Massimiliano Zane filosofo, indirizzo in Scienze Umane, si è laureato a Cà Fo-scari, Venezia. Si occupa principalmente di Comunicazione e Relazioni sociali. Scrive saggi di comunicazione, di cultura e di arte e romanzi autobiografici. Il disagio posto a tema da Zane è il disagio della comunicazione. La tesi del-l’autore parte dall’ipotesi che la comunicazione sia di per sé un processo in-vasivo dell’altro e che, se nella dinamica comunicativa non si mette in conto la padronanza dell’atto cognitivo della comunicazione, l’individuo sarà colo-nizzato dalla dinamica comunicativa. Zane individua nell’emergere o meglio nell’aumento della comunicazione di servizio, rispetto a una comunicazione costruttiva, un rischio per l’adulto nella società attuale. La forza condizio-nante della comunicazione si situa là dove sembra priva di un valore di do-minazione, ovvero nell’informazione pura. La sede di questo non sono le scienze della comunicazione ma le tecnologie comunicative e la comunicazio-ne quotidiana.
La comunicazione/informazione non è mai comunicazione pura, è un processo rappresentativo sociale/personale, dunque sempre orientato. La sua matrice, di essere portatrice di una complessità di sensi, è causa di molti fattori di interfe-renze e rende difficile comprendere le reazioni degli individui. La sua connota-zione cognitivo/pragmatica rischia di esser sottoordinata all’enfasi del processo relazionale, il quale offusca la comprensione dell’importanza della dipendenza comunicazione-contesto. È nella comunicazione che le persone alimentano e modificano la loro rete di conoscenze e possono contribuire al costrutto comu-nicativo. Il contributo al costrutto comunicativo non si risolve in una semplice logica partecipativa, ma richiede la comprensione del costrutto cognitivo delle implicazioni comunicative. Zane parla di necessità di prendere coscienza dei moti per comprendere come e in che modo si prende parte a una conversazio-ne.
La capacità di spiegar-si le dinamiche cognitive che stanno dietro l’atto comuni-cativo fa emergere il livello formativo della dinamica comunicativa.
Per comunicare, dice Zane, bisogna creare una costruttività in ciò che si dice. Ciò dipende da alcune condizioni, innazitutto dalla poca predisposizione dell’ adulto a processi di adattamento, secondo da un incapacità dell’adulto di padro-neggiare come pensa la tecnologia comunicativa.
L’autore analizza con molta dovizia le condizioni comunicative della società del-la comunicazione e soprattutto il pericolo deldel-la società comunicativa che passa attraverso l’assunzione della formazione delle stese logiche comunicativo/infor-mative, logiche di colonizzazione dell’individuo. Il disagio comunicativo diven-ta dunque la connodiven-tazione ambigua dell’esistenza attuale. “Solo una reale e
“neu-tra” analisi delle relazioni che quotidianamente si vanno a tessere potrebbe di-venire una presa di coscienza dei nuovi volti assunti dalle strutture vincolanti l’intera esistenza dell’uomo, fornendogli anche le coordinate per smascherarle”.
Isabella Adinolfi, filosofa, insegna Storia della filosofia morale presso il Dipar-timento di Filosofia e T.d.S. dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha dedicato diversi lavori al pensiero di Kierkegaard e di Pascal. È socio fondatore della So-cietà Italiana per gli Studi Kierkegaardiani e dirige NotaBene, la rivista ufficia-le della medesima associazione.
Isabella Adinolfi nel testo Il soccombente. Note a margine di un romanzo di Thomas Bernhard sul disagio di vivere, pone il problema della difficile realizzazione del sé. Il romanzo parla di tre vite, un personaggio famoso Glenn Gould, un genio del pianoforte, l’incontro con Wertheimer, il suicida, e l’amico narrante Due sono soprattutto i racconti di vita nel romanzo, la storia di due esistenze, quella di Wertheimer e quella dell’amico narrante e del loro progetto di vita.
L’autrice sottolinea come, “per quanto elementare sia l’anima, per quanto im-personale sia la visione del mondo, ogni uomo ha un progetto nella vita. Se si è tra coloro che si abbandonano alla corrente, se è di quelli che non hanno opinio-ni proprie ma pensano sempre come gli altri, il progetto sarà semplicemente quello di trovare una fonte di sostentamento e di formarsi una famiglia. Vivere e riprodursi sarà insomma lo scopo principale. Ma vi sono anche uomini il cui progetto non è quello di vivere e riprodursi. Il loro desiderio è desiderio di ec-cellere, la loro volontà è la nietzschiana volontà di potenza”. E questa è stata la scelta dei due protagonisti pur con connotazioni e modi diversi. Nel personag-gio narrante la scelta è stata una forma di ribellione primaria contro la famiglia. “Vi sono altri uomini che per divenire loro stessi, per affermare la propria libertà, affermano se stessi contro tutto e contro tutti, In questo caso la ribellione con-tro la famiglia è stato il primo passo nella ricerca e nella realizzazione di se stes-so. Ma la scelta compiuta per dispetto si rivela presto come una scelta inauten-tica: innanzitutto come una scelta non libera, condizionata proprio da coloro a cui intendeva ribellarsi, i suoi genitori, semplicemente un andare nella direzio-ne opposta a quella voluta dall’ambiente familiare; secondariamente come una scelta che, essendo dettata da una situazione contingente, è limitata al momen-to. Una scelta “contro” infatti, proprio perché non è autonoma, non può mai es-sere definitiva”.
Disperazione è una parola chiave che ricorre spesso nel romanzo: disperato è Wertheimer, disperata è la sua concezione della vita; disperato è anche, come ab-FORME DEL DISAGIO
biamo visto, l’io narrante e infine disperato è lo stesso Glenn Gould, che a cau-sa del suo “radicalismo pianistico” finirà per isolarsi dal mondo e per condurre un’esistenza artificiale che lo condurrà precocemente alla morte.
I tre personaggi rappresentano tre modi diversi di vivere la disperazione, il disa-gio di esistere. La disperazione di chi è privo di speranza, quella tensione attiva che prepara e predispone il proprio futuro; quella volontà operosa che attende e lavora al compimento di sé.
Come si guarisce allora dalla disperazione? Dato che la disperazione è una ma-lattia, una scelta sbagliata, un vizio di cui l’io è colpevole, si guarisce da essa, se-condo Kierkegaard, solo con una scelta virtuosa, la scelta etico-religiosa: la scel-ta di se stessi nel proprio eterno valore.
La scelta dell’uomo etico è la conclusione dell’autrice, dunque una ri-presa, una ri-generazione, una ri-nascita.
Ciò da cui l’uomo etico diviene è se stesso come individuo immediato e ciò che diviene è se stesso come individuo morale.
Maria Martello insegna Psicologia dei Rapporti Interpersonali, alla SSIS del Ve-neto. Giudice Onorario presso la corte di Appello di Milano, è esperta di A.D.R., e conduce stage di formazione alla Mediazione dei conflitti.
Sue pubblicazioni sono Percorsi di civiltà (Milano, 1993) e di Nuovi percorsi di ci-viltà (Milano, 2002) Oltre il conflitto Dalla Mediazione alla relazione costruttiva (Milano, 2003), Intelligenza emotiva e Mediazione Una proposta (Milano 2004). Maria Martello nel saggio, L’insidioso disagio del normale vivere, analizza come il conflitto, il configgere, sia oggi l’emblema del disagio. La crescita esponenziale del conflitto, sottolinea l’autrice come del resto altri autori nel testo, è la conse-guenza di un cambiamento/perdita delle protezioni sociali codificate preceden-temente contro le angosce dell’incertezza e dell’ignoto. Incertezza e ignoto che, rotte le protezioni sociali, invade il territorio e si incunea negli spazi del vivere umano anche singolare o soprattutto singolare. La vita è naturalmente portatri-ce di condizioni di disagio, il problema emerge quando ci si scontra da impre-parati, da non coscienti. Una non coscienza perchè non si riesce a coglierne i se-gni. Basterebbe sottolineare l’aspetto dell’indifferenza “Essa entra lentamente, accompagnata dalla logica perversa del pensare a sé, si annida nei recessi più an-tichi dell’individualismo esasperato e legittima isolamento, violenza e terrore, che si legge nella molteplicità dei comportamenti del vivere quotidiano”. Mar-tello sottolinea come sia esattamente “l’indifferenza a fondare il potere della vio-lenza e il controllo scientifico dei comportamenti sociali di masse del tutto
elet-trodirette”. La comunicazione veicolata dalla pluralità e dalla innaturalità della relazione favorisce l’estendersi di processi di indifferenza e di riduzione del cam-po di ascolto e di dialogo.
Comprendere che il conflitto è parte della relazione che si è voluto instaurare di-venta un ambito significativo di riflessione. Riflettere su come gestirlo e orien-tarsi sempre verso la ricerca di un equilibrio, più che verso la rottura, diventa ne-cessario al fine di spogliare il conflitto da quell’idea di perdita o di morte in cui la società oggi sta precipitando.
Il conflitto insiste la Martello è diventata una piaga sociale, con il rischio di im-pedire rapporti, forme di conoscenza, innovazioni, risoluzioni. Porta a malattie dell’anima, a perdite etiche e identitarie. È urgente dice l’autrice pensare a un’e-ducazione del conflitto, un’eun’e-ducazione che vede nell’eun’e-ducazione delle relazioni la via per gestirlo. Per impedire che il conflitto diventi la via naturale delle rela-zioni quotidiane, il lavoro si gioca sul piano di riconoscere il fondamento emo-tivo della nostra intelligenza, la quale anche se permette il riconoscimento del valore positivo o negativo di un esperienza è anche quella che rischia di cadere nella trappola emotiva. La ricerca professionale dell’autrice, formatrice in ambi-to professionale giudiziario, individua nella formazione dei professionisti del va-lutare, del giudicare, del supportare, la necessità di una formazione alla media-zione, un profilo capace di tradurre l’impasse o la violenza verso una dimensio-ne di costruziodimensio-ne di un circuito virtuoso che diventi promotore di ulteriori e continue modificazioni nell’ambito del vissuto personale e soprattutto nell’am-bito delle competenze di tipo professionale.
Alberto Zatti è professore associato di Psicologia alla Facoltà di Lettere e Filo-sofia dell’Università degli Studi di Bergamo. Si occupa di ricerche sulle diffe-renze sessuali e sull’identità maschile.
Zatti nel sottolineare la trasformazione dei costumi sessuali nel corso dei tempi individua nell’educazione la forma della normalizzazione delle tensioni legate al piacere che Freud stesso riconosce attributo dell’infanzia e non solo dell’adultità. Tuttavia la concezione sessuale, se per anni è stata considerata segreti delle alco-ve, diventa con le ricerche Kinsey in primis, e con le lotte femminili, una con-dizione sociale che prefigura forme ideologiche di comportamenti e di uso in di-verse situazione, dalla libertà sessuale all’emancipazione, alle nuove forme di educazione.
L’equivoco della libertà sessuale diventa un topos dunque di una nuova analisi e FORME DEL DISAGIO
di una diversa comprensione di come le rappresentazioni condizionano la perce-zione di una sfera così privata personale, ma anche così sociale come la relaperce-zione sessuale. La libertà sessuale è un processo relazionale condizionato sì dalle rap-presentazioni di onnipotenza dei soggetti, ma altresì dai condizionamenti socia-li sempre più presenti nella nostra società, da quando il privato è diventato pub-blico. Le tre condizioni che Zatti propone si riconoscono in una concezione del-la sessualità come dimensione sottoposta alle logiche deldel-la redel-lazione, deldel-la re-sponsabilità e della forma del rispetto.
Zatti rilegge gli aspetti del condizionamento individuando la categoria dell’im-maginario come la potenza di indirizzare comportamenti dal passato e a tutt’og-gi dalle regole di azione all’incomprensione relazionale della sessualità odierna. La condizione della sessualità costruita su archetipi di riproduzione, di piacere di potere o di ideali va recuperata attraverso un’altra cultura del corpo, Zatti fa riferimento alla cultura tantrica per definire la necessità di educazione all’azione sessuale nella sua condizione relazionale. Nella sessualità, il pensiero nella sua condizione analitica di dividere, separare e gerarchizzare diventa diabolico e la necessità di recuperare un pensiero connettivo che lega diventa fondamentale so-prattutto nei confronti dei processi di educazione sessuale. In genere l’educazio-ne sessuale, sottolil’educazio-nea l’autore, si è dotata di due orientamenti: uno scientifico e l’altro morale. Rimettere la sessualità nella sua spiegazione simbolica, fa nasce-re quel collegamento che diventa virtuoso per le nasce-relazioni. La sessualità, consi-derata da sempre un luogo di unione, corre tuttavia il rischio di diventare sem-pre di più un luogo di separazione, se gli individui non escono dalla reificazione del sesso e ricostruiscono una narrazione mitica, attraverso un’educazione di una nuova relazionalità.
Giuseppe Dimattia è psicologo, psicoterapeuta, criminologo clinico e psicolo-go forense. Laureato in Filosofia e in Psicologia è specializzato in Criminologia clinica e ha una formazione in psicoterapia fenomenologia-esistenziale e in psi-coterapia reichiana. Esercita privatamente in Padova ed è Giudice onorario pres-so il Tribunale per i Minorenni di Venezia.
L’autore riconosce nel disagio alimentare una delle forme tra le più simboliche della nostra esistenza. Il disagio alimentare coinvolge non solo le funzioni vitali ma soprattutto quelle psicologiche e culturali che accompagnano l’individuo per tutto l’arco della vita, in ambito educativo, sociale, rituale, sacrale. La sua carica simbolica e rituale storicamente è stata assunta come significato sacrale nei riti pagani ed è poi continuata anche nei rituali cristiani. Di Mattia sostiene la
for-za antropoanalitica di questo simbolo nello sviluppo del soggetto umano, facen-do riferimento alle categorie kleiniane di percezione oggettuale ma anche come prototipo di base dei modelli relazionali.
Le fantasie che accompagnano nel corso della nostra storia i comportamenti ali-mentari accompagnano il soggetto anche nella sua vita adulta. La necessità pri-maria dell’oralità diventa una delle sensibilità sempre a rischio nella vita degli individui, rischio fisico ma anche e sopratutto rischio psicologico e cognitivo. Le metafore alimentari che accompagnano l’adulto crescono con la strutturazione dell’identità adulta; il cibo diventa una fonte metaforica di gratificazione di fronte ai moment critici della vita. La patologia alimentare si riconosce quando il cibo non funziona più da supporto, prescindendo dalla funzione alimentare stessa, ma quando diventa un comportamento identitario tout court: l’individuo si realizza attraverso le forme di non controllo o di evitamento del cibo. L’ali-mentazione da mezzo diventa il soggetto dell’azione, allora la patologia diventa un contesto di disagio per i soggetti stessi e per le relazioni personali e sociali che li attorniano. Vi è una difficoltà di leggere le patologie alimentari come ma-lattie sociali, mancano analisi integrate sulle cause e sulle terapie di recupero. L’autore legge le principali patologie legate al disagio odierno, in particolare la bulimia e l’anoressia, evidenziando alla base un significato comune.
Nelle patologie alimentari il disagio è la rappresentazione di un doppio vincolo: l’allontanamento del sé, da una relazionalità e la necessità di autorealizzazione anche a scapito di una realizzazione nel disagio. La condizione di stretto margi-ne di libertà, margi-nel quale i pazienti si riconoscono, definisce lo spazio di zione del sé. Il disagio diventa così una imperfezione della capacità di realizza-zione rispetto ai propri bisogni.