La necessità di razionalizzare la disciplina delle misure di sicurezza si rende ancor più urgente se si tiene conto che lo standard probatorio richiesto per l'accertamento della pericolosità sociale ex art 203 c.p. - con la conseguente applicazione sanzione criminale dell'Opg - è in pratica totalmente rimesso al criterio soggettivo del libero convincimento, al dualismo perito-giudice. Non è certo vincolato dal criterio sancito dalla regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio ex art 533 c.p.p. riservato
esclusivamente al reato. (319) E, naturalmente, non si è mai registrato nessun caso in cui il giudice
abbia ritenuto non applicabile la misura dell'Opg in quanto la prova della pericolosità sociale del non imputabile era insufficiente o contraddittoria ex art 530, secondo comma c.p.p., poiché la norma copre solo la sussistenza, la commissione o la natura di reato del fatto e l'imputabilità, la sola dimensione
assolutoria della sentenza non la parte amministrativo/criminale della disposizione delle misure di
sicurezza che, lo ripetiamo, inoltre non passa mai in giudicato. (320)
Sotto il profilo dell'ammissione della prova scientifica si deve ricordare come il codice di rito non indichi alcun criterio esplicito o diverso rispetto ai criteri ordinari di ammissibilità comuni a tutti i mezzi di prova
stabiliti dagli artt. 187 e 190 c.p.p. (pertinenza, rilevanza, non sovrabbondanza e liceità). (321) Le
Sezioni Unite, nell'allargare il campo del difetto di imputabilità ai disturbi di personalità, sembrano aver introdotto come criterio generale per valutare la validità scientifica di una prova "psichiatrica", quello della generale accettazione e condivisione che tuttavia, a mio parere, oltre ad offrire un parametro circolare ed incerto, si rivela essere, al più, un criterio epistemologico a priori, per altro di tipo
puramente quantitativo, che vincola la validità formale di un enunciato e non può quindi essere adottato come criterio di verifica a posteriori della verità dell'enunciato stesso. L'unica possibile verifica o falsificazione di un asserto relativo ad una potenzialità od una probabilità, al futuro, consiste infatti o nella concreta verificazione dell'evento o nella di fatto impossibile individuazione del tasso di affidabilità delle singole previsioni passate da parte dello stesso clinico/giudice. Non considerando inoltre che la validità scientifica di uno specifico accertamento per uno scopo non implica la stessa validità per altri scopi. Per cui la stessa diagnosi psichiatrica "può essere generalmente accettata per scopi terapeutici
ma non per finalità forensi". (322) Limitandosi al grado di adesione che verte su un oggetto del tutto
interno e soggettivo, per questo di fatto inconoscibile ed incommensurabile, come la potenzialità interiore relativa alla commissione di reati, anche senza vittime:
il criterio rischia di tradursi in una forma di deferenza a determinati settori professionali e l'ammissibilità diventa questione corporativa. Nel processo penale in cui sono coinvolti i valori di immensa portata dell'imputato, non si può correre il rischio che il giudice faccia affidamento su teorie, tecniche test che seppure comunemente utilizzati nella prassi scientifica (in funzione degli scopi di quest'ultima) non siano poi in grado di offrire riscontri di affidabilità e di validità funzionali alla decisione giuridica e al superamento dello
standard dell'oltre ogni ragionevole dubbio. (323)
Parte della dottrina ha proposto, attraverso una integrazione analogica dei criteri dettati dall'art. 189
c.p.p., (324) di utilizzare i criteri elaborati dalla Corte Suprema degli Stati uniti per l'ammissione della
prova scientifica elaborate nel caso Daubert nel 1993 (ed ulteriormente allargati alle "soft sciences" nel caso Joiner 1997 e in particolare alle testimonianze di psichiatri e psicologi nel caso Khumo1999). La posizione è stata ora accolta dalla Cassazione con la sentenza n. 43786 del 2010. Nella Sentenza Daubert la Corte Suprema, partendo dal presupposto che la scienza non possa offrire certezze ma solo teorie provvisorie, superabili da metodi nuovi e in qualche modo "minoritari" che non possono trovare un'eco nel processo qualora si segua esclusivamente il criterio della "general acceptance", afferma che
la prova scientifica non solo debba essere largamente condivisa ma anche, affidabile, credibile. (325) Il
giudice avrà quindi il ruolo, non più di peritus peritorum ma di gatekeeper, (326) di custode del metodo,
senza entrare nel merito delle conclusioni del perito, dovrà valutare l'affidabilità della prova scientifica basandosi su criteri quali: il fatto che una teoria od un metodo siano stati testati; che la teoria o il metodo siano stati oggetto di pubblicazione ed oggetto di peer review ; il loro tasso di errore potenziale,
ed il grado di adesione della comunità scientifica alla teoria o al metodo. (327)
Alcuni giuristi statunitensi hanno applicato questi criteri alla pericolosità sociale psichiatrica arrivando alle seguenti conclusioni:
1.La validità delle dichiarazioni di pericolosità sociale sono state testate?
Si; ed i test hanno dimostrato che tali previsioni si rivelano errate nei due terzi dei casi (questa è la posizione assunta ufficialmente dall'Apa).
2.La teoria della pericolosità sociale psichiatrica ed i metodi per accertarla sono state sottoposte a peer review e pubblicate?
Si, e la maggior parte degli studi le considera inaffidabili, amorfe, inconsistenti. 3.Qual è il tasso di errore?
Dal 60% al 90% (comunque del 50% nel migliore dei casi), si veda anche punto 1.
4.La teoria della pericolosità psichiatrica e della reale possibilità di un suo accertamento è generalmente accettata dalla comunità scientifica?
Se sottoposta ai criteri Daubert la nozione giuridica di pericolosità dovrebbe teoricamente essere espunta dall'ordinamento. Ancora una volta, invece, la prassi dimostra -anche negli stati Uniti- un
andamento contrario. (328)
La prova della pericolosità sembra quindi, nei fatti, rivelarsi sempre più ancorata ad un principio di autorità che si auto afferma come principio di verità. Sulla base di un apparente residuo inquisitorio del processo penale, (sebbene edulcorata dalla presenza dei consulenti tecnici i parte). Si continua a supporre cioè una verità naturalistica che si fonda sostanzialmente sull'ipse dixit. E su un sistema in cui i criteri di ammissibilità ex ante, di assunzione e di valutazione ex post della prova finiscono per
coincidere ed essere necessariamente vaghi ed elastici, non solo sul piano della formulazione della
fattispecie astratta, ma anche sul piano della soglia di riscontro probatorio in sede processuale. (329)
7.3.1) Ancora sul trattamento. Le Sentenze della Corte Costituzionale n. 253 del 2003
e n. 367 del 2004, forme alternative di proporzionalità della sanzione e rilevanza
della componente terapeutica
L'esigenza di adeguare ad una forma particolare del criterio di proporzionalità la risposta sanzionatoria nei confronti dei non imputabili viene affrontata non dal legislatore ma dalla Corte Costituzionale in due fondamentali sentenze: la 253 del 2003 e la 367 del 2004.
Già da tempo la Corte aveva incominciato ad avanzare pesanti critiche agli ospedali psichiatrici giudiziari e, più in generale, alla disciplina che prevedeva un trattamento custodiale che sviliva la cura della salute mentale imposta dall'art 32 della Costituzione, avvertendo ormai uno scarto incolmabile tra l'istituto stesso dell'ospedale psichiatrico giudiziario ed i mutamenti introdotti sin dagli anni 70 del 900
con la legge 180, e la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, (330) pur continuando ad
affermare che una revisione complessiva della disciplina dei non imputabili doveva passare necessariamente attraverso il legislatore.
Una delle critiche più forti mosse in passato dalla psichiatria forense al sistema delle misure di
sicurezza si concentrava sulla scelta secca e binaria che la legge imponeva al perito, una scelta in cui entrambe le opzioni non contemplavano la salute mentale dell'individuo. La liberazione senza
condizioni o l'internamento in Opg. (331)
Il "nuovo" codice di procedura penale si era invece fatto carico delle esigenze cliniche degli imputati e degli indagati affetti da una malattia mentale prevedendo la possibilità di adottare in sede cautelare le misure previste dalle leggi sul trattamento sanitario delle malattie mentali od il ricovero provvisorio in una struttura del servizio psichiatrico ospedaliero (artt. 73 e 286 c.p.p.), aumentando ancora di più l'incongruenza della disciplina sostanziale. Se il canone ordinario previsto per la cura del malato mentale nel nostro ordinamento è totalmente volta a contrastare qualsiasi forma di internamento, considerato ex se antiterapeutico, gli Opg si presentano invece come gli ultimi monolitici residui di un trattamento che fa della neutralizzazione la sua unica reale risorsa.
Già con la sentenza n. 324 del 1998 la Corte aveva sancito l'illegittimità Costituzionale dell'art 222 I e II comma nonché degli artt. 222 comma IV e 206 c.p., nella parte in cui disponeva l'applicazione della misura dell'Ospedale psichiatrico giudiziario anche ai minori sulla base della constatazione che tale misura era di natura "detentiva e segregante" e non rispondente alle esigenze di cura che dovrebbero essere proprie di tale istituto.
Tanto più dopo che il legislatore, recependo le acquisizioni più recenti della scienza e della coscienza sociale, ha riconosciuto come la cura della malattia mentale non debba attuarsi se non eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera, bensì di norma attraverso servizi e presidi psichiatrici extra-ospedalieri, e comunque non attraverso la segregazione dei malati in strutture chiuse come le preesistenti istituzioni manicomiali (artt. 2, 6 e 8 della legge 13 maggio 1978, n. 180). Né, più in generale, è senza significato che il legislatore del nuovo codice di procedura penale, allorquando ha inteso disciplinare l'adozione di provvedimenti cautelari restrittivi nei confronti di persone inferme di mente, abbia previsto il ricovero provvisorio non già in ospedale psichiatrico giudiziario, ma in "idonea struttura del servizio psichiatrico ospedaliero (art. 286, comma 1; e cfr. anche art. 73).
Parte della dottrina ritenne che lo stesso principio avrebbe potuto estendersi anche ai non imputabili
maggiorenni. (332)
dell'art. 222 del codice penale nella parte in cui non consente al giudice di adottare in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell'infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale.
Per la prima volta la Corte infrange il rigido sistema sanzionatorio riservato a tutti i non imputabili, aprendo la strada a trattamenti che non contemplino una struttura punitiva e segregante come l'Opg e
maggiormente conformi alle moderne risposte terapeutiche alla sofferenza psichica. (333)
Partendo dal presupposto che in un ordinamento ispirato al principio personalista come sancito dall'art. 2 Cost. le misure di sicurezza nei confronti degli infermi di mente possono essere legittime solo se al contenimento della pericolosità sociale sia collegata inscindibilmente la cura adeguata della malattia mentale, si conclude che una misura che privilegiasse una funzione a scapito dell'altra non sarebbe costituzionalmente ammissibile. Precisando inoltre che la tutela della salute si configura come un diritto fondamentale dell'uomo per cui una misura che arrivasse ad una lesione di un bene così fondamentale non potrebbe trovare alcuna giustificazione razionale anche se si fondasse sull'esigenza della
salvaguardia della collettività. Per cui una norma che imponga al giudice di comminare la reclusione in un ospedale psichiatrico giudiziario e non preveda la possibilità di applicare misure meno afflittive come la libertà vigilata, quando questa sia in concreto maggiormente idonea ad assicurare la cura ed al contempo a fronteggiare la pericolosità sociale, non può che essere in contrasto con l'art 32 della Costituzione. Presentando anche una duplice irragionevolezza: una legata al fatto che la norma impone un trattamento uniforme a situazioni diversissime legate alle molteplici forme e manifestazioni della malattia mentale (molteplicità aumentata anche dal definitivo ingresso nel campo del difetto di
imputabilità dei disturbi della personalità). Ed una sistemica, legata al rigida imposizione dell'Ospedale psichiatrico giudiziario, senza alcuna alternativa, a fronte dell' accertamento della sussistenza della
pericolosità. (334) Una tale rigidità del sistema sanzionatorio lede una particolare declinazione, per cosi
dire "interna", del principio di proporzionalità: l'equilibrio necessario tra dimensione medico terapeutica e dimensione securitaria e neutralizzativa.
Un'istituzione totale come il manicomio giudiziario, sia esso ospedale o casa di cura e di custodia, così drammaticamente proteso verso la pura funzione neutralizzativa si rivela persino capace di ledere, talvolta irrimediabilmente, il diritto alla salute, sancito dall'art 32 della Costituzione ed oggetto cui dovrebbe tendere il trattamento implicitamente sotteso alla disposizione dell'art 222 c.p. Il diritto alla salute, la sua concreta tutela, passa quindi dal ruolo formale di limite al contenuto e alle modalità di trattamento al ruolo centrale di vero e proprio scopo principale del trattamento giuridico. Il trattamento dovrà quindi essere astrattamente funzionale e concretamente adeguato alla tutela della salute mentale del prosciolto. Si afferma per la prima volta in modo chiaro, netto, il primato del diritto alla salute rispetto alle istanze di difesa sociale. Gli Opg, come qualunque altra struttura chiusa e segregante, anche totalmente sanitaria, potranno (o dovrebbero) essere utilizzati solo come extrema ratio, solo per i casi
ed i tempi strettamente necessari. (335)
Anche perché per la Corte, secondo una visiona forse troppo astratta ed idealizzata rispetto alle risposte istituzionali nei confronti del reo folle:
i soggetti gravemente infermi di mente non sono in alcun modo penalmente responsabili e dunque non possono essere destinatari di misure avente un contenuto anche solo
parzialmente punitivo, La loro qualità di infermi richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici.
(336)
Viene attenuato quindi il rigore di una norma che impone "sotto le vesti di una misura di sicurezza le
spoglie" di una vera e propria "pena manicomiale". (337)
Una pena manicomiale che comunque continua ad esistere.
Il merito della sentenza risiede nell'aver scorporato e nettamente separato, per la prima volta nel panorama dogmatico penale, i concetti di cura e di custodia, nell'averli per cosi dire isolati prima di affermarli connessi, impedendone quella commistione che era stata il nucleo originario dell'impalcatura non solo della struttura manicomiale ma dell'intero sistema delle misure di sicurezza sin dalla loro genesi. La Corte ne afferma la connessione ma nel far questo li separa. Sancisce, ripetendo quanto affermato nella 139/1982, l'inscindibilità delle due esigenze, delle due finalità suggerendone tuttavia una netta distinzione. Vi sono due dati esistenti e reali da prendere in esame: la malattia (o sofferenza ) mentale; la reazione della collettività di fronte al delitto. Esistono poi due correlati concetti normativi: il diritto alla salute; la pericolosità. Il primo si inserisce armonicamente nella struttura logica
irrazionalità. Una irrazionalità non legata solo all'ombra ingombrante del manicomio giudiziario, alla concretezza dell'istituzione totale, ma estesa a tutto il reticolo astratto della sua configurazione, dagli elementi che la costituiscono, ai metodi per accertarla, agli effetti che ne derivano. La continua rimozione del contenuto punitivo connesso alla difesa della collettività consente la totale elusione di ogni ordinario diritto di garanzia dei soggetti sottoponibili alla sanzione. Il poter, ora, non solo affermare il primato del diritto alla salute, ma anche individuare separatamente il correlato delle istanze di
sicurezza connesso alla commissione di un reato potrebbe consentire una seria riflessione circa il ripensamento della dimensione punitiva delle misure, impedendo le consuete mimetizzazioni dietro le affermate esigenze specialpreventive della cura.
Vi è stato chi, pur accogliendo favorevolmente la decisione ha sostenuto che attraverso di essa si arrivi ad un vero e proprio snaturamento dell'istituto della libertà vigilata, poiché essa si fonda sul
presupposto della capacità di autodeterminazione del soggetto destinatario, come dimostrato dagli artt. 190 disp. att. c.p.p., 212, comma 4, c.p. e 231 c.p. che presuppongono la capacità di
autodeterminazione, di scelta e di movimento del destinatario della misura. Snaturamento che viene comunque accettato in quanto conforme ad una interpretazione evolutiva costituzionalmente orientata delle norme in questione e dal fatto che da anni ormai, è dato acquisito che le terapie psichiatriche
siano più efficaci se fornite in situazioni aperte. (338)
A me pare che tale posizione possa essere messa in discussione anche nei suoi presupposti. Da un punto di vista giuridico normativo si può obiettare infatti : 1) che la libertà vigilata è già astrattamente applicabile al non imputabile nei casi di reato impossibile; 2) che la mancanza di autodeterminazione è circoscritta dall'art. 85 c.p. al momento della commissione del fatto non esistendo alcuna presunzione di persistenza di tale incapacità nell'ordinamento; 3) che già l'art. 55 dell'Ordinamento penitenziario prevede che i Servizi Sociali debbano svolgere una attività di supporto sostegno ed assistenza nei confronti di coloro che sono sottoposti alla libertà vigilata e che tale previsione possa agevolmente essere estesa ai Servizi Sanitari (anche in una attività in concerto fra i due servizi, vista l'ampliamento della nozione di pericolosità ai fattori genericamente situazionali). 4) che anche dal punto di vista civile gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione sono superati dalla previsione normativa
dell'amministratore di sostegno che presuppone la non totale privazione della capacità d'agire del malato mentale.
Da un punto di vista psichiatrico si può invece affermare, non solo la maggior efficacia del trattamento in libertà, ma anche la sostanziale antiterapeuticità dell'internamento se non la sua valenza patologica. Si può poi affermare che la capacità di autodeterminazione non può essere aprioristicamente negata clinicamente sulla base della malattia mentale, salvo casi rarissimi, anzi il riconoscimento
dell'autodeterminazione del sofferente psichico è il paradigma centrale di una psichiatria che non voglia strumentalizzare il paziente, come dimostra anche l'iter che ha portato alla 180 del 1978.
Inoltre con questa decisione si supera tendenzialmente una incoerenza creatasi nell'ordinamento che prevedeva per il sofferente psichico autore di reato, per il quale non fosse stata stabilita la mancanza di imputabilità, la possibilità di fruire un trattamento ambulatoriale o il ricovero in una struttura psichiatrica "civile" sulla base degli artt. 73 e 286 c.p.p. per poi dover essere necessariamente internato in un Opg
qualora venisse assolto e dichiarato pericoloso. (339) Situazione ancor più irrazionale se si prende in
considerazione il fatto che è impossibile stabilire una relazione causale tra malattia mentale e crimini
violenti. (340)
La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n 253, si fa carico di questa incongruenza affermando l'opportunità di una integrale riforma del sistema delle misure di sicurezza da parte del legislatore. "In
particolare di quelle destinate ai sofferenti psichici fagocitati dagli ingranaggi del sistema penale". (341)
Il meccanismo scelto dalla Corte per arrivare ad una valorizzazione della componente terapeutica delle misure riservate ai non imputabili consiste nell'ampliare il ruolo del giudice, nell'aumentare la sua discrezionalità, estendendola alla "determinazione in concreto della misura". Bilanciando in tal modo la discrezionalità amministrativa e securitaria della dichiarazione di pericolosità, con una discrezionalità in funzione di garanzia, di protezione del diritto individuale alla salute ex art. 32 Cost. Una discrezionalità vista come espressione dell'esigenza di un bilanciamento concreto tra diversi e spesso confliggenti valori costituzionali e come garanzia di certi diritti fondamentali nei confronti dei quali il Parlamento si
rivela incapace di porsi come esclusivo garante. (342)
L'introduzione della libertà vigilata ex art. 228 c.p. apre un ventaglio di percorsi terapeutici che consente
un trattamento progressivo e differenziato, (343) in questo senso possiamo parlare di proporzionalità
Di fatto la sentenza ha consentito che la magistratura - anche di sorveglianza - garantisca, attraverso la concessione della libertà vigilata in luogo dell'internamento in Opg, che non si interrompano quei rapporti spesso intercorrenti tra reo-malato e servizi psichiatrici, per la continuazione di un programma terapeutico, sovente in atto, che invece sarebbe troncato di netto a seguito del ricovero in Opg, vista la concreta mancanza di coordinamento tra Servizi psichiatrici territoriali ed Opg stessi e stante la
possibilità di venire internati in strutture fuori dalla regione di appartenenza. Per far questo la magistratura ha incluso nella misura della libertà vigilata prescrizioni accessorie quali :
"l'obbligo di mantenere i contatti con il Centro di servizio sociale per adulti territorialmente competente secondo la frequenza che sarà stabilita dal Centro stesso e comunque non meno di una volta al mese" e "l'obbligo di mantenere costanti contatti con il servizio