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Riflessioni a margine sugli effetti di una eccessiva attenzione

Una tra le conseguenze negative più diffuse delle politiche dirette ai quartieri svantaggiati è quella di amplificare, piuttosto che diminuire, uno degli effetti quartiere più noti in assoluto, quello della stigmatizzazione. Lo stigma, il marchio che viene

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attribuito in questo caso a un territorio, opera principalmente secondo due meccanismi: da una parte inficia la visione interna degli abitanti riguardo il loro stesso ambiente di vita; dall’altra parte influenza la visione esterna del luogo, finendo per limitare anche le opportunità che chi lo vive ha fuori dal quartiere di residenza. Skifter Andersen (2008) ricorda al riguardo i tipi di immagini che i residenti possono avere del luogo in cui risiedono: un’immagine “interna”, in comune con quella degli altri vicini; un’immagine “esterna”, simile a quella di coloro che vivono fuori dal quartiere; un’immagine “auto-riflessa”, l’immagine cioè che credono gli altri abbiano di loro. La reputazione, simile al concetto di immagine esterna (Ibidem), è più che una semplice “visione dell’area”, poiché non solo non coincide necessariamente con i tratti del quartiere, ma è il risultato di ciò che, una volta percepito esternamente, risulta condiviso a livello collettivo. La reputazione può di fatto inficiare sia l’immagine interna, sia l’immagine auto-riflessa dei residenti e contribuire alla sensazione di benessere degli abitanti nell’area. Spesso, inoltre, la reputazione del quartiere viene utilizzata per individuare lo status di chi vive il quartiere stesso, quindi essere fonte di stigmatizzazione non sono territoriale ma anche individuale.

La visione esterna può insomma sia diventare una lente di ingrandimento per i problemi di cui possono essere caratterizzate alcune aree urbane, sia fungere da specchio e riprodurre l’immagine percepita esternamente anche tra chi vive il quartiere in questione. Lo stigma, in quanto “marchio” con accezione profondamente discreditante (Goffman, 1963), ha quindi un ruolo fondamentale sia perché non per forza costruito su dati di fatto, sia perché difficilmente smantellabile una volta condiviso nell’ambiente urbano. In questi casi la percezione del “disordine” interno a un quartiere non dipende soltanto dall’osservazione del disordine stesso, bensì dalla percezione che dall’esterno si ha del quartiere; inoltre, attraverso un processo di “ecological contamination” siamo più facilmente portati a traghettare le caratteristiche che immaginiamo di uno spazio fisico a chi lo vive o semplicemente a chi si vede internamente all’area oggetto di attenzione.

“Ascending from ground level to the higher reaches of government, the denigration of place impacts:

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(1) the residents of defamed districts by corroding their sense of self, warping their social relations, and undercutting their capacity for collective action, as it sparks strategies of coping that tend to validate, amplify, and proliferate the discredit at its core, even as some strive to disregard or to resist spatial stigma;

(2) the surrounding urban denizens and commercial operators, as evidenced, for instance, by patterns of avoidance among neighbors and ‘address discrimination’ by employers;

(3) the level and quality of service delivery of street-level bureaucracies such as welfare, health care, and the police (who are wont to deploy intensive surveillance and aggressive tactics that would be unacceptable in other sectors of the city);

(4) the output of specialists in symbolic production, including journalists, scholars, policy analysts, and politicians; and, last but not least,

(5) the beliefs, views, and decisions of state officials and, through them, the gamut of public policies that, combining with market and other forces, determine and distribute marginality and its burdens.” (Wacquant et al. 2014, p. 1275)

Oggi soprattutto Wacquant dà una lettura in parte alternativa di ciò che identifica come “advanced marginality”, una forma di relegazione socio-spaziale frutto dello sviluppo non equo delle economie capitaliste e del collasso del welfare state. Wacquant guarda alla produzione dello spazio urbano come a una questione fondamentalmente politica, poiché considera la “relegation” non come uno stato innato, bensì come il frutto di un’attività collettiva (Wacquant, 2016).

I programmi di riqualificazione urbana che sempre più rappresentano una delle principali modalità tramite cui eliminare lo stigma di cui alcuni luoghi soffrono, in realtà spesso finiscono per “riqualificare”, proprio nel senso di “ripulire” il quartiere rispetto a ciò che al suo interno non funziona. In questo modo quello che spesso accade è che, seppur in modo indiretto, alcune fasce di popolazione perdano la possibilità di vivere in specifiche aree urbane. Così, al di là della zona territoriale, centrale o periferica, in cui le politiche di riqualificazione vengono avviate, ciò che si modifica è il reddito medio diffuso all’interno dei quartieri, con il più ampio risultato del contestuale aumento dei prezzi di case e terreni e l’inevitabile dislocazione della povertà a livello spaziale.

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Lo stigma è spesso la ragione che conduce a riqualificare spazi delle città che finiscono per stravolgere il proprio volto tramite l’ingresso di famiglie in condizione di minore svantaggio:

“There are many more examples we could cite in respect of territorial stigmatisation justifying gentrification, and crucial to all of them is the role of the state.” (Ibidem)

Alcuni autori hanno parlato di “ri-urbanizzazione” (Buzar et al., 2007), come una delle normali fasi del ciclo della crescita urbana (il quarto dopo urbanizzazione, suburbanizzazione e decentralizzazione), ma molto più spesso i quartieri “svantaggiati” non vengono semplicemente ri-abitati, bensì a tutti gli effetti ripuliti, al fine di “lavare via” lo stigma da cui sono affetti e renderli luoghi migliori e appetibili. Oltre a non conoscere a fondo i meccanismi di riposizionamento della povertà e dei diversi gruppi sociali, sappiamo che seppur non sia scontato che la modifica della

velocità urbana di specifiche porzioni di città (che in alcuni casi possono passare dalla relegazione alla gentrification) causi forme di polarizzazione interna ai quartieri, essa

“crystallizes and reflects tendencies toward polarization” (Walks e Maaranen 2008, p. 320), accentuando i meccanismi già avviati di ineguaglianza e polarizzazione economica.

Conclusioni

Il capitolo si configura come una sorta di ponte tra il precedente e il successivo. Dopo le riflessioni avviate nel primo capitolo ha infatti fornito altre premesse teoriche e cercato di chiarire lo stato della ricerca che qui si ritiene utile per affrontare la lettura del prossimo capitolo, il cui oggetto di attenzione è la politica del social mix, tema chiave della ricerca di dottorato.

Dopo aver sottolineato la complessità insita nell’individuazione di un quartiere svantaggiato (in virtù del fatto che esso andrebbe considerato come l’aspetto spaziale del fenomeno dell’esclusione sociale), ci si è concentrati sulle motivazioni di fondo che spingono le amministrazioni locali ad agire all’interno dei quartieri cosiddetti

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sensibili, con l’intento di ridurre le difficoltà locali, sia rispetto ai livelli di povertà

presenti, sia rispetto alle carenze strutturali di cui spesso soffrono.

Le premesse su cui poggiano alcune politiche area-based riguardano i possibili effetti negativi della concentrazione di specifiche quote di popolazione in ridotti spazi urbani. La concentrazione, generalmente assimilata alle idee di segregazione e isolamento spaziale, prende luogo quando un gruppo sociale non presenta un’omogenea distribuzione internamente alla città, ma si localizza con maggiore intensità in alcune aree della stessa. Concentrazione e segregazione sono stati ipotizzati come fenomeni capaci sia di incrementare le condizioni di svantaggio, sia di produrre nuovi fenomeni lesivi per gli individui: la concentrazione opererebbe come input per la nascita di una cultura locale (o più semplicemente di una subcultura localizzata) che non farebbe altro che trattenere le persone in un vortice di svantaggio (spazializzato) esponendole a

modelli capaci di incrementare soltanto il capitale sociale negativo; la concomitante

segregazione isolerebbe i soggetti coinvolti dal resto della società rispetto alle opportunità che essa può offrire, sia in termini di network (dunque anche di nuovi “modelli” di socializzazione), sia in termini di mobilità e ascesa sociale. Da qui l’idea che il Quartiere possa esso stesso farsi framework di esclusione, non solo divenendo spazio prediletto di concentrazione, ma anche causa del peggioramento delle chances di vita dei singoli. Il dibattito, avviato ormai 30 anni fa e ad oggi ancora in corso, attiene proprio all’esistenza dell’Effetto Quartiere e alle sue caratteristiche. Ci si domanda ancora se chi vive in un quartiere ad alta concentrazione di specifici gruppi sociali non migliori le proprie condizioni di vita per la posizione svantaggiata che ricopre a livello sociale o se possiede ridotte possibilità di migliorarle proprio perché vive in quello specifico spazio territoriale.

Sono ancora molte le difficoltà da superare. Prima di tutto operazionalizzare, in termini di ricerca scientifica, il quartiere, non è affatto scontato e implica scelte epistemologiche che non sempre sono condivise tra gli studiosi; lo stesso vale per la lettura e l’interpretazione degli outputs che arrivano da parte di chi vive il quartiere e che spesso è coinvolto in prima persona nelle indagini. Gli effetti cui il quartiere può dar vita sono poi molteplici, si realizzano tramite diversi meccanismi e attengono a svariati aspetti della vita dell’uomo: Brännström (2004) ha individuato ad esempio

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nelle opportunità individuali, nelle credenze, nelle aspettative e nei desideri i contesti su cui l’Effetto Quartiere può avere influenza a livello soggettivo. In questo ragionamento va tenuto presente che i soggetti non risultano esposti ai vari effetti nello stesso modo; le ricerche andrebbero differenziate quindi per fasce di età, nazionalità o etnia, periodo di tempo vissuto nel quartiere e altri fattori capaci di fornire la chiave interpretativa per i meccanismi verificati: come è chiaro che molti possono essere gli effetti quartiere, è altrettanto evidente che non tutti funzionano con identiche premesse. La comparabilità delle indagini è spesso compromessa dal fatto che i ricercatori si dedicano all’esame di diverse scale territoriali o studiano ambiti territoriali formalmente uguali ma differenti rispetto alle loro reali caratteristiche interne. Cercando di dimostrare l’esistenza dell’Effetto Quartiere molte ricerche mostrano infine che alcuni tratti interni agli stessi si ripetono nel tempo o addirittura si cristallizzano, ma l’Effetto Quartiere non indica la “semplice” spazializzazione di fenomeni o la segregazione spaziale di specifici gruppi sociali, bensì il fatto che abitare in un certo quartiere produca uno svantaggio aggiunto. I territori vanno infatti spesso incontro a una sorta di auto-riproduzione dei loro tratti interni, ma le ridotte opportunità della gente che li abita dipendono forse più dalla posizione che ricoprono all’interno della società e della città. Le minoranze e lo svantaggio sociale sono infatti

parte integrante della società28 e trovano la loro collocazione spaziale in base a diversi

elementi, principalmente economici e attinenti il mercato della casa (Livingston et al., 2013): i quartieri deprivati sono spesso abitati da persone di ceto sociale basso perché solo in quelle parti della città esse trovano posizione e possibilità di acquistare o affittare alloggi (Manley et al., 2011); inoltre, la povertà, fungendo da push factor, innesca il meccanismo in base al quale le fasce più benestanti della popolazione, appena possono, abbandonano i luoghi meno desiderabili.

“Social marginality is not a product of cultural inferiority but rather the result of denied opportunities to people who are labelled culturally different. […]Both concepts suggest that cultural pathology procreates through the community and that the cultural characteristics of

28 Eurostat nel 2011 stimava che più del 24% della popolazione europea viveva a rischio di povertà o esclusione sociale

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neighbourhoods and the social and economic situations of individuals are directly and causally linked” (Bauder 2002, p. 87-88)

Gli esiti delle indagini ad oggi condotte mostrano che il quartiere può fungere da facilitatore, dunque da incubatore di inclusività, da framework di esclusione, o non avere alcun effetto sulla vita degli abitanti (Bolt et al. 1998, p. 91); nonostante l’importanza che ricopre anche a fronte dell’evoluzione delle sue dinamiche odierne, rimane però complesso identificare l’influenza che ha sulla vita dei singoli.

Per affrontare l’Effetto Quartiere bisogna quindi scegliere il meccanismo da studiare, l’unità geografica appropriata (Burgess et al., 2001) e non dimenticare la possibilità che esistano effetti concomitanti o altri fattori capaci di spiegare una certa situazione; non bisogna poi dimenticare che andrebbero interrogate le persone e le loro storie di vita (preferibilmente in ottica longitudinale) e non solo i territori e le loro specificità interne.

In Europa, dove i livelli di segregazione sono moderati e le aree ad alta concentrazione sono ancora disperse e piuttosto eterogenee (Musterd, 2003), lo studio dell’Effetto Quartiere ha comunque ricevuto importanza e le politiche area-based si sono diffuse in molti paesi come una possibile soluzione alla persistenza della povertà. Teorie sull’isolamento sociale, sull’organizzazione sociale, sulle risorse del quartiere e teorie ambientali, cercano di spiegare come vivere in un luogo deprivato possa avere effetti sulla vita degli individui (Wodtke et al., 2011), ma ancora oggi i rischi rimangono quelli della sovrastima o della sottostima di un effetto (Galster, 2008; Ellen e Turner, 1997). Se è sempre più certo che vivere in un luogo piuttosto che in un altro implica la differenza di opportunità per gli abitanti, oggi non conosciamo quando esattamente un certo effetto prenda ad esistere, quale livello territoriale sia più significativo, per quali gruppi sociali i vari effetti abbiano più importanza. Kearns e Parkes (2003) sostengono che le persone povere in luoghi poveri si comportino esattamente come tutte le altre persone, con l’unica eccezione di vivere determinate esperienze più spesso degli altri. Bauder (2002) ci ricorda che se anche esistano correlazioni statistiche tra comportamenti individuali e caratteristiche dei quartieri, queste non spiegano né perché né come tale legame sia capace di operare. Ciò che oggi conosciamo a riguardo

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va comunque considerato con cautela perché l’Effetto Quartiere è più che “semplicemente” discriminatorio: spesso le persone si identificano con l’ambiente culturale dell’area in cui vivono e uno degli errori degli studi è la generica applicazione di norme “universali” a territori che invece sono connotati culturalmente.

Galster (2007) identificando tra effetti quartiere che prendono vita perché i cittadini si comportano in un certo modo o possiedono specifiche caratteristiche, e effetti che invece vengono prodotti “grazie” al supporto esterno, permette di discernere tra effetti quartiere “interni” ed “esterni”. Già Mead (1934) aveva ipotizzato che l’autorappresentazione delle persone fosse influenzata dal modo in cui pensano che gli altri li considerino ed oggi è chiaro che alcuni territori soffrono sì di perpetuazione di povertà “interna”, ma spesso anche di azioni di stigmatizzazione “esterna”.

Abbiamo visto come la periferia rappresenti sempre più spesso nelle città europee uno spazio di marginalizzazione, in virtù della relazione subalterna che la lega al centro città. L’eccessiva attenzione data a queste realtà rischia di supportare la proliferazione dello stigma e l’avvio della gentrificazione, quel processo che si verifica quando in un territorio prende avvio la successione di famiglie economicamente più avvantaggiate che arricchiscono di conseguenza l’intero luogo. Ciò che accade è che le fasce di popolazione più ricche di fatto sostituiscono quelle più deboli che emigrano, a seguito dell’innalzamento dei prezzi a livello locale, andandosi a riposizionare in nuovi spazi in via di “periferizzazione” ed esclusione.

“There is a tension between people being cut off from the rest of society by neighbourhood homogeneity, and being cut off from their own neighbourhood by growing diversity and fragmentation.” (Cameron et al., 2009)

Sempre più spesso è la segregazione etnica ad essere assunta come critica, seppur la deprivazione, a livello di quartiere, possa essere influenzata dalla variazione della disoccupazione piuttosto che dalla composizione etnica (Kapoor, 2013).

La vita sociale, infine, al di là delle trasformazioni che la globalizzazione ha portato nell’organizzazione interna delle città e del modo in cui si sviluppano oggi network e

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legami territoriali, rimane uno degli elementi fondamentali della relazione tra uomo e ambiente29:

“Affiliation with the neighbourhood (having family and friends there) and good relations with neighbours very significantly diminish one’s plans to move. […] Residents’ perception of the reputation of their neighbourhood (the ‘self-reflecting image’) is thus a crucial factor in decisions on moving away from deprived neighbourhoods.[…]” (Skifter Andersen, 2008)

Dal punto di vista relazionale la connessione semplicistica tra povertà e mancata integrazione sociale può essere letta in modo completamente opposto da due diverse tesi: quella della compensazione e quella dell’accumulazione. La prima sostiene che, in presenza di povertà, la vicinanza tra le persone aumenti, in quanto accomunate dalle stesse problematiche e capaci di supportarsi vicendevolmente. Questo è stato documentato in particolar modo nel modello di welfare mediterraneo, dove la famiglia gioca il ruolo principale dinanzi alle difficoltà economiche dei giovani, seppur questo accada oggi sempre meno. Cosa simile accade quando, in assenza di un forte Welfare State, i bisogni vengono soddisfatti all’interno delle proprie reti famigliari e amicali. La tesi, contrapposta, dell’accumulazione sostiene invece che all’aumentare della povertà diminuisca l’integrazione sociale, a seguito dei costi necessari al mantenimento dei legami sociali: al di fuori della famiglia, infatti, coltivare legami implica un reciproco rapporto di scambio (Böhnke, 2008).

“The poor are less well socially integrated when they live in countries in which poverty and deprivation are relatively rare” (Böhnke, 2008)

Ad oggi, per concludere, molteplici problematiche rimangono aperte: non è chiaro cosa sia effettivamente un quartiere deprivato né quale sfera debba essere presa in considerazione prioritariamente per la sua identificazione; la concentrazione spaziale di alcuni gruppi sociali, in particolare disoccupati e non autoctoni, viene letta sempre

29 L’importanza delle relazioni rientra anche tra i motivi della mobilità residenziale, tra cui vi sono: l’insoddisfazione circa la sicurezza percepita, le relazioni sociali, le attività e i servizi (Skifter Andersen, 2008), nonché quell’immagine riflessa che il quartiere e i suoi residenti possiedono come frutto dei giudizi costruiti esternamente al quartiere stesso.

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nei suoi aspetti negativi, interrogandosi raramente sulle potenzialità che potrebbe avere per gli stessi individui; l’Effetto Quartiere viene combattuto anche se non conosciamo esattamente oltre quale soglia inizi a verificarsi. Inoltre, se tramite le politiche area-

based il quartiere osservato può raggiungere un interesse prima sconosciuto e la

possibilità di entrare eventualmente anche tra le priorità dell’agenda politica locale, la sua ridotta entità da un lato e la sua forte specificità dall’altro, rischiano di rendere più agevole la cristallizzazione delle immagini che esternamente lo connotano, che divengono comuni, diffuse e difficili da smantellare o rimodulare.

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Capitolo III

La politica del social mix. Mito di sviluppo e inclusione sociale

“Modern man is trying vainly to fly from urban pluralism, chaos, and disorder because he has lost the ability to handle conflict” (Sennet, 1970)

Il presente capitolo si pone l’obiettivo di affrontare il tema del social mix, una politica pubblica affermatasi dopo il secondo conflitto mondiale e che oggi costituisce il modus

operandi di molte amministrazioni locali, sia europee che extra-europee. Ad aver

stimolato e nel tempo avvalorato questa pratica vi sono principalmente tre convinzioni: da una parte l’idea che mixare e diversificare la società sia il presupposto per dare vita a città basate sull’uguaglianza e sulla parità di opportunità (Sarkissian, 1976); dall’altra quella che combattere la concentrazione all’interno delle città costituisca una necessità per evitare ghettizzazioni e forme di segregazione controproducenti all’inclusività; infine, il timore del presupposto cosiddetto Effetto Quartiere, dato come esito scontato della concentrazione di alcune fasce di popolazione o della loro concentrazione in specifiche zone delle città (Friedrichs, 1998). Secondo questi principi la politica del social mix si è mossa sempre, tendenzialmente ovunque, seguendo l’obiettivo della

desegregazione, nel tentativo di creare società disposte sul territorio a macchia d’olio

e non a macchia di leopardo, perché appunto più eque ma forse anche perché più facilmente gestibili.

Nonostante gli intenti e le potenzialità del social mix, gli effetti positivi dello strumento sono ad oggi messi in dubbio da diverse ricerche. Molti studiosi, soprattutto oltre- Italia, si sono infatti dedicati all’indagine degli esiti delle pratiche di mix sociale messe

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in atto in diverse città, evidenziando spesso i limiti se non addirittura i fallimenti e i frutti negativi della desegregazione sociale a livello urbano (Bolt, 2009; Bolt et al., 2010). Al momento non è ancora chiaro se esista e quale sia la “ricetta” perfetta del social mix; è però certo che si tratta di uno strumento fortemente ambiguo e ricco di