• Non ci sono risultati.

6.2.1) Pericolosità sociale: la molteplicità di un concetto

Dalla crisi della pericolosità sociale deriverà una separazione tendenzialmente dicotomica nel campo della psichiatria forense. Da un lato troviamo psichiatri, come Canepa, che ancorandosi ad un concetto propriamente normativo criminologico di pericolosità diffuso in campo internazionale, e inteso come concetto universale, riscontrabile in ogni ordinamento, ma relativo e variabile nei suoi contenuti in

relazione al contesto storico, (192) da una parte ne auspicano il superamento formale, ma al contempo

ne sostengono la sostanziale utilità criminologica, ne affermano la piena legittimità scientifica nel caso in cui la nozione di pericolosità venga declinata nella formula della "prognosi criminologica" finalizzata alla programmazione del trattamento, ed auspicano l'adozione e l'utilizzo della perizia criminologica in

funzione di un più ampio trattamento della devianza. (193)

Per questo filone la crisi del rapporto follia-pericolosità, comporta non una riduzione del campo applicativo della pericolosità bensì una sua estensione illimitata, comporta il costante intervento del terapeuta nel processo penale. Gatti sostiene, paradossalmente, che limitare l'accertamento della pericolosità sociale al non imputabile sarebbe un retaggio delle influenze delle obsolete teorie ottocentesche. "Pertanto riteniamo che il giudice abbia ragione di domandare nella formulazione del quesito che si valuti la pericolosità sociale del soggetto, ma non ci sono motivi per cui la ricerchi nel

solo caso di malattia di mente". (194)

L'accertamento clinico diventa quindi pervasivo ed inoltre si ritengono pienamente utilizzabili i metodi della psicanalisi, della psicologia del profondo. Si vuole che il "peso dell' inconscio" faccia il suo

definitivo ingresso nel processo penale attraverso la perizia criminologica. (195) Si vuole che Edipo

venga giudicato. Ed i giuristi si prestano ad un tale giudizio; così la Cassazione: "E' possibile ravvisare nel delitto commesso da uno psicopatico la risoluzione di un conflitto edipico non superato, e in tale ragione occulta individuare il vero movente dell' azione criminosa con cui il reo mira a placare il

profondo senso di colpa da cui si sente afflitto". (196)

Secondo questa tesi la perizia dovrebbe prevedere che "vengano analizzate tutte le componenti che hanno agito sulla personalità del soggetto, influenzandone il comportamento per cui si procede e chiedere sulla attuale pericolosità del soggetto" in ogni caso. "In questo modo possiamo giungere al concetto ed alla formazione di un giudizio di pericolosità sociale non del malato di mente, bensì come la

In conformità a questa linea teorica si rinvengono nella prassi peritale non solo concetti appartenenti alla psicanalisi ma anche concetti considerati desueti quali: tratti costituzionali, disposizioni

degenerative, tare ereditarie psicopatologiche, delinquenza tra gli ascendenti che contengono in loro il presupposto della incurabilità e dello stigma che lega criminalità e patologia mentale. Questo filone è implicitamente fautore di una commistione tra psichiatria e criminologia che consenta l'attribuzione del fatto reato in relazione allo studio della psicopatologia o della tipologia caratteriale del soggetto studiato, consentendo in sostanza che il perito assuma un ruolo primario nella decisione giudiziale, tendenza che risulta essere aumentata dall'utilizzo del DSM come manuale clinico e non invece come

manuale statistico. (198) Manuale ritenuto dallo stesso Canepa pienamente utilizzabile anche la dove

le valutazioni implichino concetti normativi, purché tali elementi non vengano eliminati ma abbiano "l'espressa finalità di una approfondita comprensione della dinamica dell'atto criminale e della

elaborazione di concreti programmi di trattamento". (199)

Psichiatria e giustizia, quindi, devono stringere una nuova alleanza, in cui ancora una volta si implichi la scienza come matrice istituzionale della politica criminale, in cui ancora una volta i rapporti tra

argomenti morali ed evidenze scientifiche, tra cognitivo e normativo, tra vero, bene e natura, tornino irrimediabilmente ad unirsi in una ambigua vicinanza. Ancora una volta le evidenze scientifiche poste a base delle scelte politiche affievoliscono la dimensione propriamente ideologica di queste e estendono

il raggio del controllo sociale di tipo preventivo o incentrato sullo status soggettivo. (200)

Questo filone è quello che meglio si sposa con quella che a livello internazionale viene definita la "seconda generazione" di ricerche sulla predizione del comportamento violento che si basa su una ricerca di tipo attuariale o strutturata, attraverso strumenti che combinano indicatori di tipo statistico ed indicatori di tipo clinico come l'HCR 20, The Historical Clinical Risk Management, e che cerca di individuare la correlazione tra fattori demografici, statici e storici ed il futuro comportamento violento. In mancanza di una nuova concettualizzazione della pericolosità la ricerca si è spostata su un piano strettamente empirico, e la più importante forma di concettualizzazione operativa è emersa con forza a partire dagli anni '90 del '900 con studi epidemiologici su larga scala, gli approfondimenti dello studio

sulla personalità psicopatica condotta soprattutto da Robert Hare. (201) e sul disturbo antisociale della

personalità. L'enfatizzazione dei metodi statistici ha consentito poi di affermare la maggiore oggettività, di poter sfuggire al soggettivismo del giudizio esclusivamente clinico, e quindi di rivendicare una maggiore affidabilità predittiva. Pur muovendosi ancora in un ambito formale di tipo clinico.

Nonostante questa nuova pretesa di oggettività molti sottolineano la difficoltà di adattare grandezze aggregate di tipo statistico a giudizi individuali. Smuzker ha dimostrato attraverso un modello di tipo matematico come il basso tasso di un fenomeno riduca l'utilità concreta di strumenti attuariali che si siano dimostrati tecnicamente affidabili. Dimostrando che anche se il tasso di affidabilità tecnica di uno strumento fosse del 76% (0.76AUC) qualora venisse chiamato a valutare un fenomeno con un ipotetico tasso di incidenza del 20%, si avrebbe un calo del potere predittivo dello strumento in questione allo 0.37, pertanto arriverebbe a sbagliare in 6 casi su 10. Quindi se la base percentuale di violenza connessa alla malattia mentale si aggira intorno all'1% il tasso di errore degli strumenti si assesta al

97%. (202) Vi è poi l'ulteriore problema metodologico per cui tutti gli studi sul rapporto tra follia e

violenza stabiliscono rapporti statistici di correlazione ma nessuno è ovviamente in grado di stabilire relazioni causali, anche nelle ipotesi in cui, come nel caso della dipendenza da sostanze stupefacenti dell'alcolismo e della sindrome paranoica, il legame tra patologia e violenza è più evidente e

scientificamente condiviso. L'ambiente sociale connesso al mercato delle sostanze, o gli effetti diretti delle sostanze, prescindendo dai sintomi psicopatologici o la bassa istruzione rimangono fattori

altrettanto idonei a determinare la violenza. "Nessuna delle attuali metodologie è in grado di analizzare

questi fattori in modo sperimentale". (203)

Viene evidenziata anche la inevitabile componente circolare derivante dall'individuare la pericolosità attraverso i tratti stessi che determinerebbero la diagnosi di disturbo antisociale di personalità e di psicopatia, il che comporta un ritorno alla vecchia ontologia della follia morale. Le nuove strategie del contenimento del rischio non farebbero altro che dissolvere la nozione di soggetto in una serie di fattori che non fanno che rimandare al soggetto stesso ed ad un giudizio di valore sul suo passato che però viene ad essere reso tanto astratto da sembrare scientifico.

In questo tipo di concettualizzazioni e di ricerche la nozione di rischio e di disturbo che sottendono alla pericolosità si trasformano ancora una volta in un "discorso misto", morale, emotivo, politico e

calcolatorio che porta sempre a riproporre forme di internamento preventivo. La politica penale si muove quindi in due direzioni opposte e collegate, una direzione innovativa ed una direzione nostalgica: combina tecniche di contenimento del rischio iper-moderne con un atteggiamento

pre-moderno di configurazione del pericolo. (204) L'aspetto innovativo consente di rimuovere la dimensione conflittuale della nozione di pericolosità atomizzandola in una serie di indicatori attuariali asettici e neutrali che non hanno bisogno di tener conto del trattamento clinico, che infatti viene totalmente trascurato se non omesso, consentendo la separazione definitiva della diagnosi dal trattamento per

connetterla ad una semplice attività di gestione del rischio. (205) In altri termini la politica della gestione

del rischio non si pone la questione degli obiettivi di riabilitazione e di cura del soggetto pericoloso ma solo del contenimento dell'incognita valutata. L'aspetto pre-moderno consente di identificare gli

indicatori della patologia con elementi di tipo marcatamente connotativo se non morale. La stessa PCL-R, lo strumento diagnostico utilizzato per valutare la psicopatia ha rivelato, in 11 studi di controllo, un tasso di falsi positivi oscillante tra il 50 ed il 75%, tanto che alcuni hanno ritenuto impossibile un suo

utilizzo in ambito forense nel caso in cui sia in gioco la restrizione della libertà personale. (206)

Anche a livello internazionale si evidenzia comunque il fatto che anche gli studi di seconda generazione non riescano a dare risultati univoci ma debbano essere anzi suddivisi in tre categorie di consistenza omogenea: la prima che raggruppa studi che affermano nuovamente un netto collegamento tra violenza e malattia mentale; la seconda che raggruppa gli studi che invece negano un tale legame, la terza che raggruppa studi che dimostrano l'importanza, in relazione al comportamento violento, delle variabili distinte dalla malattia mentale: quali genere, status socio economico, età, istruzione.

Riaffermando che, anche attualmente le variabili di tipo clinico non sono in grado di dimostrare una connessione diretta tra violenza e malattia mentale, a meno che non si considerino le rabbia e le fantasie aggressive come sintomi clinici.

Fornari e Coda hanno evidenziato come nel Disturbo antisociale di personalità vi siano tratti specifici ben chiari che però non sono riconducibili a categorie psicopatologiche ma a generiche caratteristiche del comportamento, portando a confondere disturbo psichico, analisi del comportamento e giudizio

etico. (207) Merzagora Bestos definisce criticamente i sintomi del Disturbo antisociale di personalità

delineati dal DSM "il ritratto del delinquente di professione criminologicamente inteso". (208) Per cui la

diagnosi torna ad essere una forma di etichettamento che deve essere definita e compresa attraverso il contesto culturale e sociale più che scientifico.

Così si esprime Robert Hare, uno dei maggiori esponenti della teorizzazione della personalità

psicopatica e del disturbo antisociale della personalità, nel dare "nuova" concretezza alla pericolosità dello psicopatico:

Questi predatori, sia uomini che donne, tormentano la nostra vita quotidiana ogni giorno" "sono tipi di individui sempre esistiti (...) Tutti li hanno incontrati, sono stati ingannati e manipolati da loro, e sono stati costretti a riparare o a vivere con i danni che loro hanno causato. Questi individui spesso affascinanti - ma sempre mortali- hanno un nome clinico: psicopatici. La loro caratteristica è la sbalorditiva mancanza di coscienza, il loro gioco consiste nell'autogratificazione a spese dell'altro. Molti passano del tempo in prigione, ma molti no. Tutti prendono molto di più di quanto non diano. La più ovvia espressione della psicopatia - ma non l'unica - implica la fragrante violazione delle regole della società. Non sorprendentemente molti psicopatici sono criminali, ma molti altri tentano di rimanere fuori di prigione usando il loro fascino ed il loro atteggiamento camaleontico per attraversare la

società lasciando un seguito di vite rovinate dietro di loro. (209)

Altri tornano ad affermare che vi sia una significativa correlazione tra crimine violento e psicopatologia

dell'Asse I del DSM, in particolare la schizofrenia. (210) Se a questo tipo di valutazioni aggiungiamo poi

alcuni studi statunitensi di impronta neuroscientifica che affermano che, come ricordato, le lesioni al lobo frontale o prefrontale della corteccia celebrale danneggiano sempre la capacità di controllare gli impulsi aggressivi od il giudizio morale e che gli psicopatici e coloro che hanno comportamenti violenti presentano sempre anomalie strutturali e funzionali del cervello derivanti secondo alcuni non da fattori

ambientali ma per il 90% dai geni, (211) che tuttavia non incidono sulla responsabilità penale, risulta del

tutto naturale da una parte che si giunga ancora una volta alla commistione del duplice aspetto reattivo riservato al deviante: vendetta ed espulsione dal branco e dall'altra che si proponga un modello penale

improntato su una neutralizzazione di tipo ottocentesco, destinata in assenza di una cura (212) ad

essere di fatto perpetua. Adam Lamparello, un giurista statunitense, propone per tutti coloro che sono stati condannati per un reato e che presentano lesioni celebrali al lobo prefrontale o disturbi

all'amigdala o al sistema limbico, un internamento a tempo indeterminato successivo all'espiazione della condanna. L'internamento dovrà protrarsi per tutto il tempo in cui il soggetto continui ad essere un pericolo per la comunità in virtù di tali lesioni, e, quindi, sarà probabilmente perpetuo se legato ad un danno irreversibile. Secondo Lamparello un tale tipo di internamento non avrebbe natura punitiva e per

questo non sarebbe in contrasto con il Quattordicesimo Emendamento. (213) Una tale proposta sembra rievocare lo spettro evocato da quel filone critico secondo il quale in late modernity, authorities

move from institutional incarceration to political intervention to pre-empt undesired events within a hygienist utopia that induces a delirium of rationality. (214)

Dall'altro lato troviamo, invece, un filone della psichiatria forense che si riallaccia a quelle correnti scientifiche internazionali che negano qualsiasi valenza medica al concetto di pericolosità, che la ritengono un giudizio di valore, dal significato più simile al termine "brutto" che ad un termine medico

come "anemico". (215) La pericolosità non è una condizione medica, non ha una esistenza definibile

attraverso criteri di tipo clinico, la Scuola positiva e Lombroso l'hanno elevata al rango di una

condizione patologica, sbagliando, costringendo a definire in termini medici qualcosa totalmente privo di scientificità. Tuttavia il fatto che istituzionalmente venga richiesto un simile giudizio impone la necessità di una teorizzazione di questa pratica. Queste correnti avvertono anche la necessità di operare una distinzione tra la nozione di pericolosità psichiatrica, per sua natura temporanea legata alla propensione a causare seri danni fisici o psichici dalla più ampia nozione di pericolosità sociale o "legale":

Despite the frequency with which the term dangerousness is used within psychiatric practice, there are few clear definitions of the precise behaviours it encompasses(...) It is important to distinguish between legal dangerousness and clinical dangerousness. From a legal perspective, dangerousness is viewed as a relatively enduring characteristic of the individual. However, scientist now recognise that most human behaviour is determined by complex interactions between the individual and his/her environment. The main problem with the legal concept lies in it's simplicity- under legal scheme, certain aspect of the individual behaviour are defined as dangerous and the individual himself comes to be viewed and labelled as dangerous. (216)

Ed il problema della definizione giuridica di pericolosità sta nella indicazione di una probabilità, di una propensione all'atto criminale che implica caratteristiche permanenti e costantemente manifestate di una caratteristica socialmente ubiqua, onnipresente ed ordinaria quale la violenza che invece viene limitata a certi particolari soggetti individuati in quanto malati, esponendo di fatto il giudizio clinico ad

una strutturale tendenza a generare falsi positivi. (217)

Vi sono, quindi, autori come Ponti, Bandini e Merzagora Bestos che vogliono non solo annullare la pericolosità ma, ritenendo l'automatismo tra follia ed incapacità di intendere e volere uno stereotipo culturale e partendo dal presupposto che la scienze psichiatriche e psicologiche tendono sempre di più ad una maggiore responsabilizzazione del malato mentale, ritengono possibile anche una possibile compatibilità tra piena imputabilità e psicosi. Il mutamento dello statuto scientifico del folle e la riforma dettata dalla L.180/1978 presuppongono, infatti, il riconoscimento della piena dignità del sofferente psichico, dignità che implica necessariamente una maggiore responsabilità nel caso in cui l'Io del malato mentale non sia totalmente destrutturato. L'attribuzione della piena responsabilità penale in questo caso sarebbe funzionale al recupero della parte integra dell'Io cui ascrivere il fatto di reato,

avendo quindi una valenza terapeutica. (218) "Se uno psicotico è capace di comprendere il significato

della sanzione punitiva ed il valore deterrente della pena non si comprende perché mai egli debba, tra

l'altro, essere assegnato al manicomio giudiziario come incapace". (219) La pena riafferma la

soggettività dell'individuo ribadendo che la malattia non esaurisce il suo campo di esistenza ed impedisce alla diagnosi psichiatrica di esprimere una valore totalizzante sul complesso dell'esistenza

sociale ed individuale della persona, il modo più efficace per ristabilire la salute mentale implica la

valorizzazione della soggettività del malato. (220) E' quindi un'attribuzione di responsabilità volta non

tanto alla repressione, alla neutralizzazione quanto invece alla ricollocazione del malato mentale nel contesto sociale, ed alla riconciliazione tra i nuovi criteri epistemologici e normativi della psichiatria

"post 180" ed il diritto penale, (221) che suggerisce di restringere a casi rarissimi e gravissimi la

dichiarazione del vizio totale di mente ed ad inserire i disturbi psicopatologici tra le circostanze di

attenuazione della pena al pari di altri fattori di ordine sociale, ambientale, situazionale. (222)

Il malato di mente - è lapalissiano - non è uguale al sano così come il povero non è uguale al ricco, come le donne non sono uguali agli uomini, i neri ai bianchi. Non lo è, cioè, nel senso che le sue possibilità di partecipazione sociale e di realizzazione personale sono minori, che si trova in una situazione di minorata contrattualità sociale, che non ha quella stessa pienezza della libertà nella scelta, che la sua libertà è condizionata da un handicap particolare. E la giustizia consiste appunto nel trattare differentemente situazioni diverse, o si corre il ben noto rischio del summum ius summa iniuria. Ma, con la nuova visione della

malattia mentale come non più così alienante, invasiva, inappellabile, può ancora dirsi che il malato di mente è radicalmente diverso dal sano? Ha senso, cioè, un trattamento penale qualitativamente diverso? Dove sta scritto che la malattia mentale sia una forza più cogente che non il condizionamento sociale, familiare, ambientale, del carattere, magari della passione e dell'emozione, o della suggestione della folla in tumulto? (...) Una

proposta - ed è quella a cui siamo particolarmente affezionati (...) - potrebbe quindi essere quella di riservare alla malattia mentale lo stesso peso che si attribuisce ad altre situazioni

che attenuano quantitativamente la responsabilità per il delitto e quindi la pena. (223)

La mediazione tra Ragione e Follia, svolta dalla psichiatria non si deve tradurre quindi in una espulsione della "Sragione" dal modo della "Razionalità Sociale", rappresentata tradizionalmente dall'internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario. L'atto del folle dovrà quindi essere giudicato ed egli condannato, ma in virtù di una condanna che tenendo conto della storia del soggetto, preveda misure che consentano una cura, una riabilitazione ed una reintegrazione sociale. Arrivando ad una reale ed efficace sintesi tra il bisogno rituale e simbolico della retribuzione richiesto da sempre dal corpo sociale ed il recupero della salute mentale di un soggetto visto come parte integrante della

comunità, non emarginabile attraverso statuti giuridici differenziati. (224) La liberta di scelta attribuita al

reo malato di mente è in questo senso conforme anche alla concezione normativa della libertà giuridica, che si configura non come dato naturalistico, ontologico ma si pone come un "principio

regolativo di tipo giuridico che pone limiti al potere statuale e garantisce la libertà". (225) La libertà e la

responsabilità non più intese secondo un assunto filosofico o una necessaria dimostrazione naturalistica o psicologica, assumerebbe un ruolo di garanzia teleologica, consentirebbe ad ogni individuo di essere trattato come libero e responsabile, con tutte le limitazioni (connesse al concetto giuridico di dignità umana) al potere punitivo che questa implicazione ha storicamente comportato. "Il principio di libertà del volere si trasforma così da presupposto indimostrabile e necessario di fondazione e giustificazione del rimprovero di colpevolezza, e conseguentemente della pena in funzione retributiva,

nel suo contrario e cioè in quello di limite garantistico posto a tutela dell'individuo". (226)

In questo senso si opererebbe la massima restrizione possibile al campo applicativo della fattispecie della pericolosità poiché "evidentemente una persona non può essere dichiarata pericolosa sulla base di un giudizio medico se non è invalidata in quanto soggetto responsabile".