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5.1 Un’introduzione agli strumenti italiani di politica abitativa pubblica

5.1.1 Gestione e mutamento del bisogno di casa in Italia

Seppur risalgano alla seconda metà dell’800 i primi interventi volti a dare risposta al fenomeno della deprivazione abitativa, rimangono tre le modalità di gestione “chiave” del bisogno in Italia. Tramite l’edilizia convenzionata settore pubblico e settore privato (su input di quest’ultimo) trovano l’accordo necessario a soddisfare le esigenze di alcune fasce di popolazione: generalmente i costruttori privati ricevono agevolazioni per costruire alloggi da assegnare, con specifici limiti e requisiti, a predefiniti target di nuclei famigliari. Tramite l’edilizia agevolata è lo Stato ad attivarsi per il reperimento di risorse da destinare alla costruzione di quelle che diverranno “prime case” grazie allo strumento del mutuo a tasso agevolato. Tramite l’edilizia

sovvenzionata, infine, Stato ed enti territoriali si fanno del tutto carico delle spese di

costruzione di alloggi da destinare a fasce di popolazione considerate svantaggiate. Raramente lo Stato italiano si è totalmente fatto carico della costruzione di alloggi, usufruendo invece molto più spesso degli strumenti dell’edilizia convenzionata o di quella agevolata. Fino agli anni ‘50 l’impegno (economico) del paese è stato praticamente nullo (Mediobanca, p. 40), ma è comunque del periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni ’60 quello in cui è stato registrato il maggiore investimento nell’ambito. Il periodo post-bellico è infatti stato dedicato alla ricostruzione ma anche alla diffusione del bene casa come istituzione accessibile a tutti. Il Piano Ina-Casa, forse il momento di maggiore investimento pubblico nel settore abitativo, varato su impulso del Ministero del lavoro e approvato dal Parlamento italiano con la legge 28 Febbraio 1949 n. 43, era un programma di costruzione basato sui contributi dei lavoratori e permise la creazione di 335.000 nuove abitazioni. Il piano, di durata settennale e poi di fatto raddoppiato nella sua validità, venne sostituito dal decennale Piano Gescal (GEStione CAse per i Lavoratori), lanciato con la legge 14 Febbraio 1963 n. 60, finanziato in modo simile al primo e poi di fatto portato avanti fino al 1992.

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Il dopoguerra, e in particolare il periodo compreso tra gli anni ’50 e gli anni ’60 del ‘900, risulta proprio quello del boom edilizio in Italia: se dopo il secondo conflitto mondiale le abitazioni di buona qualità erano infatti 35 milioni a fronte di una popolazione di 45 milioni di individui (Baldini, 2010), tra gli anni ’70 e gli anni ’80 l'espansione edilizia aveva definitivamente superato quella demografica (Ibidem). Dopo il primo, ma soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, infatti, l’obiettivo principale è stato quello di indirizzare le famiglie verso l’acquisto dell’abitazione (Ibidem; Tosi 1993).

Oggi, seppur a fronte di un’inversione di tendenza che vede la popolazione diminuire, lo stock abitativo non ha mai arrestato la sua crescita: tra la rilevazione censuaria del 2001 e quella del 2011 è stato registrato un aumento dell’8,6% degli edifici residenziali, pari all’84,3% del totale; è inoltre diminuita la quota di quello stock inutilizzato perché cadente, in rovina o in costruzione, passato dal 5,7% al 5,2% del totale. I proprietari di casa continuano al contempo a crescere: dal 1951 al 1991 sono passati dal 40% al 68% e all’ultimo Censimento della popolazione e delle abitazioni del 2011 erano il 72,5% del totale. Le soluzioni abitative insomma aumentano, almeno a livello quantitativo, allo stesso tempo, però, sembra che il disagio abitativo sia sempre più pressante e coinvolga sempre più gruppi sociali. L’ipotesi più attendibile è che a fronte di molteplici domande di casa, rimanga tutt’oggi possibile un’unica offerta, quella della casa in proprietà (Guerzoni, 2013), soluzione non praticabile in questo periodo storico da molti gruppi sociali e ormai sempre più spesso neanche l’opzione migliore per molti.

L’housing sociale, ovvero la principale risposta per chi soffre di disagio abitativo, in Italia ha ricevuto una definizione ufficiale solo con il D.M. 22 aprile 2008, di cui si riporta parte dell’articolo 1:

“E' definito «alloggio sociale» l'unita' immobiliare adibita ad uso residenziale in locazione permanente che svolge la funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato. L'alloggio sociale si configura come elemento essenziale del sistema di edilizia residenziale sociale costituito dall'insieme dei servizi abitativi finalizzati al soddisfacimento delle esigenze primarie.” (c. 2)

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“Rientrano nella definizione di cui al comma 2 gli alloggi realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche - quali esenzioni fiscali, assegnazione di aree od immobili, fondi di garanzia, agevolazioni di tipo urbanistico - destinati alla locazione temporanea per almeno otto anni ed anche alla proprieta'.” (c. 3)

“L'alloggio sociale, in quanto servizio di interesse economico generale, costituisce standard urbanistico aggiuntivo da assicurare mediante cessione gratuita di aree o di alloggi, sulla base e con le modalita' stabilite dalle normative regionali.” (c. 5)

Seppur l’housing sociale comprenda al suo interno diversi “mezzi” di azione, l’ERP rimane il principale strumento di welfare tramite cui rispondere al disagio abitativo. Lo stock abitativo pubblico posseduto colloca l’Italia “agli ultimi posti delle classifiche europee per la percentuale di alloggi sociali calcolata sul totale dello stock in affitto – assieme a Spagna, Portogallo e Grecia, non a caso i paesi con le situazioni economiche più critiche” con meno del 5% di alloggi popolari “contro una media intorno al 25% degli altri paesi” (Federcasa 2015, p. 4).

Non sappiamo se questo strumento di politica pubblica sarebbe stato sostenibile sul lungo periodo, né se avrebbe risolto le problematiche abitative odierne, ma all’indomani del 199339, ed esattamente tra il 1994 e il 2003, l’Italia ha (s)venduto

oltre 100.000 alloggi pubblici (Guerzoni, 2013) e, solo oggi, è evidente quanto sia arduo rispondere a “tutto” il disagio abitativo esistente: nell’anno 2015 Federcasa (2015) individuava in circa 650.000 le domande di casa in attesa di assegnazione in Italia, parlando al contempo di una chiara sottostima. Ciò nonostante l’esistenza di diverse misure volte alla riduzione del bisogno abitativo40, la finanziarizzazione di

39 La legge 24 Dicembre 1993, n. 560 “Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica”, all’art. 4 riportava “Le regioni, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, formulano, su proposta degli enti proprietari, sentiti i comuni ove non proprietari, piani di vendita al fine di rendere alienabili determinati immobili nella misura massima del 75 per cento e comunque non inferiore al 50 per cento del patrimonio abitativo vendibile nel territorio di ciascuna provincia.” (pur obbligando gli enti locali ad usare gli introiti per altri programmi nel medesimo settore -art. 5-). Si segnala inoltre la legge 23 Dicembre 2005, n. 266 (meglio conosciuta come Legge finanziaria 2006), all’interno della quale al comma 600 dell’art. 1 vengono date indicazioni per “consentire la corretta e puntuale realizzazione dei programmi di dismissione immobiliare” del patrimonio di edilizia residenziale pubblico.

40 A scopo informativo si vedano le normative: L. 8 Febbraio 2001, n. 21 “Misure per ridurre il disagio abitativo ed interventi per aumentare l’offerta di alloggi in locazione”; L. 8 Febbraio 2007, n. 9 su “Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali”; Decreto Legge 25

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diversi strumenti di supporto all’abitare41 e l’esclusione dei “grandi” poveri dalle

politiche che contrastano il disagio abitativo, per loro natura poco sociali (Tosi, 2017).