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Verso un welfare abilitante: nuove tecnologie e prevenzione dei bisogn

4) Sviluppo di un piano operativo

4.2.2 Verso un welfare abilitante: nuove tecnologie e prevenzione dei bisogn

Si è già trattato nel capitolo 2 dei limiti della concezione statalista del welfare, che tende a sottostimare l’idoneità dei corpi civili della società a produrre servizi pubblici, e della ridotta capacità da parte del settore pubblico di sostenere l’occupazione e di contrastare le disuguaglianze sociali, diventata evidente a causa della recente crisi finanziaria. Gli interventi posti in essere in applicazione della visione statalista hanno seguito una logica “risarcitoria”, che genera dipendenza e passività e quindi non riduce l’emarginazione sociale, ma rischia addirittura di aumentarla (Cardellini 2014). La critica “neocon” a tale approccio si fonda su due obiezioni: sul piano economico, evidenzia il fatto che gli aumenti di spesa sociale richiedano un incremento del prelievo fiscale, a danno della crescita economica; sul piano morale, disapprova la deresponsabilizzazione dei beneficiari passivi degli interventi redistributivi e risarcitori (Carboni 2012). Questa doppia critica, in diversi stati dell’Europa continentale e nei paesi scandinavi, ha spinto alla riduzione del peso dell’intervento pubblico e ad una sua ricalibratura in senso preventivo piuttosto che curativo; ciò è avvenuto attraverso l’allargamento dei servizi alle famiglie e lo sviluppo delle politiche sociali attive. In Italia questo processo non si è verificato, a causa della piega spesso assistenziale e clientelare assunta dal nostro sistema di welfare e delle varie resistenze di natura corporativistica e campanilistica (Carboni 2012). Le politiche di austerity poste in atto per affrontare la recente crisi dei debiti sovrani europei hanno messo in particolare difficoltà i welfare dei paesi mediterranei, contraddistinti da politiche sociali piuttosto deboli e da società sempre meno coese e più disuguali. La transizione a un modello di welfare preventivo è più complessa per questi sistemi, caratterizzati da una quota ancora limitata di spesa pubblica destinata ai servizi sociali. Oltre ad una decisa ridefinizione della modalità di intervento del settore pubblico nei settori di welfare, sono necessari un maggiore sforzo nel contrasto alla corruzione e all’evasione fiscale, e un superamento delle politiche di austerità (Ascoli 2014:6). L’approccio che mette in relazione il benessere degli individui con le loro capacità anzichè con il reddito, che sta alla base dell’idea di welfare abilitante, è stato elaborato dal premio Nobel Amartya Sen. Nell’opera “Development as freedom” (Sen 2000), è riassunto il pensiero di Sen riguardo al benessere ed allo sviluppo. Rispetto al benessere, i concetti che stanno alla base della visione dell’economista indiano sono i “functionings” e le “capabilities”. I “functionings” attengono al raggiungimento di condizioni di vita dignitose, non bastando il livello minimo essenziale che garantisce la sopravvivenza, ma occorrendo invece il riconoscimento di una serie di diritti in ambito sociale, culturale e politico, che rendano l’esistenza umana decorosa e soddisfacente. Le “capabilities” sono le capacità di ogni individuo di realizzare i “functionings”, ovvero la libertà sostanziale di vivere secondo le proprie aspirazioni ed i propri valori; in questo senso, le “capabilities” sono sia libertà di essere che libertà di fare. Come si nota, l’attenzione di Sen non è posta sul conseguimento di risultati uguali per tutti, ma sulle possibilità e sulle opportunità di partenza che a ciascuno devono essere riconosciute. Lo sviluppo si lega alla

100 concezione delle “capabilities to function” in quanto, secondo Sen, è «un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani» (Sen 2000:8) (di converso, la povertà è mancanza di capacità). Il grado di sviluppo consiste dunque nel grado di possibilità di realizzazione concreta delle scelte degli individui. Due sono le novità evidenti rispetto alla tradizionale identificazione dello sviluppo nel benessere economico: da un lato, la multidimensionalità del concetto; dall’altro, il focus sull’empowerment delle persone, che devono essere messe in grado di soddisfare da sé le proprie necessità ed aspirazioni. Il pensiero di Sen ha avuto notevole influsso anche sulle autorità politiche, tanto che l’Unione Europea, nel Consiglio di Lisbona del 2000, si è impegnata a promuovere la transizione verso un welfare abilitante. Il welfare abilitante, o inclusivo, o preventivo, consiste nella concezione del modello di fornitura dei servizi pubblici come “investimento sociale” piuttosto che come assistenza passiva (Cardellini 2014). Il destinatario delle prestazioni diventa un interprete attivo nel processo, partecipando al raggiungimento del proprio benessere (e di quello della collettività) e, di conseguenza, divenendone responsabile in prima persona. L’inclusione è raggiunta attraverso politiche di attivazione mirate a redistribuire le possibilità di realizzazione (piuttosto che le risorse, come avviene nella prospettiva del welfare tradizionale), e tramite la rimozione delle barriere che limitano la conduzione di una vita autonoma (non assistita) e decorosa da parte degli individui (Ascoli 2014:2). Va detto che l’approccio abilitante al welfare, ammettendo conseguimenti diversi per i diversi individui (a parità di opportunità di partenza), non può però giustificare disuguaglianze territoriali di trattamento in quegli ambiti in cui il ruolo delle istituzioni nel consentire l’esercizio delle capabilities risulta determinante (Busillacchi 2008). Il rischio di trovarsi in situazioni di difficoltà non viene eliminato, ma si forniscono ai soggetti colpiti le capacità necessarie ad affrontarlo. Lo Stato, per assolvere a questo compito, deve collaborare con i corpi civili e le comunità locali, secondo la già citata idea dell’empowerment dei membri della collettività. Il welfare preventivo, visto come investimento e non come costo, diviene un elemento di competitività per i paesi che riescono a realizzarlo, e non un vincolo alla stessa. L’obiettivo del welfare inclusivo va oltre il tradizionale concetto di sicurezza sociale in quanto, per mettere gli individui nella condizione di essere autonomi, occorre tutto un insieme di politiche sociali, più complesse da gestire rispetto alle semplici erogazioni monetarie ai soggetti in difficoltà. L’approccio del welfare abilitante si traduce in concreto nell’adozione di politiche sociali proattive, nella collaborazione con le organizzazioni della società civile e nell’eliminazione dell’assistenzialismo inutile, che spesso diventa fonte di spreco di risorse (se non addirittura di clientelismo) (Carboni 2012). Le politiche sociali riguardano:

- le politiche attive di inserimento; - il reddito minimo garantito: - le politiche per la famiglia. Politiche attive di inserimento

Le politiche attive di inserimento consistono nell’investimento in capitale umano, attraverso la partecipazione delle persone alla ricerca di un lavoro a percorsi formativi ed occupazionali, che consentano loro di raggiungere l’autonomia a lungo termine; tali misure si dimostrano più efficaci e meno dispendiose rispetto a politiche passive di trasferimento monetario. Nella fase che il capitalismo sta attraversando, quella dell’economia della conoscenza, la disoccupazione si lega infatti alla mancanza di competenze adeguate. L’investimento in formazione, destinato ad avere ritorni sul medio-lungo periodo, punta al

101 reinserimento nel mercato del lavoro di soggetti esclusi, ottenendo quindi anche un risparmio in termini di risorse destinate alla protezione sociale.

Reddito minimo garantito

Il riconoscimento a tutti gli individui di un reddito minimo deve subordinare i trasferimenti alla prova della effettiva necessità dei beneficiari. Le politiche di reddito minimo, associate agli ammortizzatori sociali, liberando i soggetti disoccupati o inoccupati dalla condizione di povertà, consentono loro di scegliere in piena libertà i progetti formativi e/o occupazionali da intraprendere e di realizzarli con maggiore tranquillità, potendo quindi programmare percorsi anche ampi ed estesi. La flessibilità del mercato del lavoro si traduce in questo modo in libertà di scelta, piuttosto che in precarietà (Busillacchi 2008).

Politiche per la famiglia

L’obiettivo di rendere autonomo ogni singolo individuo costituisce la risposta alla perdita del ruolo di ammortizzatore sociale che tradizionalmente la famiglia svolgeva. Ciò, tuttavia, non significa affatto voler ridurre le politiche a favore delle famiglie, ovvero l’offerta di tutti quei servizi che consentano la conciliazione dell’attività lavorativa con quella di cura dei minori. Si noti che, in ogni caso, questo genere di misure promuovono l’autonomia dei singoli, piuttosto che la coesione del nucleo familiare nel suo insieme, in quanto non si preoccupano di garantire l’equità della distribuzione delle risorse tra i membri della famiglia (Busillacchi 2008).

Il welfare inclusivo, per sfruttare al meglio le potenzialità derivanti dalla cooperazione con la società civile organizzata e le imprese private, deve svolgere il ruolo di “catalizzatore di innovazione sociale” (Cardellini 2014). L’innovazione sociale dal basso può risultare fondamentale in diversi ambiti (un esempio è quello della gestione dei beni collettivi) ma, per realizzarsi, ha bisogno di un contesto favorevole, dato appunto dalla riforma dei sistemi di protezione sociale in senso preventivo e dal coinvolgimento effettivo delle organizzazioni sociali, dalle quali scaturiscono le soluzioni innovative ai bisogni in evoluzione della cittadinanza. Un ambito promettente in cui l’innovazione sociale può contribuire a rinnovare gli schemi di protezione sociale è quello della sharing economy: le piattaforme di condivisione «riescono a rendere accessibili servizi che – in modo diretto o indiretto – migliorano la qualità della vita e la coesione sociale […] a utenti che vivono situazioni di disagio a causa di malattia, disabilità, esclusione sociale ecc.» (Venturi 2015). Concentrando la nostra attenzione alla situazione italiana, cui si è già accennato, va detto che, rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, è ancora piuttosto lontana dal modello di welfare preventivo. Infatti, non si è proceduto in misura rilevante né alla conversione della spesa secondo la prospettiva del social investment, né alla proposta di modalità innovative di risposta ai bisogni sociali. I due terzi della spesa pubblica sono ancora destinati a pensioni e sanità, mentre l’investimento nelle politiche sociali risulta marginale; inoltre non esiste il reddito minimo garantito e nemmeno il sostegno al reddito nei confronti di chi cerca il primo impiego. Le criticità sono più evidenti nei settori dell’edilizia sociale, dei servizi per la prima infanzia e in quelli per la non autosufficienza, delle cure a lungo termine per le persone anziane non autosufficienti (Fondazione Zancan 2013:6). Questi buchi del sistema di protezione sociale necessitano urgentemente di soluzioni, che potrebbero trovare risposta (almeno in parte) grazie all’azione della finanza ad impatto sociale; interessante, a tal proposito è la considerazione della Social Impact Investment

102 Task Force italiana, secondo cui «il gap tra finanza pubblica e bisogni, anche in proiezione futura, non va fatto coincidere, sic et simpliciter, con il mercato potenziale per l’impact finance, ma rappresenta invece la quantificazione dei miglioramenti di efficienza ed efficacia che la nuova imprenditorialità sociale, sostenuta da capitali della finanza ad impatto sociale, è chiamata a realizzare» (Social Impact Investment Task Force 2014c:30); tale divario è stimato, dalla stessa Task Force, per il periodo 2014-2020, in circa 150 miliardi di euro (Social Impact Investment Task Force 2014c:32).