Perché prima quelli che erano qui pregavano di morire (...)
Come una pianta quando è arsa perché non piove e le foglie appassiscono, così era qui la gente
(A., ricoverato nel Manicomio di Gorizia.)
Nel 1925, un manifesto di artisti francesi che si firmavano "la révolution surréaliste", indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: "Domattina, all'ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza".(Franco Basaglia, La distruzione dell'ospedale psichiatrico come
luogo di istituzionalizzazione)
L'eco di un mutamento concettuale che investe tutto il mondo occidentale comincia a farsi sentire anche in Italia. E' nel 1968 che, con la pubblicazione de L'istituzione negata a cura di Franco Basaglia, l'impianto violento e repressivo nascosto sotto la coltre delle terapie della malattia mentale viene messo totalmente a nudo.
Si nega il manicomio.
Si nega tutto l'apparato epistemologico fondante la scienza psichiatrica. Si nega la visione dell'irrecuperabilità della malattia mentale.
Si nega il ruolo dello psichiatra inteso esclusivamente come portatore di un mandato di controllo sociale.
Tuttavia non si nega la malattia, non si nega il significante della follia, si cerca di recuperarne il rapporto con l'individualità del sofferente psichico, prescindendo dall'etichetta che il termine "malattia mentale" comporta, dai pregiudizi che la definivano da oltre un secolo.
Nel momento in cui dico: questo è uno schizofrenico (con tutto ciò che per ragioni culturali, è implicito in questo termine) io mi rapporto con lui in modo particolare, sapendo appunto che la schizofrenia è una malattia per la quale non c'è niente da fare: il mio rapporto sarà
solo quello di colui che si aspetta soltanto della schizofrenicità dal suo interlocutore. (23)
La scelta di Basaglia sembra essere quasi obbligata, se si tiene presente quale fosse lo statuto della scienza che egli era chiamato ad esercitare. Una scienza intrisa, costituita da giudizi di valore, eretta su impalcature di categorie morali, che imprigionava, nella ragnatela della sua pretesa oggettività e neutralità, interi gruppi di soggetti considerati da sempre inferiori.
[...] Per questo è necessario avvicinarsi a lui (il malato) mettendo fra parentesi la malattia mentale perché la definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore, di un etichettamento che va oltre il significato reale della malattia stessa. La diagnosi ha il valore di un giudizio discriminante, senza che con ciò si neghi che il malato sia in qualche modo malato. Questo è il senso della nostra messa fra parentesi della
malattia, che è messa fra parentesi della definizione e dell'etichettamento. (24)
Non vi è alcuna negazione della sofferenza nelle parole di Basaglia: in questo senso la follia è, e rimane, una malattia, quello che si rifiuta è la minorazione dell'umanità del folle, della sua individualità, del suo rapporto con la realtà sociale, della sua responsabilità. La terapia non può più avere carattere
punitivo, perché la salute implica necessariamente il recupero dei diritti dell'individuo malato. (25) Il
recupero di questi diritti nega, quindi, ogni residua possibilità di sopravvivenza del manicomio, istituzione totale per eccellenza, con la sua funzione di mero controllo sociale, di strumento di
segregazione violenta. Solo una comunità terapeutica (sull'esempio di quella istituita da Maxwell Jones
in Inghilterra) (26) che metta apertamente in luce le dinamiche di questa violenza e di questa
esclusione potrà avere, per Basaglia, una valenza terapeutica. (27)
Il nodo centrale, ai fini della nostra ricerca, è il nesso indissolubile che vi è nel pensiero di Basaglia e, più in generale, nella nuova psichiatria italiana degli anni '70, tra recupero dei diritti civili e cura, gli uni sono pregiudiziali all'altra. In questo recupero non vi è il conferimento di una dignità "altra" rispetto al malato, di una concessione, ma vi è un riconoscimento, questo sì terapeutico, della piena dignità umana del sofferente psichico: egli non è solo lo schizofrenico, lo psicotico, il bipolare, egli è un
individuo, titolare di diritti e doveri all'interno e nei confronti di un gruppo sociale. Solo come soggetto di diritto potrà trovare una sua terapia.
Il medico non può più concepire il malato in termini esclusivamente oggettivi, anche perché questo approccio influisce in modo determinante sul concetto di sé del paziente, il quale, vedendosi attraverso gli occhi dell'istituzione e del medico non potrà vedersi che come res, come corpo malato. Ogni suo atto
troverà una descrizione ed un limite invalicabile nella malattia. (28)
Deve cessare il paradosso secondo il quale il malato di mente "è l'unico malato che non ha diritto di
curarsi perché è definito pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo". (29) Devono cessare "i
reparti chiusi, il camice grigio, i capelli rapati a zero", le cinghie di cuoio. (30)
Del resto:
negli ospedali psichiatrici è d'uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l'infermiere
sorvegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è cosi lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del paziente ad una regola disumana, viene interpretata come un dispetto nei confronti del personale curante, o come espressione del livello di incontinenza del malato, strettamente dipendente dalla malattia.
In un ospedale psichiatrico due persone giacciono immobili nello stesso letto. In mancanza di spazio, si approfitta del fatto che i catatonici non si danno reciprocamente fastidio per sistemarne due per letto.
In un ospedale psichiatrico viene applicata la strozzina [...] è un sistema molto rudimentale di far perdere coscienza al malato, soffocando. Gli viene buttato sulla testa un lenzuolo, spesso bagnato - così da non permettergli di respirare - che si avvita strettamente
all'altezza del collo: la perdita di coscienza è immediata. (31)
Il manicomio distrugge il malato mentale. (32)
all'accesso di un impiego pubblico. (33) Anche i legami familiari vengono troncati di netto, il sofferente psichico non può per definizione essere un buon genitore, per questo l'ordinamento, oltre ad internarlo, lo priva anche della potestà familiare. Una tale regolamentazione giuridica della pratica terapeutica, fondata sulla coazione e sull'emarginazione si "risolve in una continua profanazione del ruolo
soggettivo" che l'individuo si è formato e "fa venir meno quella base di sicurezza che è indispensabile
per un minimo di equilibrio psichico". (34)
Il tecnicismo psichiatrico, in questo contesto, non fa altro che mistificare la violenza istituzionale senza modificarne la natura, non è che un modo per far accettare al recluso la sua condizione di inferiorità
morale e sociale che trova la sua origine, ancora una volta, in una supposta diversità biologica. (35)
Scrive Basaglia:
La diagnosi ha ormai assunto il valore di un etichettamento che codifica una passività data come irreversibile. Ma questa passività può essere di natura diversa e non solo o non
sempre malata (36) [...] Il livello di degradazione, oggettivazione, annientamento totale in
cui si presenta (il malato), non è l'espressione pura di uno stato morboso, quanto piuttosto il prodotto dell'azione distruttiva dell'istituto, la cui finalità era la tutela dei sani contro la
follia. (37) [...] Del resto il malato, proprio in quanto malato mentale, si adeguerà tanto più
facilmente a questo tipo di rapporto oggettuale e problematico, quanto più vorrà sfuggire la problematicità della realtà cui non sa far fronte. Troverà, dunque, proprio nel rapporto con lo psichiatra, l'avallo della sua oggettivazione e de-responsabilizzazione, attraverso un tipo
di approccio che ne alimenterà e cristallizzerà il livello di regressione. (38)
In realtà le parole di Basaglia, non sono del tutto nuove, egli infatti è profondamente influenzato da Karl Jaspers, e dalla Fenomenologia, che si opponeva al riduzionismo del modello biologico, ed alle griglie nosografiche basate sul modello delle classificazioni botaniche ponendo, invece, al centro dell'indagine psichiatrica l'esperienza esistenziale dei pazienti ed il loro vissuto. Sarà proprio Jaspers, nella sua opera Psicopatologia generale, del 1913, ad affermare, ricollegandosi alla fenomenologia di Husserl, che il processo cognitivo da utilizzare per arrivare alla comprensione del disturbo psichico consista nell'epoché, nella sospensione del giudizio sul soggetto, nella messa fra parentesi del mondo,
rifiutando qualsiasi oggetivazione dell'altro. (39) E' necessario quindi un nuovo atto di liberazione degli
internati, dopo quello di Pinel (40), visto che il primo passo verso una cura non poteva che essere il
ritorno a quella libertà, che la psichiatra positivista aveva loro negato, senza neppure riuscire a comprendere, come si era prefissata, attraverso il reticolo delle sue classificazioni nosografiche, la natura della malattia mentale e la sua eziologia.
Il movimento anti-istituzionale, inoltre non voleva neppure affermare che il sapere psichiatrico e la sua organizzazione in termini custodialistici fosse da ritenere come totalmente aderente, omogeneo e funzionale alla classe dominante, poiché questa visione avrebbe in qualche modo esaurito il problema della malattia mentale appiattendolo nelle sole contraddizioni della struttura sociale ed avrebbe operato una riduzione che avrebbe portato a ritenere il potere un sistema granitico e coerente privo al suo interno di contraddizioni, "identificabile in prima persona nel capitale o nei piani razionali di una elite di neocapitalisti. In realtà è necessario considerare che le istituzioni psichiatriche siano in ritardo o diverse nei confronti delle esigenze istituzionali e della società in generale, cioè abbiano malgrado tutto una
propria storia e una loro specificità". (41)
Basaglia non nega neppure l'utilità dei farmaci nel trattamento degli internati, perché anche se
attraverso l'azione sedativa di essi il malato resta fissato in un ruolo passivo, essi agiscono sul malato
attenuando la percezione della distanza che lo separa dall'altro. (42)
L'ordinamento giuridico tuttavia realizza ancora la protezione del malato mentale attraverso la sua emarginazione pensando esclusivamente a creare status personali "dotati di certezza per i terzi e di
stabilità per l'incapace" (43) che si concretizzano quasi esclusivamente nell'interdizione o
nell'internamento in manicomio: nella privazione di una qualsivoglia soggettività giuridica.
La Corte Costituzionale, il ceto dei giuristi, proprio nel 1968, non farà che ribadire questa concezione. Chiamata a vagliare la legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge manicomiale del 1904, il quale consentiva l'accertamento dell'alienazione mentale senza garanzie di contraddittorio, di difesa giuridica e tecnica e di impugnabilità (artt. 2, 3, 24 e 32 Cost.), esauriva la questione delle garanzie e della tutela del malato di mente nell'estensione del diritto di difesa dell'infermo nel procedimento che si svolgeva innanzi al Tribunale per l'emanazione del decreto di ricovero definitivo, che quindi non avrebbe più potuto svolgersi in totale assenza di contraddittorio e stabiliva, inoltre, l'illegittimità dell'art. 2
ordinare il ricovero in via provvisoria con l'obbligo di riferirne alla Procura entro un mese e non entro i quattro giorni previsti dalla legge nelle ipotesi di carcerazione preventiva. Arrivava così a paragonare, ad abbinare in un parallelismo procedimentale, il ricovero in manicomio e l'ingresso in carcere, limitava il suo intervento alle più palesi violazioni del diritto di difesa che, come sosteneva l'ordinanza del giudice a quo (il Tribunale di Ferrara), violavano anche:
i limiti imposti dal rispetto della persona umana che per colui che è sospettato di alienazione mentale, è posta in condizione deteriore, nel confronto alla condizione dell'interdicendo del proposto per misure di prevenzione e dell'imputato per reato. I provvedimenti previsti (dalla legge del 1904) possono, dal punto di vista pratico, rivestire importanza pari o superiore a quella dell'irrogazione di un ergastolo, potendo eliminare la capacità d'agire e la stessa capacità giuridica.
Per la Corte però non vi è alcuna lesione della dignità umana né del diritto alla salute, così come sancito dall'art. 32 della Costituzione, poiché il giudice a quo non indicherebbe "alcuna norma dalla quale si desuma che l'autorità predetta possa agire in disprezzo della persona dell'infermo".
Riconoscendo ancora una volta allo status quo manicomiale piena dignità terapeutica. L'internamento è sempre disposto a protezione della salute e dell'integrità fisica, anche se si sancisce la parità di
trattamento con gli imputati di reato ex art. 13 Cost., dichiarando non fondate le questioni di legittimità dell'art. 2 della Legge n. 36/1904 in riferimento agli artt. 2, 3, 32 della Costituzione.
Il legislatore, invece, spinto anche dal sempre più largo consenso delle posizioni di Basaglia e della suo gruppo in vasti strati sociali, non rimarrà sordo ai richiami di una nuova concezione dei rapporti con la malattia mentale, e, nello stesso 1968, con la legge 431 sulle Provvidenze per l'assistenza psichiatrica, introduce il ricovero volontario, inserendo la psichiatria nel sistema sanitario, e dando inizio al
superamento della concezione custodialistica che troverà il suo culmine nella legge 180 del 1978. (44)
Fu il primo passo per evidenziare l'illiceità, nel quadro dell'art. 32 Cost., di ogni forma di limitazione della libertà personale od altre compressioni delle libertà fondamentali, quali il diritto alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione che non fosse strettamente finalizzata alla
tutela della salute mentale. (45) Inoltre con il ricovero volontario si svincola la necessità di terapia
psichiatrica dall'automatica negazione della capacità di agire o persino giuridica del malato, si ammette, anche da un punto di vista giuridico, che vi sono soggetti che hanno la piena consapevolezza del loro status, anche se solo al fine di chiedere il ricovero in una struttura psichiatrica. Il paziente avrebbe potuto andarsene, almeno ipoteticamente, quando lo avesse desiderato.
La riforma sembra quindi seguire un prassi terapeutica intrapresa dall'Ospedale Psichiatrico di Gorizia: Basaglia infatti aveva inventato lo status di "ospite" cioè del ricoverato volontario che, dimesso
dall'ospedale psichiatrico, restava comunque al suo interno in spazi precedentemente riservati ai dipendenti dell'ospedale. La figura dell'ospite consentiva da una parte il pieno recupero della soggettività del malato, che con una scelta consapevole si assumeva la responsabilità di rimanere temporaneamente all'interno della comunità psichiatrica, dall'altra impediva che un rientro troppo immediato nel mondo ordinario creasse traumi troppo forti ad un individuo depersonalizzato a causa dell'internamento in un istituzione totale, permettendo inoltre a queste figure intermedie, di raccordo tra l'interno e l'esterno del manicomio, di creare un ponte con la popolazione che cambiasse in modo
graduale e progressivo l'opinione pubblica sulla malattia mentale. (46)
Questo cambiamento culturale e legislativo avrà immediate ripercussioni concrete: i ricoveri coatti legati alla pericolosità od al pubblico scandalo scompariranno quasi del tutto, e le nuove ammissioni saranno per lo più volontarie, questo causerà una drastica diminuzione degli internati presenti in manicomio: i ricoverati nei manicomi nel 1964 erano 1.114, nel 1968 saranno 835, nel 1969 si arriverà a 791, un calo
di circa il 30% degli internamenti. (47)
Ma la cultura psichiatrica avvertiva sempre di più la necessita che il mutamento radicale del suo paradigma epistemico si traducesse in una definitiva abrogazione della legge del 1904. Nel 1976 l'A.M.O.P.I, l'associazione medici ospedali psichiatrici, in un convegno tenuto a Roma invocherà espressamente l'abrogazione della vecchia legge manicomiale del 1904 proprio perché aveva
determinato la segregazione e l'emarginazione di persone in base ad un concetto aleatorio ed arbitrario come la pericolosità sociale, ed aveva "permesso che una pericolosità occasionale sancisse la
necessità di un ricovero durato poi decenni o tutta la vita". Era quindi necessario che la protezione del malato di mente non si basasse più sulla "costruzione di enormi reclusori per i quali sia i politici, sia gli stessi operatori psichiatrici, sia l'opinione pubblica generale non hanno esitato negli ultimi anni a trovare la definizione di lager". Anche in virtù del fatto che "la procedura del ricovero coatto, ha reso
custodialistico e quindi fondamentalmente antiterapeutico e assurdo ogni tentativo di cura". (48) Sarà quindi la cultura scientifica "antipsichiatrica" a scuotere il torpore dei giuristi, ancora fermi a valutare la compatibilità del manicomio con i limiti e le garanzie dettati dall'art. 13 Cost. in tema di limitazione della libertà personale, ed a spezzare l' indifferenza del legislatore imponendo non solo di dare attuazione all'art. 32 della Costituzione, ma anche ridefinendo direttamente i contorni del suo contenuto precettivo.