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Franco Sanlorenzo

Nel documento Cronache Economiche. N.001-002, Anno 1976 (pagine 46-53)

Premessa.

Il dibattito attorno alla « questione commer-ciale » che, per molti anni è stato appannaggio di una troppo ristretta cerchia di economisti e tecnici del settore, è diventato finalmente argo-mento per una discussione di maggior respiro ed è quindi sperabile che conduca a risultati più incisivi.

Col trascorrere del tempo e soprattutto con l'ag-gravarsi della situazione economica alcuni grossi temi connessi con l'interdipendenza fra sistema distributivo e sistema economico nel complesso sembra possano trovare una più precisa colloca-zione a livello politico-sindacale, nell'ambito delle riforme di struttura.

Si tratta di un risultato indubbiamente positivo che, a mio avviso, potrà dare origine anche ad importanti sviluppi, nella misura in cui si rafforza il decentramento politico-amministrativo a livello regionale e degli Enti locali.

Al riguardo, nell'ambito del sistema distribu-tivo, la normativa predisposta con la legge 426 del 1971 rappresenta un indirizzo positivo con-dizionato tuttavia dalle molte imperfezioni ancora presenti nello strumento di regolamentazione del-la legge.

Certamente il problema è assai complesso ed il ritardo con cui, in qualche modo, ci si dispone a porre rimedio rende anche più difficile l'indivi-duazione delle terapie adatte; terapie che tengano cioè conto che la ristrutturazione dell'apparato commerciale non equivale alla sostituzione di mac-chinari o di attrezzature obsolete con altre tecno-logicamente più aggiornate, ma che implicano il taglio più o meno cruento di rami secchi nonché la sostituzione di modelli commerciali che sono nati o sono stati improntati da modelli, usi, espe-rienze sociali ed esistenziali (basti pensare al peso che nel settore commerciale ha la derivazione agricola, il fattore immigrativo, il ricupero di

part-time che, insieme, hanno conferito la carat-teristica preminente di « conduzione familiare » tutt'oggi nettamente predominante).

Riformare il sistema distributivo significa quin-di procedere ad una operazione che, nella sua sostanza interessa una parte del tessuto sociale e che, oltre a sicure implicazioni positive per il sistema socio-economico nel suo complesso, fa emergere alcuni non facili problemi fra i quali un maggior appesantimento del mercato del lavoro. Tale ultimo aspetto, da solo, è già sufficiente ad ampliare la portata delle considerazioni soprat-tutto nella attuale fase negativa del ciclo econo-mico in cui, con sempre maggior durezza, balzano alla ribalta i problemi occupazionali.

Sotto questo profilo, appare evidente che per quanto ritenuta urgente ed indispensabile, la ri-forma del commercio potrà subire un ulteriore parziale rinvio.

Sistema distributivo e sviluppo socio-economico regionale.

È fuori dubbio che le possibilità di una pro-fonda modificazione delle attuali strutture distri-butive è legata, come si è detto, oltre alle peculia-rità del settore, anche e soprattutto alla prevedi-bile dinamica del sistema socio-economico nel suo complesso.

Ne deriva che la costruzione di un nuovo mo-dello di sistema distributivo implica l'approfon-dimento di due livelli di conoscenza:

1) in primo luogo è necessario individuare e valutare le cause socio-economiche che hanno influito sull'organizzazione dell'attuale assetto di-stributivo, nonché di individuare i mutamenti, avvenuti o prevedibili, nel meccanismo di svi-luppo, ed il loro grado di coinvolgimento con il sistema distributivo stesso;

2) in secondo luogo occorre prospettare le necessarie soluzioni di ricambio in modo che il passaggio ad una nuova struttura distributiva possa avvenire in modo da minimizzarne il costo sociale.

Complessivamente considerato, il grado di svi-luppo, il ruolo economico ed il livello di efficienza con cui si è configurato il settore commerciale in Piemonte è strettamente interrelato con lo svilup-po assunto dal settore industriale e con tutte le implicazioni che ciò ha comportato in termini di esodo agricolo, immigrazione, inurbamento, livelli di reddito, modelli di consumi.

Alcuni di questi effetti collaterali, prodotti dal processo di industrializzazione della regione, non sottoposti ad una coerenza di piano, hanno infatti posto le premesse per il moltiplicarsi di inizia-tive di intermediazione a bassa produttività; tali iniziative se da un lato hanno indubbiamente con-tribuito ad ammortizzare parte degli effetti nega-tivi prodotti sul mercato del lavoro dalle imper-fezioni dello sviluppo socio-economico, dall'altro lato hanno altresì prodotto una accentuazione delle tensioni inflazionistiche, sfruttando i mar-gini resi disponibili dalla dinamica crescente dei redditi.

Tra il 1951 ed il 1961 si è quindi verificato in Piemonte un progressivo aumento del grado di terziarizzazione dell'economia che è avvenuto soprattutto ad opera del cosiddetto « terziario povero », di cui le attività commerciali hanno rappresentato una delle componenti di maggior rilievo numerico.

Nelle sue linee generali l'economia piemontese ha ripetuto l'esperienza tipica dei paesi in via di sviluppo per cui, soprattutto nelle prime fasi del processo di industrializzazione, gli spostamenti di forza lavoro dai settori e dalle aree più arre-trate inducono ad un eccesso di offerta di lavoro, rispetto alla capacità di assorbimento da parte del settore industriale (')•

Tale meccanismo, in assenza di opportuni in-terventi correttivi, tende a produrre una propria autoregolamentazione spingendo la forza lavoro non occupata, sottooccupata o marginale ad una collocazione in quei settori dove « entry barries are very low », vale a dire nelle attività commer-ciali, ed in particolar modo nelle forme più sem-plificate del dettaglio familiare (2).

Rispetto a queste tendenze ora descritte, la situazione socio-economica piemontese ha subito

alcune peculiari sollecitazioni provocate, in primo luogo, dal grave stato di arretratezza dell'econo-mia agricola (che ha spinto oltre misura l'esodo di manodopera con conseguente spinta all'inur-bamento); in secondo luogo, da una netta dispa-rità nella distribuzione dei redditi fra le diverse aree regionali, e rispetto alle altre zone meno in-dustrializzate del paese (che ha spinto in modo disorganico il processo immigratorio).

Anche nel decennio successivo (1961-1971) in cui si è attuato un maggior consolidamento del livello industriale, il processo di terziarizzazione è ancora stato di tipo « estensivo » (labour inten-sive), sollecitato sia da problemi occupazionali che dall'aumentato livello dei consumi.

La partecipazione del sistema distributivo alla crescita del settore terziario in questo secondo decennio, per quanto sensibilmente più ridotta, appare tuttavia ancora rilevante, con un incre-mento superiore alle 30.000 unità lavorative, che portano ad un totale di circa 250.000 gli occupati al 1971, pari al 42,4% dell'occupazione terziaria; di questi, più di 150.000 sono occupati nelle atti-vità commerciali al dettaglio tradizionale di tipo artigiano familiare (3).

Complessivamente dunque, il settore commer-ciale in Piemonte (come del resto in Italia) ha costituito l'ossatura delle attività di intermedia-zione e le caratteristiche del suo sviluppo non sono che un aspetto particolare della funzione che l'intero settore terziario ha giocato e gioca nel meccanismo di sviluppo regionale.

(') Cfr. R. H. HOLTON, Marketing structure and Economie

Development, « Quarterly journal», august 1963.

(2) Cfr. NORMAN L. COLLINS, Impact of economie grow upon

the structure of italian distributive sector, Università di Napoli,

1972.

(3) Occupazione regionale (differenze assolute)

Settori 1951-1961 1961-1971 Agricoltura - 171.611 - 123.000 Industria + 232.709 H- 81.145 Terziario + 100.894 + 83.027 TOTALE + 161.992 + 41.172 Comparti 1951-1961 1961-1971 Attività commerciali + 60.000 + 31.000 Resto terziario + 41.000 + 52.000 TOTALE TURZIAKIO + 101.000 + 83.000 Elaborazioni su dati Ires.

Secondo recenti stime dcll'lrcs. l'occupazione noi settore com-merciale in Piemonte al 1975 dovrebbe aggirarsi attorno a 256.000 unità circa, pari al 41% del settore terziario in complesso.

Cfr. Ircs, Quadro di riferimento per il Plano Regionale

Non a caso dunque negli studi per il piano re-gionale (4) si sottolineava la sostanziale differenza fra il progressivo aumento del grado di terzia-rizzazione dell'economia regionale ed i livelli di terziarizzazione dei paesi ad economia più pro-gredita.

Infatti l'aumento di servizi terziari che in questi ultimi è dato registrare, viene solitamente assunto come uno degli indicatori del maggior grado di sviluppo socio-economico del sistema nel suo complesso; e ciò in quanto l'aumento della produttività degli altri settori economici e la mag-gior complessificazione dei processi produttivi e della conseguente domanda sociale induce ad un più elevato e diversificato numero di servizi di supporto. Si tratta tuttavia di servizi ad alta spe-cializzazione tecnologica che passano sotto il no-me di « terziario superiore », comprendendo, tra gli altri, le funzioni di ricerca di base, ricerca operativa e programmazione, l'organizzazione del tempo libero e degli sports, l'organizzazione della prevenzione e cura della salute pubblica, il mar-keting, l'advertising, il consulting ecc.

Come appare, si tratta di servizi che non solo funzionano da « relais » fra le varie componenti e le strutture socio-economiche ma sono a loro volta in grado di indurre delle spinte innovative e diversificate nella struttura industriale.

Secondo gli estensori del Piano previsivo regio-nale al 1980 (s), una politica di riqualificazione dei servizi è ormai indilazionabile per non com-promettere le possibilità stesse della ripresa eco-nomica.

E ciò per due ordini di considerazioni: « in primo luogo perché il settore terziario, nel com-plesso risulterebbe essere ancora in grado di garan-tire l'assorbimento di una quota non indifferente di forza lavoro; in secondo luogo perché se è vero che la creazione di domanda è possibile che si realizzi mediante settori ad alta intensità di occu-pazione (legati appunto alle attività terziarie ed al commercio in particolare) è anche vero che uno sviluppo ' non guidato ' (e qualificato) di tale settore produce, come è avvenuto per il passato, il moltiplicarsi di meccanismi di pura intermedia-zione che tendono ad accentuare le tensioni infla-zionistiche ».

Tra questi meccanismi il comparto della distri-buzione che, all'interno del terziario, rappresenta una delle funzioni di intermediazione a livello più elementare, è quello che più ha subito i

condizio-namenti e la influenza di fattori esterni all'econo-mia del settore.""

È quindi su tale comparto che si dovrà interve-nire per non vanificare a livello di intermedia-zione, i tentativi di razionalizzazione dei settori produttivi sia agricolo che industriale.

Problemi ed obiettivi per una pianificazione com-merciale a livello regionale.

La pianificazione del sistema distributivo, per le sue stesse peculiarità, non può essere conside-rata semplicemente come uno strumento setto-riale.

Su tale problema intervengono infatti tre ordini di componenti fra di loro strettamente collegati:

a) la componente economico-strutturale; b) la componente urbanistico-territoriale;

c) la componente sociale.

Sotto il primo profilo si tratta di restituire al settore distributivo quella funzione di intermedia-zione economica che è andato parzialmente per-dendo a causa del peso di fattori esterni che -—• come si è osservato — ne hanno caratterizzato lo sviluppo.

Sotto il profilo urbanistico-territoriale occorre ridisegnare, mediante una attenta zonizzazione funzionale, le strutture commerciali secondo op-portuni livelli gerarchici e all'interno di una più generale politica dei servizi terziari, sia pubblici che privati.

Sotto il profilo sociale, che informa gli altri due aspetti, il significato della pianificazione ciale è orientato a ridurre le distanze tra commer-ciante e consumatore, potenziando la produttività del primo, a condizione che se ne abbia una chiara trasparenza sui prezzi al consumo.

Per quanto concerne la funzione economica, è chiaro che la crescita numerica avvenuta sotto il regime delle licenze comunali è stata determinata soprattutto da « uno stato di necessità »; come conseguenza, la scelta ubicazionale è stata più orientata dalla disponibilità di spazio che non da opportune decisioni programmate; nella grande maggioranza dei casi il costo delle aree o il livello degli affitti ha negativamente influito sulla scelta

(4) Ires, Rapporto per il Piano di sviluppo del Piemonte, 1967; Ires, Rapporto preliminare per il Piano 1970-1975, maggio 1972; Ires, Rapporto per il Piano Regionale 1974-197S, febbraio 1974.

della dimensione dei locali; la necessità di ridurre al minimo i costi di gestione ha spinto alla carat-terizzazione artigiano-familiare dell'impresa com-merciale.

Sulla base di tale modello di sviluppo, l'appa-rato distributivo al dettaglio piemontese è passato da circa 48.000 a quasi 70.000 unità di vendita tra il 1951 ed il 1971, con un incremento di circa il 4 0 % .

Uno sviluppo numerico cosi intenso, indipen-dentemente da altri fattori, costituisce la prima strozzatura contro cui si impatta oggi il settore in quanto, la spiccata frammentazione del mercato ha portato ad una progressiva riduzione della pro-duttività dell'impresa commerciale media.

« Sotto questo profilo è entrata in crisi l'im-presa commerciale nella sua duplice funzione di

impresa privata (il cui risultato si estrinseca nella

capacità di una adeguata rimunerazione dei fat-tori d'impresa, in regime di concorrenza) e di

ser-vizio pubblico reso ai consumatori (il cui risultato

si misura sulla base del livello di risposta alla domanda del consumatore e del costo rela-tivo) » (6).

Siamo cioè in presenza di aspetti negativi che, anche per le mutate condizioni economiche gene-rali, incominciano ad incidere sugli imprenditori marginali, oltre che sui consumatori; i primi ve-dono ridursi la propria quota di mercato, per cui con sempre maggiori difficoltà riescono a ripar-tire i costi crescenti, pur aumentando i ricarichi medi; i secondi, sperimentano direttamente le dif-ficoltà del settore in quanto su di essi gravano — in termini di prezzo finale — le quote cre-scenti di costo di tutta la catena commerciale.

Le conseguenze sui prezzi delle disfunzioni presenti nel sistema distributivo sono rese anche più marcate nelle aree a più intensa urbanizza-zione in cui si accentuano le imperfezioni della concorrenza di mercato, le rendite di posizione e le manovre di tipo speculativo.

La messa a punto di una politica di Piano che possa incidere sulla realtà del commercio, cosi come si è venuta delineando, implica — come si è detto — un insieme coordinato di interventi volti a modificare il regime di mercato (rimozione delle imperfezioni concorrenziali), operando sulle categorie imprenditoriali che attualmente lo carat-terizzano: il dettaglio tradizionale autonomo; il

dettaglio organizzato-, il «grande dettaglio»; il commercio ambulante.

Sicuramente l'attivazione di una maggior

fun-zione concorrenziale può essere meglio garantita, conservando un sistema distributivo elastico e multifunzionale (compresenza, all'interno del si-stema, di strutture commerciali diversificate per dimensione e organizzazione), in grado di cogliere le esigenze emergenti dai diversi livelli di con-sumi (con particolare riguardo al largo e generale consumo) e dalle differenti caratteristiche terri-toriali e demografiche in cui si articola la Regione.

È indubbio tuttavia che la conservazione di una struttura tipologicamente differenziata deve tut-tavia garantire una profonda modifica degli attuali livelli medi di produttività dell'impresa

tradizio-nale (aumento della dimensione minima in

fun-zione della diversa specializzafun-zione ed organiz-zazione delle vendite), ed una diversa considera-zione degli effetti di polarizzaconsidera-zione territoriale e di aggregazione dei consumi su cui si è fondato, finora, l'esperienza del « grande dettaglio ».

È altresì importante sottolineare che la pro-grammazione del settore commerciale — come condizione per il contenimento dei prezzi — non può limitarsi al rinnovamento delle strutture finali, in quanto è l'intero « iter » commerciale che condiziona una grossa quota dei prezzi al consumo.

Le stesse strutture del commercio all'ingrosso hanno in parte seguito la polverizzazione dei punti di vendita al dettaglio, producendo un allunga-mento della catena di distribuzione.

Poiché le possibilità di pianificazione regionale al livello dell'ingrosso sono attualmente assai ri-dotte, occorre pertanto privilegiare quelle forme di integrazione associala o cooperativa che per-mettono di ottenere risultati di maggior portata anche per ciò che concerne l'organizzazione a monte del consumo finale.

Nel quadro di relazioni cosi complesse ed arti-colate come quelle che si sono individuate nel-l'ambito del sistema distributivo, l'efficacia di un intervento programmatorio, soprattutto nella fase iniziale, dovrebbe tendere ad armonizzare tali relazioni in un disegno complessivo.

E ciò, tenendo conto degli interessi spesso di-vergenti fra le diverse categorie di imprenditori che operano sul mercato (dal dettagliante auto-nomo, ai gruppi associali e cooperativi, ai gruppi finanziari del grande dettaglio, agli operatori am-bulanti) e le attese del consumatore.

C') CFR. FRANCO SANLORENZO, Orientamenti per una attiviti) eli

coordinamento dei Piani di adeguamento commerciali ai sensi della legge 426, Ires, maggio 1974.

D'altro canto le molte imperfezioni ancora esi-stenti nella normativa giuridica prevista dalla 426, hanno finora in parte limitato queste possibilità di organizzazione regionale; e ciò in quanto nella costruzione dei Piani comunali o nelle attività delle apposite commissioni, sono emerse posizioni estremamente differenziate di interpretazione dei problemi commerciali, che vanno dal sostegno di linee efficientistiche e innovative a forti tendenze conservatrici. Al contrario è chiaro che il pro-blema che si pone a livello di programmazione è quello di stabilire una linea di interventi che prenda le distanze tanto dalla tendenza liberista (sostenuta dai gruppi finanziari sia pubblici che privati) nella misura in cui si esprime una « razio-nalizzazione » del settore intesa come strumen-talizzazione degli ampi margini di sottosviluppo presenti nell'apparato distributivo tradizionale, senza significative garanzie circa il livello dei prezzi al consumo; quanto dalla tendenza

prote-zionista se, con l'obiettivo della difesa dei piccoli

commercianti tradizionali, finisce per provocare una situazione di « stallo » in cui vengono morti-ficate anche le propensioni degli imprenditori più attivi a meglio dimensionare e ristrutturare i punti di vendita.

Appare evidente che il superamento delle at-tuali difformità di indirizzo potrebbe avvenire con la definizione di un « Piano quadro a livello

com-prensoriale », in cui verrebbe a coordinarsi tanto

l'esercizio del « nulla osta » e la funzione arbitrale previsti dalla legge, quanto quelle « indicazioni

programmatiche e di urbanistica commerciali »,

previste dal Regolamento di attuazione.

Lo strumento degli incentivi finanziari (attual-mente esiste la legge regionale n. 47 del 4-6-75, ma potrebbe essere previsto anche l'intervento della Finanziaria Pubblica regionale) verrebbe a costituire un efficace mezzo per assicurare un mi-nimo di coordinamento sugli obiettivi preposti dal Piano.

Gli obiettivi che dovrebbero realizzarsi attra-verso ad una programmazione comprensoriale potrebbero cosi articolarsi:

a) riduzione del grado di marginalità del

sistema, soprattutto nel settore dei generi

alimen-tari, disincentivando l'apertura di punti di

ven-dita despecializzati inferiori a certe superfici mi-nime (ad esempio 100-150 mq), con opportune eccezioni per zone rurali e montane, per aree di nuova urbanizzazione e quando ciò fosse

richie-sto per conferire una più accentuata elasticità al sistema distribUtìVo in funzione dei consumatori. b) Per contro si dovrebbe invece puntare su punti di vendita a libero servizio di dimensioni medie (200-400 mq), in quanto sono in grado di attivare una funzione concorrenziale nelle aree ad elevato grado di polverizzazione; non solo ma permettono altresì una ristrutturazione del siste-ma con la partecipazione degli attuali operatori commerciali, eventualmente associati, senza in-durre a forzati pendolarismi, anzi prestandosi ad una organizzazione integrata con altri servizi so-ciali, soprattutto in aree a più intensa urbaniz-zazione.

c) Particolare attenzione dovrebbe essere invece riservata ai supermercati superiori ai 1000 mq, per gli effetti più dirompenti che tali impianti possono produrre sia a livello territo-riale (modificazione dell'arredo urbano, modifi-cazione di flussi di traffico, attivazione di specu-lazioni immobiliari ecc.) che a livello socio-eco-nomico (aumento di pendolarismi commerciali; congestione, impatto sull'equilibrio commerciale dell'area d'influenza).

d) L'aumento del grado di

despecializza-zione nel settore dei beni non alimentari dovrebbe essere sostenuto, soprattutto mediante superfici intermedie, inferiori ai 1000 mq.

e) Nettamente sfavorevole dovrebbe essere

l'indirizzo di politica commerciale nei confronti dei grandi centri di vendita decentrati, tipo

shop-ping center, ipermercati o altre macro-strutture

che, sebbene non intervengano direttamente sul consumo finale, possono produrre una forte accen-tuazione dei problemi già annotati per i super-mercati.

Con tutto ciò, anche nei confronti di queste macro-strutture, si possono dare casi oggettiva-mente proponibili e sui quali è opportuna una valutazione complessiva di validità, mediante una analisi comparata dei problemi territoriali e socio-economici.

/) Una articolata politica di riassetto com-prensoriale del commercio non può prescindere da una attenta riconsiderazione del ruolo che com-pete all'ambulantato (fisso o itinerante) e ai mer-cati alimentari, per il peso che queste strutture possono esercitare sul contenimento dei prezzi;

Nel documento Cronache Economiche. N.001-002, Anno 1976 (pagine 46-53)