dei veleni perchè entra in noi violentemente, silenziosamente […].37

Persone normopatiche vengono scambiate per persone “normali”. Comportarsi secondo le norme perdendo il contatto con le emozioni più profonde, perdendo passione e sentimenti, non significa essere “umani”.

Alla base del concetto arendtiano il male è compiuto molto più spesso da uomini comuni che non da “mostri spietati”: la violenza può essere perpetrata da chiunque.

Certo è vero che il male derivi da motivazioni crudeli, ma le peggiori atrocità possono emergere da colui che apparentemente è considerato innocuo, da chi non si schiera e non prende posizione, dalla normale passività che contraddistingue la vita della società di massa, nella quale il soggetto è considerato come collettività di individui non pensanti.

Il male deriva da motivazioni malvagie [ma] le peggiori atrocità possono scaturire da ciò che è apparentemente innocuo, dalla “normale” passività che può caratterizzare la vita quotidiana di milioni di individui nella società di massa.38

37

Fallaci O., Un uomo, Rizzoli, Milano 2010, p.163

38

(32)

È la normopatia la patologia di essere “normali”, persone perfettamente adeguate ai pregiudizi razziali o religiosi. Persone ligie al dovere imposto da altri, la cui morale è eteronoma e non autonoma.

L'outsider stereotipato ed eliminato dalla vita sociale non è un soggetto che si trova sul piano morale. Per questo motivo, durante la perpetrazione della violenza sul diverso, vi è un'assenza di etica e di empatia. L'altro non fa parte del noi, è inesistente. Zamperini in questa citazione illustra la fragilità morale umana:

La moralità dell'uomo è fragile, perciò l'altro reso invisibile attraverso la stigmatizzazione stereotipata, l'ideologia dell'odio, la burocrazia e la tecnologia, è un altro che non si incontra sul piano morale.39

Hannah Arendt riporta alcuni commenti di psichiatri e di un cappellaio che fece visita ad Eichmann dopo che la Corte Suprema ebbe finito di discutere l'appello. Tutte le persone che lo avevano visitato lo giudicavano “normale”, anzi “ideale” e pensavano che aveva “idee quanto mai positive”, ma le affermazioni di Eichmann lasciavano sbigottita l'autrice anche se egli, in effetti, “Non era affetto da infermità mentale”. Eichman aveva organizzato lo sterminio di milioni di ebrei senza nutrire alcun risentimento verso di loro, nelle sue motivazioni possiamo riscontrare la banalità del male.

[…] non si poteva neppure dire che fosse animato da un folle odio per

39

Zamperini A., Psicologia dell'inerzia e della solidarietà. Lo spettatore di fronte alle atrocità collettive, Einaudi, Torino 2001, p.102

(33)

gli ebrei, da un fanatico antisemitismo, o che un indottrinamento di qualsiasi tipo avesse provocato in lui una deformazione mentale. “Personalmente” egli non aveva mai avuto nulla contro gli ebrei; anzi, aveva sempre avuto molte “ragioni private” per non odiarli.40

Freud sostiene che nel momento in cui gli uomini si ritrovano in gruppi, le acquisizioni morali conquistate nell'arco di secoli vengono sostituite dagli atteggiamenti più primordiali dell'essere umano.

È veramente come se, riuniti gli uomini in moltitudine […] tutte le acquisizioni morali dovessero scomparire, lasciando sussitere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi […].41

Ma sottolinea Arendt ne L'umanità nei tempi bui:

Il pensiero non richiede soltanto intelligenza e profondità, ma soprattutto coraggio.42

L'empatia ed i sensi morali vengono estromessi dalle società dell'odio, è impossibile, infatti, arrestarsi nel compiere violenza. Esiste un ruolo per ognuno: un debole che deve essere sopraffatto e un forte che deve far valere la propria supremazia. L'uno non si ritiene simile all'altro, ma entrambi non sono mai totalmente deboli o forti; entrambi ignorano questo concetto, non possono

40

Arendt H., La banalità del male, cit., p.34

41

Freud S., (1915a), Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, cit., vol.8, p.135

42

(34)

appartenere alla medesima specie, ma si concepiscono come due universi separati, i cui ruoli e posizioni non possono essere modificati. Ogni uomo, sia debole che forte è destinato, nel pensiero di Simon Weil, a patire violenza. Vi sarà un momento nelle loro vite nelle quali ci sarà un'inversione di ruoli, dove il prepotente verrà sottomesso. Ogni persona sulla faccia della terra è destinata a patire violenza almeno una volta nella vita.

Che tutti siano destinati nascendo a patire violenza è una verità a cui l'impero delle circostanze chiude gli spiriti degli uomini. Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole è mai assolutamente debole, ma l'uno e l'altro lo ignorano. Essi non si credono della medesima specie. Ne il debole si considera simile del forte, né da lui è considerato uno simile.43

Chang sostiene che il nemico che in precedenza era un valido avversario al momento della sconfitta cambia volto e diviene debole.

L'altro ormai vinto viene a sua volta disumanizzato, cambia volto e da forte ed onnipotente passa a debole ed inerme, come un insetto. Anche il nemico, sopraffatto, può essere privato della sua forza e della sua identità: sembrava impossibile credere, narra Chang che quelle persone sottomesse fossero in precedenza i loro nemici.

[…] erano diventati l'ombra di quel nemico che soltanto fino al giorno

43

(35)

prima avevano affrontato e sfidato. Pareva impossibile perfino credere che queste imitazioni di soldati fossero i loro nemici.44

1.2.La costruzione del nemico

1.2.1.Necessità dei rapporti di violenza

I massacri e le violenze collettive sono attuate attraverso strategie che mirano a ricostituire e cambiare le relazioni sociali. In queste vengono riorganizzati i legami del cittadino: ciò che è lecito nella società e ciò che invece deve essere escluso. I rapporti interpersonali con persone di diverse etnie e di diversa estrazione sociale vengono recisi fino a trasformare il vicino nel nemico numero uno di tutta la società. Questi meccanismi instaurano una sfiducia generalizzata di tutti contro tutti. Viene ridefinito la categorizzazione del cittadino ed il senso di cittadinanza, ovvero la fiducia reciproca tra individui della stessa comunità.

Le atrocità collettive sono quindi preparate e assistite da strategie che mirano a rigenerare il vocabolario delle relazioni sociali. […] I legami che sanciscono il senso di cittadinanza, intesa come fiducia, rispetto ai propri diritti, sono recisi trasformando il vicino di casa nel proprio potenziale carnefice.45

Vengono iscritte le vite apparteneti alla società e quelle che verranno escluse, nelle quali viene convogliata la violenza della popolazione. Giorgio Agamben definisce

44

Chang I., (1997), Lo stupro di Nanchino. L'olocausto dimenticato della II Guerra Mondiale, Corbaccio, Milano 2000, p.231

45

(36)

la vita esclusa Homo sacer (vita sacra, ovvero l'outsider da sacrificare) che è ritenuta indegna di essere vissuta e quindi può essere eliminata.

La vita sacra dell' Homo Sacer può essere eliminata, ogni società, infatti, segna la categoria di persone da inserire nella vita sociale e quelle che vengono estromesse da essa. Le vite indegne di essere vissute sono politicamente irrilevanti, quindi possono essere eliminate. In ogni comunità, anche in quelle contemporanee, afferma Agamben, vengono delimitate le vite sacre da espellere.

La nuova categoria giuridica di “vita senza valore” (o“indegna di essere vissuta”) corrisponde puntualmente […] alla nuda vita dell' “Homo sacer” […] È come se ogni valorizzazione e ogni politicizzazione della vita […] implicasse necessariamente una nuova decisione sulla soglia al di là della quale la vita cessa di essere politicamente irrilevante, è ormai solo “vita sacra” e, come tale, può essere impunemente eliminata. Ogni società fissa questo limite, ogni società- anche la più moderna- decide quali siano i suoi “uomini sacri”.46

La delimitazione della vita degna di essere vissuta è data dalle società scarsamente educate,essa è una naturale tendenza che cerca di eliminare alcuni soggetti della comunità che non si sono completamente amalgamati con essa.

[…] naturale tendenza di ogni collettività scarsamente educata ed

46

(37)

evoluta, a sviluppare una ostilità verso quegli elementi che vivono nella collettività stessa, ma che per particolari caratteristiche etniche

[…] si differenziano da essa non lasciandosi completamente

assimilare.47

Le società hanno un estremo bisogno di generare un capro espiatorio, un nemico sul quale proiettare tutta la propria aggressività e dall'angoscia persecutoria generata dal pericolo del mondo esterno. I rapporti di violenza sono estremamente necessari nelle nostre società perché attraverso esse si mantiene in equilibrio tutto il resto.

In episodi di violenza all'interno della società prima di tutto si inseriscono nuove dinamiche nella popolazione, vengono riassettati i rapporti sociali e individuate quelle fasce di cittadini da estirpare dalla nazione.

Nelle violenze collettive, come afferma Adriano Zamperini, sono inseriti meccanismi costituiti da una “politica della sparizione”, in cui il prossimo è presentato come invisibile o come soggetto da eliminare: all'altro non è permesso entrare nei normali rapporti della vita quotidiana.

I sistemi sociali nei quali si perpetrano atrocità collettive tendono a riorganizzare i rapporti relazionali e sociali, viene annientata la relazione normale e naturale tra esseri umani, nella quale l'altro è parte integrante della società in cui viviamo. In questo processo si manifesta una forma di indifferenza, progressivamente la differenza tra “noi e loro” viene sempre più marcata e, attraverso una estirpazione, questi soggetti vengono estromessi dalla vita quotidiana.

47

Davidson A. I., (a cura di), La questione ebraica, in La vacanza morale del fascismo. Intorno a Primo Levi, ETS, Pisa 2009 , p.36

(38)

Le atrocità collettive sono inoltre sorrette da una politica della sparizione: al posto dei legami di parentela e di vicinato, [...] deve succedere una relazione in cui la percezione del prossimo è trasformata in cecità selettiva. Progressivamente viene consumato un divorzio sociale: il pensiero “noi-loro” colonizza le menti e sancisce la separazione chirurgica del “corpo malato”. […] Ogni sistema sociale in cui si perpetrano delle atrocità collettive è un sistema che aspira a rifondare le relazioni sociali, formali e informali.48

In Colombia, per esempio, si sono verificati durante questo secolo episodi di violenza, uno dei quali è noto con il nome di “Violencia”, che ha avuto inizio nel 1946 come guerra civile. Daniel Pécaut sostiene che il ricordo lasciato da questo episodio è stato quello di un'estirpazione di una parte della comunità attraverso l'uso dei corpi; era stato installato un sistema dove si uccideva, si uccideva di nuovo ed infine si controuccideva. Matar, rematar, contramatar è la formula ripresa da Pécaut dal lavoro dell'antropologo Uribe, il quale ha descritto le pratiche di massacro eseguite durante la “Violencia”. In questa strage collettiva l'individuo veniva ucciso tre volte: inizialmente, gli veniva strappata la vita, successivamente gli venivano impressi marchi codificati e infine i corpi venivano smontati e rimontati in modo paradossale.

Il ricordo lasciato dalla “Violencia” è proprio quello dell'uso di corpi

48

(39)

per esprimere l'annullamento dell'inserimento in una comunità comune. “Matar, rematar, contramatar”, uccidere, uccidere di nuovo, controuccidere, tre tappe della distruzione dei corpi: prima togliergli la vita, poi imprimervi dei marchi codificati, infine costruire delle parodie di corpi […].49

Ogni cosa ha un prezzo e sembra che ne abbia uno anche la pace nella comunità, che viene pagato dal diverso, dal nemico, tenuto a distanza dalla “società dei normali”. Questo concetto è stato ipotizzato dalla ricerca psicosociale della discriminazione, che afferma che l'equilibrio del noi è costruito sulla discriminazione dell'altro. Per mantenere l'equilibrio nella società vi è bisogno di generare disuguaglianze, marchiare bene le categorie di persone che stanno all'interno della comunità e coloro che sono esclusi.

Il nostro normale e comune rapporto sociale è costruito sull'espulsione dell'outsider dalla nostra realtà. Infatti, tra le conseguenze della solidarietà vi sono i suoi opposti: distanza, espulsione, differenze e confini. Nella solidarietà si alimenta una cecità selettiva: questo meccanismo contrappone la nostra vita comune con l'indifferenza e l'insensibilità verso l'altro. È come se ci fosse un prezzo da pagare per il nostro comune vivere insieme, come se non esistesse un modo per convivere tutti in armonia ed una parte della popolazione debba essere per forza espulsa.

[...] la solidarietà [ma] un prezzo. Un prezzo che di solito è pagato da

49

(40)

qualcun altro: il gruppo esterno, il deviante o l'outsider. In questo modo la solidarietà può generare delle ineguaglianze tra quelli che stanno nel cerchio ristretto del “noi” e quelli che sono al di fuori dei legami di appartenenza. Socialità significa sempre anche distanza ed esclusione. Essa crea differenze, traccia confini e rafforza divisioni.50

1.2.2.Emozione politica

La creazione di atrocità collettive è messa in pratica per raggiungere l'affermazione delle proprie ideologie politiche attraverso l'utilizzo di emozioni costruite politicamente e culturalmente.

Come possiamo notare dagli avvenimenti del XX secolo, le emozioni politiche hanno giocato un ruolo strategico nella costruzione del nemico, nelle pulizie etniche o per far scoppiare una guerra. Françoise Sironi riporta l'esempio di Miloševic, che in un discorso tenuto a Sarajevo rispolverò una ferita collettiva risalente al 1389, anno della sconfitta subita nella battaglia di Campo Merli, contro gli ottomani. Egli riattualizzò questo evento passato per trasformarlo in una emozione politica: quest'ultima riaccese la vendetta e causò lo scoppio della guerra.

Il ruolo che assume l'emozione politica sugli individui è di forte impatto poiché coinvolge la psiche di essi.

Prendiamo per esempio Slobodan Milošević che […] riattualizzò una ferita della storia collettiva serba […]. Milošević strumentalizzò un

50

(41)

ricordo collettivo per trasformarlo e incarnarlo in un'emozione politica.51

Sironi definisce un'emozione politica come una sensazione che coinvolge l'individuo e l'intera società attraverso meccanismi politici e sociali, come ad esempio ideologie, guerre che instaurano idee e pensieri ben definiti nella società spesso all'insaputa di molti.

Chiamo emozione politica un'emozione scatenata da una particolare categoria di avvenimenti: quelli legati direttamente al mondo politico (terrorismo, ideologie, guerre e torture..) sociale (conflitti e frattura sociale..), culturale e religioso. Le emozioni politiche nascono dall'articolazione tra storia individuale e storia collettiva. Sono identificabili sia a livello di individuo, sia a livello di intera società. [Esse] segnano il destino individuale e collettivo, spesso all'insaputa degli interessati.52

Le emozioni politiche agiscono sugli individui e sulla società e attraverso esse vengono vincolate relazioni sociali e rapporti di potere. Con le emozioni politiche si possono manipolare le popolazioni ed indurle al conflitto. Esse sono indotte dall'ambiente sociale e dalla politica. Per la riattualizzazione della guerra un politico si serve di ingiustizie, inganni e menzogne per generare nelle masse un sentimento di odio verso le minoranze da sopprimere. Le ingiustizie normalmente

51

Sironi F., (2007), Violenze collettive. Saggio di psicologia geopolitica clinica, Feltrinelli, Milano 2010, p.23

52

(42)

ritenute illecite sono giustificate durante i conflitti. In questo modo gli Stati sono autorizzati a commettere atti contro l'umanità, che le singole persone non potrebbero commettere.

Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero l'individuo singolo. Si serve contro il nemico non solo di legittima astuzia, ma anche della […] menzogna e dell'inganno […].53

L'odio, la discriminazione costituiscono un potente collante sociale. Le ideologie che si nutrono di fantasia hanno alla loro base emozioni primordiali: amo e difendo ciò che mi somiglia, mentre attacco ed odio l'oggetto che mi minaccia. L'emozione politica viene strumentalizzata dai gruppi dirigenti per impedire che l'aggressività si riversi sul potere e lo minacci. Per questo motivo è essenziale la costruzione di un capro espiatorio, sul quale riversare tutta l'aggressività e convergere ogni colpa.

[…] gruppi dirigenti di un determinato paese possono avere interesse ad utilizzare la naturale aggressività verso gruppi minoritari […] coinvogliando verso questi, tutti i risentimenti che possono esistere nella popolazione, impediscono che tali risentimenti si svolgano verso la stessa classe dirigente, minacciando il potere.54

53

Freud S., Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, cit., p.127

54

(43)

L'espulsione dell'altro dalla società viene costruita sulla base dell'odio politico. Nel pensiero di Nahoum-Grappe, esso non è “l'odio tragico della prossimità”, nel quale il soggetto odiato è fortemente e precisamente individuato, ma è un sentimento privo di oggetto su cui scagliarsi, non si individua un oggetto preciso da odiare. Nel caso in cui l'odio designa una collettività, identifica in essa l'elemento d'espulsione comune.

L'odio politico costruito artificialmente non è l'odio tragico della prossimità, il cui oggetto è una persona fortemente individualizzata […] al contrario l'odio politico è privo di oggetto, o è pieno di oggetti eterogenei […]. Ma quando tale odio designa una collettività deve necessariamente identificare quest'ultima come soggetto, con un carattere “odioso” in comune.55

Attraverso la costruzione delle emozioni politiche e dell'odio sociale, la classe dirigente trae la sua energia. Essa è necessaria per instaurare negli individui la condivisione che le azioni malvagie commesse sono concretamente fondamentali per la società. Senza tale costruzione le atrocità collettive sarebbero inimmaginabili.

La costruzione sociale dell'odio è la fonte di energia senza la quale le azioni di crudeltà sarebbero impensabili.56

55

Nahoum-Grappe V., (1991-1995), L'uso politico della crudeltà: l'epurazione etnica in ex-Iugoslavia, in Hériter, Sulla violenza, cit., p.217-218

56

(44)

Le emozioni politiche sono create culturalmente e possono essere strumentalizzate da un dirigente politico per i fini che gli sono più utili. Esse possono essere facilmente strumentalizzate dal politico o da una istituzione.

Esse possono essere fabbricate intenzionalmente e possono essere facilmente mobilitate e strumentalizzate da qualsiasi sistema o uomo politico per fini particolari.57

Le atrocità collettive non costituiscono, nel pensiero di Zamperini, la manifestazione improvvisa di pulsioni distruttive. Esse si possono inscrivere in azioni estremamente pianificate da gruppi politici. Queste violenze sono collocabili in precisi assetti di potere che si scagliano verso innocenti, che non meritano simili atrocità. Solo nel pensiero dei carnefici ed in quello dei loro sostenitori il gruppo target è meritevole delle loro azioni atroci.

Le atrocità collettive non sono allora la manifestazione improvvisa di pulsioni distruttive, bensì azioni pianificate e sistematiche, collocabili in specifici assetti di potere. Generalmente il gruppo target non ha fatto nulla per giustificare gli atti di crudeltà nei suoi confronti. Solo nella mente dei carnefici e nella loro propaganda tale gruppo merita la sofferenza che gli viene inflitta.58

Quando viene politicizzata un'emozione, non può che provocare forme estreme di

57

Sironi F., Violenze collettive, cit., p.23

58

(45)

crudeltà. Essa costruisce con la vendetta la forma di autodifesa necessaria per la sopravvivenza della comunità. La violenza viene reinterpretata come punizione legittimata nella quale sono date le basi per il massacro.

Quando simile propaganda chiama al massacro del genocidio non può che provocare forme estreme di crudeltà […] fa della vendetta la sua prima molla […] perché presenta la vendetta come un'autodifesa necessaria. […] Il richiamo alla vendetta immediata […] unito a quello dell'autodifesa hanno creato le condizioni di una crudeltà gratuita che si aggiunge come punizione all'atto di uccidere.59

Tramite la riattualizzazione di emozioni politiche si può generare negli individui il sentimento della vendetta, per la sconfitta subita. Così facendo si possono riattivare delle emozioni che erano state dimenticate attraverso una reazione tardiva. Viene installato nel cittadino il “dovere” di rivalsa, per riscattare le sconfitte subite in passato.

[Gli avvenimenti traumatici possono diventare] il veleno che

alimenterà un odio tardivo, basato sul rancore e sul “dovere” della vendetta. Questo meccanismo può essere strumentalizzato dai dirigenti politici di quella comunità culturale o nazionale.60

L'odio rivolto verso le minoranze non è costruito su profonde differenze etniche

59

Vidal C., Il suicidio dei Ruandesi tutsi: crudeltà voluta e logiche di odio, cit. p.250

60

(46)

tra il gruppo “dominante” e il gruppo “emarginato”. Le caratteristiche dell'altro sono estremizzate per accendere l'odio verso una parte dei cittadini.

È importante sottolineare come la violenza interetica non dipenda da profonde dissomiglianze tra un popolo ed un altro, ma anzi venga eccentuato quando le differenze sono minime. Bowen, infatti, spiega come nei paesi con maggiori differenze etniche gli scontri e le avversità sono meno frequenti rispetto a quelle popolazioni con minori dissomiglianze.

[…] le diversità etniche più profonde non sono associate a conflitti interetici di grande rilievo. Alcuni degli Stati più etnicamente differenziati al mondo […] hanno conosciuto solo minimamente la violenza interetnica, mentre in paesi con differenze assai lievi di lingua o cultura […] si sono verificati i conflitti più cruenti.61

Bisogna cercare di capire le motivazioni in cui certi meccanismi vengono originati nelle società. Essi vengono diffusi facilmente e assumono l'aspetto di un fenomeno normale, nel quale ciò che avviene non genera sorpresa o indignazione. Pécaut afferma ciò in relazione al caso colombiano, chiedendosi perché una volta accesa la miccia dell'odio interetnico, essa abbia così ampia diffusione.

Di fatto il problema è spiegare perché nel caso della Colombia, la violenza una volta messa in moto si diffonda così facilmente attraverso tutta la società e le istituzioni, confonda i riferimenti

61

Bowen J.R. , (1996), Il mito del conflitto etnico globale, in Dei F., (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma 2005 p.137

(47)

stabiliti, metta in scena un immaginario e, infine, assuma l'aspetto di un fenomeno “normale” che può perpetrarsi senza suscitare sorpresa o indignazione.62

L'odio etnico gli scopi di natura economica e i metodi manipolatori sembrerebbero far credere che i suoi metodi manipolatori ed i suoi scopi siano irrazionali, al contrario essi sono altamente razionali. Esso apporta motivazioni alle azioni discriminatorie che vengono applicate tra cui l'impossibilità della convivenza e fa credere nell'inevitabilità della pulizia etnica. quest'ultimo soddisfa inoltre nei cittadini la necessità di spiegazioni banali per le azioni discriminatorie commesse.

Innanzitutto [il mito dell'odio etnico] fa credere all'irrazionalità di uno scontro i cui scopi (economici) e i cui metodi (di manipolazione) sono invece assolutamente razionali [...] in secondo luogo fornisce la

base teorica all'impossibilità della convivenza e dunque

dell'inevitabilità della pulizia etnica; in terzo luogo soddisfa in pieno il bisogno di spiegazioni banali.63

L'odio etnico è la conseguenza e non la causa di alcune azioni. Esso è generato per sopperire a problemi di altra natura, politici, economici e sociali. Per questo motivo, nel pensiero di Zamperini, l'odio etnico non esiste naturalmente, ma esso è generato e manipolato. È un sentimento creato per colmare altri tipi di problemi,

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Pécaut D., Riflessioni sulla violenza in Colombia, cit., p.159

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