4) Sviluppo di un piano operativo
4.3.1 L’evoluzione del concetto di “impresa sociale” e il fenomeno dell’ibridazione
Come è già stato detto nel capitolo 2, è in corso la cosiddetta “ibridazione”, ovvero un assottigliamento dei confini tradizionali tra profit e nonprofit. Tale fenomeno si spiega essenzialmente con la maggiore sensibilità, da parte di cittadini, imprese e policy-makers, nei confronti delle tematiche sociali, ambientali ed etiche. Inoltre, l’attenzione alla generazione di impatti sociali misurabili, sia da parte di governi che decidano di esternalizzare determinati servizi di welfare, che da parte dei soggetti che forniscono le risorse finanziarie per la realizzazione dei progetti, ha prodotto un cambio di prospettiva. Non basta la qualifica di “impresa sociale” come garanzia del conseguimento dei maggiori benefici possibili per la collettività (o per parti di essa), ma occorre invece fare riferimento ai cambiamenti effettivi causati dall’intervento, indipendentemente dalla veste giuridica assunta dall’organizzazione che lo abbia intrapreso. L’ibridazione può avere luogo sia perché imprese tradizionali decidono di dedicarsi anche ad attività di natura sociale, che a seguito dell’adozione di forme operative più aperte al mercato da parte delle organizzazioni sociali. Di particolare interesse, riguardo alla prima ipotesi, è il concetto di “shared value”, elaborato da Porter e Kramer nell’articolo “Creating shared value”, pubblicato sul numero di gennaio-febbraio 2011 di Harvard Business Review (Porter, Kramer, 2011:4-15). L’analisi degli autori parte dalla constatazione del fatto che la competitività di un’azienda è strettamente legata allo stato di salute della comunità di riferimento. Questa connessione è stata spesso trascurata dagli attori delle economie moderne, sia pubblici che privati. I primi, seguendo la visione secondo cui il progresso sociale costituisce un vincolo alla crescita economica, hanno legittimato l’organizzazione dell’economia secondo la dicotomia profit-nonprofit, imponendo regolamenti, imposte e sanzioni per far ricadere sulle imprese i costi delle esternalità generate nello svolgimento dell’attività economica, e attivandosi per redistribuire ex-post la ricchezza creata. I secondi, concentrati sulla massimizzazione del profitto e su obiettivi prevalentemente a breve termine, hanno trascurato fattori che determinano il successo di un’impresa nel medio-lungo periodo, e non si sono accorti delle reali e più profonde esigenze dei consumatori e della società nel suo complesso. La competizione economica basata su questi presupposti non ha portato benefici alle comunità di riferimento, che anzi, specialmente nel caso di grandi imprese integrate verticalmente (e quindi poco legate al territorio), hanno a volte subito le conseguenze negative dei fenomeni di ri-localizzazione e di riduzione del personale. La mancanza di una visione strategica a lungo termine da parte delle imprese tradizionali ha impedito loro di cogliere i bisogni sociali fondamentali e di comprendere fino a che punto le problematiche della collettività influiscano sulla catena del valore, generando costi aggiuntivi. L’approccio dello shared value propone di identificare ed espandere le connessioni tra il progresso sociale e quello economico, individuando modalità di creazione di valore economico che riescano, allo stesso tempo, a generare valore per la società nel suo insieme, offrendo una risposta ai bisogni della comunità in cui si opera (Porter, Kramer, 2011:4,6). Il valore non coincide con i benefici prodotti, ma è definito come il rapporto benefici-costi. La prospettiva dello shared value non crea necessariamente oneri aggiuntivi: anzi, lo stimolo ad innovare che ne deriva può tradursi in un incremento della produttività e nell’espansione
106 dei mercati serviti. La creazione di valore condiviso può avvenire secondo tre modalità: la riprogettazione dei prodotti e la re-identificazione dei mercati; la ridefinizione della produttività nella catena del valore; la creazione di cluster locali (Porter, Kramer, 2011:7). La prima modalità deve fare leva sulle abilità di marketing delle imprese per offrire risposte alle esigenze insoddisfatte della comunità di riferimento, ovvero fare quella che si definisce “innovazione sociale”. La prospettiva del valore condiviso applicata alla catena del valore conduce alla presa di coscienza che la sinergia tra progresso sociale ed incremento della produttività è molto più intensa di quanto generalmente si creda, in particolare se l’impresa adotta modalità innovative per rispondere ai problemi della collettività. Le aree in cui l’approccio dello shared value sta trasformando la catena del valore sono: logistica e consumo energetico; utilizzo delle risorse; l’approvvigionamento presso i fornitori; la distribuzione; la produttività dei lavoratori (Porter, Kramer, 2011:7). La generazione di valore condiviso è, per la sua stessa natura, dipendente dal rapporto dell’impresa con il “cluster” di riferimento; con il termine “cluster” vengono comprese non solo le altre aziende con cui può nascere una collaborazione, ma anche le istituzioni e le infrastrutture del territorio, le normative, la trasparenza del mercato. L’azione dell’impresa deve mirare ad individuare le aree di malessere della comunità ed a intervenire collaborando, quando necessario, con gli altri attori della società (imprese, istituzioni, terzo settore): è sfruttando le sinergie derivanti da questa cooperazione che le opportunità offerte dall’approccio dello shared value saranno maggiori. Sebbene si sia fino ad ora trattato della creazione di valore condiviso da parte delle imprese for profit, la teoria dello shared value si applica ovviamente anche a terzo settore ed imprese sociali. Queste organizzazioni dovrebbero, secondo gli autori, misurare il successo delle attività svolte in base alla capacità di creare valore condiviso, e non solo benefici sociali (si ricordi che il concetto di shared value riguarda il rapporto benefici-costi). Infatti, il passaggio dall’idea (in una certa misura accettata dal volontariato tradizionale) secondo cui determinati avanzamenti sociali debbano essere perseguiti ad ogni costo, a quella che punta invece a massimizzare il rapporto benefici-costi, porta ad un miglioramento dell’efficienza degli interventi. In sintesi, l’idea della generazione di valore condiviso è strettamente legata al concetto di “ibridazione”: dal punto di vista della società, non è importante quale tipo di soggetto (pubblico, privato for profit o nonprofit) contribuisca alla creazione dello shared value, ma conta che i benefici provengano dalle organizzazioni (o dalle combinazioni di organizzazioni) meglio posizionate per ottenere il maggior impatto al minor costo (Porter, Kramer, 2011:12). Una linea di pensiero analoga, ma riferita al contesto italiano, è stata espressa da Maiolini, Rullani e Versari nell’articolo “Rendere sociali le imprese. Impatto sociale, confini dell’impresa e rete di stakeholder” (Maiolini, Rullani, Versari 2015). Nel paper, muovendo dalla constatazione del numero molto limitato di adesioni alla qualifica legale di “impresa sociale”, si afferma che il concetto di “impresa sociale” è in realtà molto più ampio rispetto alle definizione di legge. Per delimitare tale ambito occorre, secondo gli autori, comprendere il fattore determinante che è alla base dei processi di generazione dell’impatto sociale, anche in presenza di attori estranei al campo del terzo settore; gli autori lo individuano nella mobilitazione di un vasto network di stakeholder. La nuova concettualizzazione dell’imprenditoria sociale dovrà dunque fare riferimento sia al conseguimento di risultati sociali, che alla rete di collaborazioni messe in campo dall’organizzazione. Di conseguenza, il valore sociale è riconosciuto dagli utenti/consumatori e dagli altri stakeholder solo se l’impresa sociale applica la global openness, ovvero la trasparenza lungo tutta la catena del valore, coinvolgendo l’intera filiera. Per la generazione di shared value occorre, in sostanza, una collaborazione tra attori con caratteristiche complementari, che consenta di
107 agire in contemporanea su diversi fronti; tale cooperazione presuppone una maggior permeabilità dei confini dei vari soggetti coinvolti (Maiolini, Rullani, Versari 2015). La complessità delle problematiche sociali da affrontare richiederà sempre più spesso partnership tra forme organizzative eterogenee; a tal proposito, dall’ambito delle scienze naturali è stato mutuato il concetto di cross-fertilization (Corazza 2014:50). La cross fertilization è il risultato dello «scambio di informazioni, azioni, buone pratiche, suggerimenti, consigli, ecc. che incrementa il bagaglio culturale di un’organizzazione a seguito dell’interazione con altre organizzazioni» (Corazza 2014:50). Tale scambio di capitale sociale non implica necessariamente una forma di collaborazione, né tantomeno la creazione congiunta di valore. I risultati possono essere positivi, negativi o neutri. La condivisione di informazioni deve invece necessariamente avere un impatto su tutti i soggetti che vi prendano parte; affinché ciò avvenga, va prevista una fase di analisi e rielaborazione delle esperienze accumulate. Come si nota, l’evoluzione dei bisogni sociali e delle modalità di risposta agli stessi ha prodotto: un assottigliamento delle linee di demarcazione tra le diverse forme organizzative; la necessità di una cooperazione sempre più stretta; la condivisione delle esperienze e delle best practices originate da soggetti con peculiarità diverse, la quale a sua volta può contribuire alla “commistione tra generi” che sta avvenendo nell’ambito del business sociale. Il fenomeno dell’ibridazione è strettamente connesso all’innovazione sociale ed alla transizione verso il welfare inclusivo. Infatti, le imprese ibride, che coniugano all’interno del loro modello di business il conseguimento di obiettivi economici e sociali, sono per loro stessa natura interpreti di processi di innovazione sociale, attraverso cui mirano a ridefinire i mezzi e i fini dell’azione in senso più cooperativo (Venturi, Zandonai 2016). Si parla, a tal proposito, di innovazione “sistemica”, intendendo un insieme di cambiamenti interconnessi che si influenzano tra loro, riguardanti l’offerta di servizi ed i destinatari, i modelli di governance, organizzativi e di finanziamento (Venturi in Social Impact Investment Task Force 2014e:225). Negli ultimi anni sono state sviluppate diverse forme giuridiche per regolare le hybrid organizations, come le Community Interest Company (CIC) in Gran Bretagna o le Low Limited Liabilities Company (L3C) e le Benefit Corporation negli Stati Uniti, a riprova del crescente interesse, da parte dei soggetti economici, ad assetti organizzativi che consentano il perseguimento anche di obiettivi sociali. La forma della Benefit Corporation è stata introdotta nell’ordinamento italiano attraverso la legge di stabilità per il 2016, con un emendamento a nome del senatore del Partito Democratico Mauro Del Barba. Si tratta di società il cui statuto contiene l’impegno a realizzare uno o più scopi sociali o di pubblica utilità, tra cui possono rientrare le riduzioni delle esternalità negative. La differenza nei confronti delle imprese sociali consiste nel fatto che, per queste ultime, la realizzazione di obiettivi sociali costituisce l’attività stessa dell’organizzazione, e non uno scopo secondario. Tuttavia, le benefit corporation e le imprese sociali potrebbero trovarsi ad operare negli stessi ambiti, ed entrare quindi in competizione: basti pensare alle oltre 61000 imprese for profit attive in settori sociali. Se si vuole evitare che le imprese sociali fatichino a reggere la concorrenza, e di conseguenza perdano l’occasione di diventare attori chiave nel processo di evoluzione del welfare in senso preventivo ed inclusivo, appare inevitabile ripensare al concetto stesso di “impresa sociale”, in modo tale da consentire maggiore libertà di movimento, mantenendo comunque le caratteristiche distintive che contraddistinguono tale forma giuridica. Sembra essere questa la considerazione che ha guidato l’elaborazione della riforma dell’impresa sociale del 2016, che punta ad aprire nuovi ambiti di attività, accrescere l’interesse degli investitori e superare alcune delle rigidità gestionali.
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