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eziologicamente ateoretico, il tentativo di eliminare la soggettività della diagnosi

Da questa profonda crisi epistemologica, non solo della categoria della pericolosità ma dell'intero sapere psichiatrico, consegue il superamento della vecchia nosografia psichiatrica con la nascita del

DSM, (147) un nuovo apparato diagnostico, induttivo per eccellenza, che per Canepa, "nasce

dall'esperienza descrittiva del quotidiano operare", (148) che costituisce il nuovo modello

linguistico-decodificatorio comune in cui la causa della malattia psichica viene ridotta a "rumore di fondo". Anche la giurisprudenza, attribuisce (riconosce) ampio credito al sistema di classificazione categoriale del manuale diagnostico statistico.

Le Sezioni Unite della Cassazione nella decisiva sentenza "Raso" (8.3.2005 n.9163) sanciscono definitivamente che i disturbi della personalità sono cause idonee ad escludere o limitare l'imputabilità. In tale sentenza si afferma che il DSM rappresenta "una forma di linguaggio che deve trovare il più ampio consenso onde, raggiunta la massima diffusione, consenta la massima comprensione". In tale contesto, i più accreditati sistemi di classificazione (ad esempio, il DSM - IV, o l'ICPC o l'ICD - 10) dovrebbero assumere il valore di parametri di riferimento aperto, in grado di comporre le divergenti teorie interpretative della malattia mentale e fungere, quindi, da contenitori unici.

Pur ricordando come il DSM sia stato sottoposto a numerose critiche da parte della comunità scientifica conclude:

però, anche la dottrina psichiatrico-forense appare concordare, ormai, sulla circostanza, che, essendo questo il sistema diagnostico più diffuso, ad esso occorra fare riferimento

per la riconducibilità classificatoria del disturbo; (149) e, per altro verso, nessun dubbio - come pure si riconosce in dottrina - dovrebbe oggi permanere sulla circostanza che anche ai disturbi della personalità possa essere riconosciuta la natura di "infermità", e quindi una loro potenziale attitudine ad incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente, alla stregua delle ultime e generalmente condivise acquisizioni del sapere

psichiatrico, anche sussunte nella ricognizione nosografica contenuta nel citato DSM. Vero è, poi, che tale catalogazione si fonda su basi sindromiche e non eziologiche, ma (così proponendosi un modello classificatorio di natura sostanzialmente pragmatica, verso il quale, per vero, appare condivisibilmente orientata la attuale scienza psichiatrica), per un verso (come ancora si annota in dottrina), è presente nella psichiatria forense "un

consenso quasi unanime circa la improponibilità oggi di una spiegazione monoeziologica della malattia mentale" o, per altro verso, è ricorrente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, come si è visto, l'affermazione che rilevino al riguardo anche "disturbi clinicamente non definibili che tuttavia abbiano inciso significativamente sul funzionamento dei meccanismi intellettivi o volitivi del soggetto". La non definibilità clinica del disturbo può anche derivare dalla (o comportare la) non accertabilità eziologica dello stesso, in un campo poi, quello della mente umana, ancora avvolto da cospicue connotazioni di "dubbio e mistero" e da incoglibile esoterismo patogenetico. E nel campo medico pure si parla di "malattie funzionali": termine usato per indicare le malattie in cui non vi sono segni dimostrabili di alterazioni di organi particolari, sebbene le prestazioni di essi siano ridotte.

Anche il DSM, dunque, così privo di "esoterismo", indifferente alle eziologie, chiaro, lineare, si presta al fine di allargare lo spettro delle categorie giuridiche del difetto di imputabilità, e risulta tanto più utile in quanto presenta anche una sindrome cha ha una natura residuale, che raggruppa i sintomi non

Affinché le diverse scuole psichiatriche arrivino a ritrovare una linea comune si depura la classificazione delle malattie da teorie ed eziologie. Il DSM si presenta esplicitamente come "ateoretico", la sua

presunta ateoreticità viene raggiunta attraverso una impostazione meramente operazionista (151)

secondo la quale il fatto che più clinici possano trovarsi d'accordo in ordine ad una certa diagnosi, derivante dalla natura meramente descrittiva e statistica delle categorie psicopatologiche enucleate nel manuale, aumenterebbe l'attendibilità e quindi la validità scientifica della diagnosi stessa, riducendo la

realtà all'esperienza immediata (concettualizzazione su base statistica). (152)

Il DSM quindi si adagerebbe sulla impostazione epistemica del "funzionalismo operazionistico radicale",

corrispondente al "riduzionismo più estremo", (153) secondo il quale "il significato di un concetto

scientifico consiste unicamente in un determinato insieme di operazioni". Il concetto non è altro che il

sinonimo delle operazioni che lo individuano. (154)

L'unico modello di conoscenza riconosciuto come oggettivo e scientifico viene quindi identificato con le tecniche psicometriche e con il metodo statistico. In altre parole, nonostante si affermi la struttura

"convenzionale" (155) del manuale, esso aderisce in parte all'impostazione epistemologica del

Positivismo logico, del realismo estremo, una impostazione che ammette solo concetti empirici, rilevabili attraverso l'osservazione, l'operazionismo si differenzia tuttavia dal positivismo logico in quanto questo da alle definizioni analitiche ed alla configurazione dei concetti un peso ed un ruolo di

pari importanza rispetto alle proposizioni empiriche, conoscitive (156) mentre l'operazionismo declina

ogni proposizione teorica ai minimi termini, intendendo per concetto solo ed esclusivamente un determinato gruppo di operazioni.

Nel campo scientifico questa impostazione teorica si conforma a quelle che seguono il criterio empirico di "significanza" secondo il quale una proposizione potrà avere un significato solo se sia verificabile

empiricamente. (157) Riconducendo quindi il Manuale ad una gnoseologia puramente fenomenica ed

induttiva, nella convinzione di poter di sfuggire alla "metafisica", all'"esoterismo" della deduzione. (158)

La conoscenza sarà quindi vera se ed in quanto aderente alla realtà e la natura della realtà sarà perfettamente intellegibile attraverso le strutture della conoscenza. Questo tipo di rapporto

consentirebbe quindi di rivendicare nuovamente l'oggettività e la neutralità non solo della conoscenza

ma anche dei metodi per raggiungerla. (159)

L'empirismo realista proprio dell'operazionismo, tuttavia, postula solo descrizioni e predizioni. Le predizioni, consentono di comprendere i fenomeni entro leggi generali (benchè non universali) ed esauriscono ogni possibile spiegazione del settore di mondo oggetto delle operazioni.

Alla luce di queste premesse l'ateoreticità può in casi estremi escludere qualsiasi spiegazione od interpretazione, qualsiasi ermeneutica dei fenomeni: in questo senso si esclude l'episteme della teoria; ma il risultato viene raggiunto eliminando il "soggetto interiore" che costituisce la base della

conoscenza psicologica e che non è definibile attraverso segni o sintomi, ne spiegabile attraverso

quadri analitici da entomologi, obiettivi, neutrali, asettici. (160)

Si inseguono o si presuppongono dei metacriteri idonei a sindacare i criteri di verità della psichiatria o delle scienze umane, non riconoscendo che la psichiatria stessa ha in se non solo componenti descrittive ma anche componenti prescrittive idonee a plasmare e ad etichettare i fenomeni che ne

costituiscono l'oggetto, (161) come invece sostiene l'episteme ermeneutica.

L'ateoreticità dunque mira a raggiungere quello che non le è dato raggiungere: l'oggettività (sotto le spoglie della probabilità o del calcolo del rischio), o quantomeno una solida strutturazione dei processi mentali che è invece propria da sempre dell'attività teoretica e deduttiva, per la quale partendo da determinate premesse si arriverà necessariamente a determinate conclusioni perché esse sono in qualche misura implicite nelle stesse premesse.

Nel DSM la nozione di Disturbo sostituisce ogni vecchia classificazione nosografica. Esso viene definito come l'alterazione dell'adattamento dell'organismo e/o delle sensazioni di benessere.

Nella psicopatologia classica il disturbo, così definito, era privo di una autonoma rilevanza clinica, esso assumeva il valore di sintomo indicatore di una malattia che doveva essere diagnosticata.

(Ad es. era impossibile configurare una malattia come il disturbo da deficit da attenzione in cui la patologia consiste sic et simpliciter in un eccesso di motilità, iperattività, impulsività o disattenzione che

può concretizzarsi in errori di distrazione a scuola o sul lavoro). (162) Declinato nel contesto del

manuale diagnostico statistico, invece, "la nozione di Disturbo rischia per di essere fuorviante perché induce a stabilire, addirittura una relazione di causa e di effetto tra l'attacco di panico ed il disturbo

quasi questo fosse causato da quello, che, invece ne è la specificazione sul piano puramente

descrittivo". (163) Il DSM opera una commistione, quasi una operazione di identificazione tra segni e

malattia, non permessa in alcun altro campo della medicina:

A nessun clinico di medicina generale viene concesso di definire una febbre, una dispnea o una paraparesi come una malattia: si tratta in realtà, di disfunzioni che possono valere come sintomi su cui si dovrà indagare per diagnosticare la causa patogena e l'alterazione

strutturale dell'organismo cioè la reale malattia. (164)

Con il DSM il problema è ormai superato. il manuale, infatti, astrae dal contesto psicopatologico che da origine a dei sintomi, erigendo i sintomi stessi a categorie che alcuni ritengono "pseudonosografiche",

diagnosi cliniche artificiali. (165) E' proprio questo uso distorto ad essere l'indicatore di una precisa

scelta teorico-epistemologica, una scelta che coerentemente all'impostazione dell'operazionismo,

identifica alterazione funzionale con l'essenza della malattia e di conseguenza con la diagnosi. (166)

Inoltre, visto che le categorie diagnostiche sono poste dal DSM sullo stesso piano diventa possibile che

si possano trovare più malattie in uno stesso soggetto (c.d. Comorbilità) (167) D'altra parte è lo stesso

manuale a mettere in guardia da un suo utilizzo troppo disinvolto nelle aule di giustizia. (168)

Quando le categorie, i criteri e le descrizioni del DSM IV vengono utilizzate a fini forensi, sono molti i rischi che le informazioni diagnostiche vengano utilizzate o interpretate in modo scorretto. Questo a causa dell'imperfetto accordo tra le questioni di interesse

fondamentale della legge e le informazioni contenute in una diagnosi clinica. (169)

Ciò non toglie che da più parti si lamenti un meccanico utilizzo di uno strumento che rischia di minare ancora di più la credibilità delle perizie psichiatriche, e dei periti che nel loro voler spiegare qualsiasi comportamento in termini psichiatrici al di fuori di vere malattie o patologizzando ogni comportamento

deviante li trasformi in "una sorta di oracoli di serie B". (170) In ambito forense, l'utilizzo sempre più

massiccio del DSM sia in ambito peritale, sia in ambito penitenziario, ha ridotto l'autore di reato a "un mero oggetto di ricerca di sintomi". Perdendo la dimensione ermeneuticamente complessa, ricca ma

anche consapevole da parte dello psichiatra di pregiudizi e di precomprensioni. (171)

Anche a livello internazionale alcuni autori sottolineano come lo stesso DSM rifletta nelle sue categorie nosografiche il ritorno ad una commistione tra malattia mentale e violenza, tra patologia e pericolosità che deriva però non da connessioni causali (probabilistiche o meno) ma da semplici correlazioni statistiche, che viene ricostruita tuttavia su un modello di fatto causale che pone come cause la malattia mentale e come effetto la violenza e la pericolosità, come nella categoria nosografica del Disturbo

antisociale della personalità. (172)

Un Disturbo che per Fornari rappresenta un tentativo da parte della psichiatria di riappropriarsi di materie sottratte al suo tradizionale controllo, perché la diagnosi di un tale disturbo si riduce alla registrazione di un comportamento deviante ed è quindi priva di significato clinico. Un disturbo di tal genere non farebbe altro che riproporre sotto mentite spoglie le vecchie monomanie, la follia morale. In altri termini non è possibile affermare che mentire, rubare, non andare a scuola, ubriacarsi

ripetutamente, abusare di sostanze stupefacenti, avere spesso rapporti sessuali occasionali siano

sintomi inequivocabili di patologie psichiatriche. (173) Seguendo una simile impostazione la maggior

parte dei delinquenti non potrebbe che essere affetta da un disturbo mentale.

Anche in questo caso proprio l'impostazione ateoretica del DSM riduce ad un rapporto di circolarità il nesso tra violenza e malattia: se si hanno certi comportamenti si è malati e si è malati se si hanno certi comportamenti.

Il DSM non è riuscito poi a raggiungere il suo obiettivo: raggiungere l'affidabilità, eliminare il problema del contrasto delle diagnosi su uno stesso soggetto in tempi diversi.

La classificazione contenuta nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali che fin dal suo esordio tutto cataloga riducendo ogni manifestazione della libertà umana a codici e numeri, anche ciò che non si può altrimenti classificare e specificare ( Disturbo mentale non altrimenti specificato o Disturbo N.A.S.) tende ad ingabbiare e soffocare in una qualche formula diagnostica emozioni azioni atti involontari e impulsi. Sotto altre dizioni ricompaiono anche le malattie della volontà (Disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove a conferma che nozioni e concetti che ritenevamo desueti sono tutt'altro

che morti. (174)

ricomporre - "la crisi dell'attendibilità della nosografia, che tende a rivelarsi sempre più come

dimensione "economica" piuttosto che scientifica" (175) per la sua debolezza sul piano clinico

interpretativo. Il DSM non sarebbe altro che un "modello puramente operativo privo di radici epistemologiche, la cui trasposizione pura e semplice nel mondo del diritto rende problematica la

collaborazione fra scienze giuridiche e scienze empirico-sociali". (176) Per questo il DSM (o l'ICD) non

potrebbero porsi come chiave interpretativa delle categorie penali legate o conseguenti all'infermità,

(177) sebbene la prassi indichi il contrario.