2.3.2) Tre giudici dissenzienti: una conclusione
1) La pericolosità sociale e la Costituzione: la costituzionalizzazione delle misure di sicurezza
La sconfitta del regime fascista e l'affermazione dell'ordinamento democratico non sembrano, in un primo momento, cambiare le sorti del reo folle.
L' art 25 della Costituzione non fece altro che recepire quanto stabilito nel codice Rocco, riservando alle misure di sicurezza una sintetica disciplina. Nettamente distinta da quella delle pene: "Nessuno può essere sottoposto a misura di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge" (art 25, terzo comma). Una distinzione che poggiava sul presupposto (ancora oggi condiviso nel pensiero di parte della dottrina penalistica e costituzionale) che pene e misure di sicurezza avessero fini assolutamente eterogenei: tese alla retribuzione le une, volte alla difesa sociale ed al riadattamento dell'individuo le
altre. (1) Presupposto che si basava (nel caso del trattamento del folle pericoloso) anche sull'assunto,
condiviso in tutto l'occidente, che il manicomio criminale potesse effettivamente curare, anzi che l'unica cura possibile per il malato di mente potesse consistere solo nella segregazione senza che questa potesse essere configurata giuridicamente come una punizione.
Un altra norma costituzionale, però, creerà problemi di coordinamento nuovi, e determinerà una crisi di equilibrio nei rapporti tra pena e misura di sicurezza: è l'art 27 terzo comma.
Questa norma, infatti, detta l'unico fine esplicito cui deve tendere la pena, non ve ne sono altri
cristallizzati in modo così evidente all'interno del testo Costituzionale: "Le pene [...] devono tendere alla rieducazione del condannato". Una disposizione che, in via teorica, avrebbe potuto far venir meno la diversità di funzioni che legittimava la creazione del doppio binario, inducendo a mettere in dubbio la
legittimità di uno spazio residuo di esistenza delle misure di sicurezza detentive. (2)
L'originaria ambiguità dogmatica sulla natura e sui rapporti tra pena e misura di sicurezza, sulla scomposizione funzionale tra prevenzione generale e prevenzione speciale, l'incertezza semantica del concetto di retribuzione, sospeso tra il suo significato etico filosofico di punizione per il male commesso ed il suo significato giuridico di imposizione di un vincolo invalicabile al potere punitivo dello stato sembrano riverberare i loro riflessi sulla Costituzione.
E' comunque indubbio che il Costituente assoggetti anche le misure di sicurezza ai vincoli stabiliti dall'articolo 13, il quale afferma che le restrizioni alla libertà personale sono ammesse solo per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. Si stabilisce, in tal modo, una riserva di giurisdizione: solo il giudice potrà concretamente applicare i provvedimenti che limitano la
libertà personale, dopo un accertamento coperto da precise garanzie processuali, (3) disponendo,
inoltre, una riserva assoluta di legge, che esclude qualsiasi forma di regolamentazione da parte di fonti secondarie e da parte delle leggi regionali, che impedisce il conferimento di un potere troppo ampio al giudice nella determinazione dei casi e dei modi.
Nei "casi" in cui la legge autorizza la restrizione della libertà personale rientrano quindi sia i reati, sia i
presupposti di applicazione delle misure di sicurezza, (4) tra i quali spicca la pericolosità.
Il reato però sembra godere di un trattamento giuridico "privilegiato" da parte del Costituente.
Visto il differente tenore letterale dei due commi dell'art 25 (che al secondo comma stabilisce: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso") ci fu chi ritenne che le misure di sicurezza fossero coperte solo dal principio della riserva di legge ma non dal principio di stretta legalità, dal divieto di analogia, e dal principio di determinatezza che
sembrerebbe ancorato al termine "fatto" e quindi riservato unicamente alla disciplina della pena dall'art. 25 secondo comma, ed anche il principio di irretroattività sembrava essere estraneo alla disciplina della
misura di sicurezza. (5)
Nessun problema destava l'art. 32 che sanciva l'impegno della nascente Repubblica a tutelare la salute come "fondamentale diritto dell'individuo", visto che notoriamente il manicomio non solo era luogo dove si curava, era anche terapia in se stesso, contenzione e cura collimavano perfettamente. Questi
problemi, però, rimasero su un piano puramente astratto per molti anni, gli anni della ricostruzione post bellica imponevano altre priorità.
Inoltre la Corte Costituzionale, unico organo costituzionale che poteva farsi carico del coordinamento di queste norme, incominciò a funzionare solo a partire dal 1956, a causa della forte resistenza da parte della Democrazia Cristiana ad accettare che tra i componenti della Corte potessero entrare esponenti
del PCI considerato un "partito antisistema". (6)
Nei primi anni del suo funzionamento pochissime norme furono considerate in contrasto con la
Costituzione. (7)
Il fatto poi che le forze politiche non provvedessero ad una riforma del codice penale e del codice di procedura penale, al fine di creare un sistema coerente di garanzie, venne a determinare la nota situazione paradossale del perdurare di un codice ad impronta fortemente autoritaria in un sistema
costituzionale democratico. (8)
Anche l'opinione dominante della dottrina era favorevole al sostanziale mantenimento del sistema delle misure di sicurezza, limitandosi a contestare il cumulo della pena e della casa di cura e custodia per i
seminfermi di mente. (9)
La Corte di Cassazione, non senza oscillazioni, aveva affrontato solo il problema della fungibilità. Stabilendo la fungibilità della carcerazione preventiva sofferta sine titulo e la misura di sicurezza detentiva per gli imputabili. Per arrivare a questo risultato affermò, per la prima volta, che pena e
misura di sicurezza erano "sanzioni criminali aventi la stessa natura giurisdizionale". (10)
Tuttavia le misure di sicurezza si configuravano come delle sanzioni criminali del tutto particolari, visto che, in ossequio alla loro originaria struttura amministrativa, rimanevano del tutto svincolate dalle garanzie strettamente penalistiche dettate dalla Costituzione, a partire ovviamente dal primo comma dell'art. 27, condicio sine qua non della punizione, che, seppure negli ordinamenti liberali si pone in un
rapporto di totale sinonimia con la limitazione coattiva della libertà personale, (11) non veniva estesa al
concetto di misura di sicurezza. Una sanzione criminale che, non richiedendo la colpa, ed essendo totalmente preventiva, poteva estendersi oltre il fatto tipico offensivo per abbracciare nel suo campo applicativo fatti che reati non sono, fatti non lesivi di alcun bene giuridico, atti intrinsecamente ed originariamente inidonei a produrre un qualsiasi evento dannoso o pericoloso, in senso assoluto come i
reati impossibili. (12)
Non era ancora maturata l'idea, ora diffusa in parte della dottrina che, per evitare che la funzione di sicurezza si identifichi di fatto con la funzione di polizia, le garanzie debbano essere imposte non tanto dalla funzione della sanzione, dallo scopo che lo Stato si propone nell'esercizio della sua potestà coercitiva, quanto, al contrario, dalla sua concreta natura afflittiva e dalla gravità della compressione dei
diritti di libertà degli individui ad essa sottoposti. (13)
Solo la giurisprudenza di merito, dopo il 1960, incominciò a sollevare questioni di legittimità costituzionale relativamente alle presunzioni di pericolosità previste dall'art. 204 c.p., in virtù di un affermato contrasto con la riserva di giurisdizione stabilita dall'art. 13 della Costituzione. Secondo la magistratura (in particolare la Corte d'appello di Genova), infatti, le presunzioni precludevano
l'accertamento dei presupposti che in concreto dovevano essere valutati per procedere alla restrizione
della libertà personale. (14)
La Corte con la sentenza 19 del 3 marzo 1966, dichiarò l'infondatezza della questione, basando la propria decisione su uno specifico fatto: "la presunzione si risolve nell'utilizzazione delle comuni
esperienze", (15) la comune esperienza, una serie di certezze prese come ovvie, un'esigenza pratica. Negli anni '60 del secolo scorso il connubio tra follia e pericolosità per i giuristi non è più una certezza positivista, né un dato della "miglior scienza ed esperienza", ma una communis opinio, una
rappresentazione irriflessa, talmente condivisa da diventare un criterio operativo dato, questo basta per evitare ogni accertamento. Il fatto che il giudice accerti la sussistenza delle condizioni stabilite dal vecchio codice penale soddisfa il precetto stabilito dall'art. 13 della Costituzione. La riserva di giurisdizione ha, in questo caso, una dimensione esclusivamente nominale, il giudice ha compiti di mera esecuzione di categorie normative prestabilite, senza la possibilità di "approssimarsi ad una
giusta soluzione del caso concreto", (16) senza alcuna possibilità di garanzia per l'imputato. La
pericolosità è ancora una condizione "che non esige particolari accertamenti del giudice". La
presunzione non fa altro che dettare una regola di giudizio vincolante "per garantire un uguaglianza di
trattamento". (17)
Nel 1967 la Corte, invece, verrà ancora chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle presunzioni di pericolosità, per il moltiplicarsi delle ordinanze di rimessione da parte della magistratura, che
lamentavano sempre l'impossibilità per il giudice di poter valutare non solo o non tanto la pericolosità di individuo, ma anche se questi potesse ancora essere considerato folle. Potere che invece veniva accordato ad un organo del potere esecutivo: il Ministro di grazia e giustizia (ordinanze della sezione istruttoria della corte d' Appello di Genova 15 luglio e 16 novembre 1965).
Altre ordinanze lamentavano anche un contrasto degli articoli 204 e 222 c.p. con l'art. 32 Cost., ritenendo che la possibilità, prevista dall'ordinamento, di rinchiudere in un manicomio giudiziario una persona sana di mente al momento dell'esecuzione della misura fosse palesemente contrario al principio del rispetto della persona umana che la norma costituzionale imponeva ai trattamenti sanitari obbligatori, come limite invalicabile. Ma è soprattutto il contrasto con l'art. 27 terzo comma della Costituzione che attira gli strali delle Ordinanze dei giudicia quo. Essi ritengono che tale articolo debba estendersi anche alle misure di sicurezza, visto che sin dalla loro genesi hanno avuto una finalità rieducativa. L'applicazione indiscriminata della misura si tradurrebbe in un trattamento contrario al senso di umanità e contrasterebbe col fine della rieducazione del ricoverato (ordinanza 9 novembre 1965 del giudice istruttore del Tribunale di Siena).
La Corte, invece, non farà che ribadire le proprie posizioni, rinviando alla sua sentenza del 1966. Le presunzioni assolute, poggiano su dati di comune esperienza, che non richiedono particolari
accertamenti giurisdizionali. (18) Anzi l'internamento minimo stabilito dalla legge "si risolve [...] in un
minimo di osservazione sullo stato sanitario del soggetto; quella osservazione che il giudice dovrebbe
disporre prima di escludere la pericolosità, se, nell'ipotesi, egli avesse una discrezionalità". (19) La
Corte arriva ad affermare che "L'art. 32 non ha connessione con l'argomento, perché l'internamento essendo disposto a fine di cura e, prima ancora, di controllo dello stato sanitario del soggetto, non può
essere ritenuto in antitesi all'esigenza di tutela della salute dello stesso" (20). Sembra quasi che la
Corte eluda la questione dell'applicazione del ricovero senza un reale bisogno, ma in realtà sostiene che: "Né è esatto che la misura viene disposta a persona sana; la legge la prescrive sulla base di situazioni emerse durante il processo", per cui l'accertamento processuale del vizio di mente al momento del fatto rende legittime le presunzioni che stabiliscono la sua persistenza al momento della esecuzione dell'internamento ed alla magistratura è impedita qualsiasi valutazione nel merito. La Corte rifiuta anche qualsiasi possibilità di estensione dell'art.27, terzo comma, dal momento che questo "si riferisce solo alla pena" in quanto le misure di sicurezza "ex se tendono ad un risultato che eguaglia
quella rieducazione cui deve tendere la pena", (21) giungendo ad una vera e propria contraddizione
dogmatica e riconfermando la mistificazione ottocentesca secondo la quale il manicomio giudiziario sarebbe ontologicamente rieducativo.
pericolosità follia, la convinzione che le misure si applichino solo a persone malate e quindi pericolose, il ritenere che il periodo minimo di ricovero sia necessario anche ai soli fini di una osservazione, creerà una nuova frattura tra psichiatri e giuristi. Ormai il binomio pericolosità follia sta diventando un dato esclusivamente giuridico. Già negli anni '50 Enrico Altavilla, un giurista che si riconosceva negli
insegnamenti della Scuola positiva, un ricercatore delle cause endogene della criminalità, aveva notato questo mutamento di significato:
I giuristi hanno creato dei folli di maniera, incapaci di essere intimiditi dalla sofferenza della limitazione di libertà ed hanno sancito la più iniqua delle norme che crea stupore negli stranieri: per l'art. 222 c.p., nel caso in cui una persona ricoverata in un manicomio giudiziario debba espiare una pena restrittiva della libertà personale, l'esecuzione di questa è differita fino a che perduri il ricovero in manicomio giudiziario. Bisognerebbe assistere al dramma di sventurati che sono rimasti lungamente in un manicomio
giudiziario, superando i termini stabiliti dalla sentenza, e hanno la ribellione di chi si sente vittima di una ingiustizia, quando sanno che raggiunto il termine fissato dalla sentenza inflitta per la pena debbono ritornare in carcere ... per espiare! Io credo che mai un
legislatore si sia macchiato di una così inutile crudeltà. (22)
Il significato della pericolosità, il significato dell'internamento sembrano mostrarsi sempre più ambigui. Il manicomio criminale rimane sospeso tra una pena ed una cura. Non gli si riconoscono le caratteristiche e le garanzie della prima, mentre si sfaldano progressivamente le basi teoriche che consentono la sua riconducibilità alla seconda. Questo "Giano bifronte" mostra la sua realtà: una scelta di politica
criminale che in breve tempo non avrà più l'appoggio di una psichiatria che da molto tempo sta modificando i propri orizzonti.
La tensione dialettica avrà polarità invertite.