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Dalla necessità di avere città inclusive al desiderio di creare quartieri integrat

Il social mix può essere definito come uno strumento di politica pubblica il cui obiettivo è la diversificazione della popolazione che abita specifici contesti territoriali (Bacqué et al., 2011). Si tratta di un “attrezzo” particolarmente difficile da maneggiare poiché è al contempo mezzo da utilizzare ma anche obiettivo da raggiungere (Launay 2010, p. 112): social mix è infatti un’attività ma evidentemente anche il fine ultimo

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cui mira la politica stessa. È poi anche un concetto suscettibile di molteplici interpretazioni che, come suggerisce Arthurson (2005), è bene vagliare per potersi addentrare meglio nella complessità del fenomeno stesso.

Prima di tutto c’è da capire quale sia l’esatto significato della locuzione, che ad esempio già dal punto di vista linguistico rimanda a sfaccettature differenti. Dalla lingua inglese, mix, vale a dire “mixare”, invita all’idea di “mischiare”, “mescolare”, dare vita dunque ad un “miscuglio”, obiettivo prioritario della politica stessa. Sempre in lingua inglese, mix è però anche “preparato”, “assortimento”, “proporzione”, che indirizza invece alle idee di equilibrio, bilanciamento, armonia. Alla base del processo di mixture, quindi, in relazione all’etimologia del termine mix, sembra possa essere contemplato non il semplice “mettere insieme”, bensì qualcosa di più, che attiene prima di tutto all’idea che sia possibile individuare una combinazione sociale perfetta e secondariamente, evidentemente, alla convinzione che equilibrare il sociale possa essere non solo realistico, ma anche utile al sociale stesso.

Forse più difficile è definire cosa possa essere considerato sociale in una politica di

mixture e cosa dello stesso debba poi essere effettivamente mixato (Tunstall e Fenton,

2006). In verità, se mixare il sociale ha l’obiettivo di variegare un contesto territoriale popolandolo di gruppi sociali diversi, l’oggetto della politica non è rappresentato dalle persone bensì dalle caratteristiche con cui esse possono essere etichettate e categorizzate; da ciò che esse quindi rappresentano per il sociale. L’accento è poi spostato sui luoghi e su un ipotetico prodotto dell’attività di mixture.

Va infine considerato che, guardando alle possibili categorie del sociale, esse sono certamente molteplici, se non addirittura infinite. Prima di tutto la popolazione può essere intesa come insieme di singoli, ma anche come insieme di famiglie, se non stratificata per classi sociali o in relazione alle condizioni economiche; secondariamente si rende plausibile, a livello teorico, mixare in base a una lunga lista di caratteristiche: dal punto di vista del genere, dell’età, dell’istruzione, ma anche guardando alla posizione lavorativa, al reddito, al titolo di godimento dell’abitazione, e ancora considerando il continente di provenienza, la nazionalità, l’etnia o i bisogni momentanei o permanenti. Kearns e Mason (2007), in particolare, individuano la Mixed Community come il risultato di diversi tipi di mixture: l’Housing Tenure, il

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reddito, lo status socio-economico, l’etnia, la composizione famigliare (età, tipologia, numerosità).

Benefici ipotizzati delle comunità mixate: Economic & Service Impacts:

• Better quality public services • Better quality private services • Increased local economic activity

Community Effects:

• Enhanced social interaction • Sense of community • Reduction in turnover Social Effects:

• Reduction in anti‐social behaviour • Better upkeep of properties • Greater optimism about jobs

Overcoming Social Exclusion: • Reduction in area stigma • More local pride • Diverse social networks Fonte: Kearns e Mason (2007)

Equilibrare ed armonizzare il sociale sono dunque mete se non improponibili certamente di difficile raggiungimento e ad oggi non esistono le istruzioni per dare vita a territori perfettamente eterogenei da questo punto di vista. Ciò perché non è chiaro né in base a cosa sia giusto mixare né quale sia il peso che ogni “ingrediente” può e deve rivestire nelle operazioni di mixture.

Va sottolineato che parte del problema è costituito da un lato dalla mancata (o nel tempo mutata) definizione del reale obiettivo del mix, dall’altro dalla varietà di benefici cui aspira simultaneamente. È vero infatti che la mixture, seppur obiettivo ultimo di per sé, rappresenta comunque un proxy, ovvero uno strumento grazie al quale si rende possibile il raggiungimento di altri più grandi obiettivi. Sarkissian (1976), nell’ormai lontana prima revisione sull’argomento, identificava molteplici scopi

sottostanti l’idea originaria di social mix30, ovvero: elevare la condizione delle classi

sociali più basse grazie a uno spirito di “emulazione”; incoraggiare la diversità estetica ed elevare gli standard estetici; stimolare lo scambio interculturale; incrementare

30 Nella versione originale: To raise the standards of the lower classes' by nurturing a ‘spirit of emulation’; To encourage aesthetic diversity and raise aesthetic standards; To encourage cultural cross-fertilisation; To increase equality of opportunity; To promote social harmony by reducing social and racial tensions; To promote social conflict in order to foster individual and social maturity; To improve the physical functioning of the city and its inhabitants (Sarkissian, 1976).

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l’eguaglianza di opportunità; promuovere l’armonia sociale tramite la riduzione delle tensioni sociali e razziali; promuovere il contrasto sociale per stimolare la maturazione individuale e sociale31; migliorare il funzionamento del corpo della città e dei suoi abitanti. Rispetto a quest’ultimo punto Sarkissian ha evidenziato gli elementi di forza e i fattori individuati a supporto della buona riuscita delle attività di mixture: la necessità di avere leader capaci di incrementare l’efficienza delle comunità; una maggiore efficienza dell’intera città (derivante dall’armonia dell’eterogeneità); il mix delle abitazioni per una razionalizzazione dei costi; la stabilità residenziale; la realizzazione su piccola scala dell’eterogeneità tipica del mondo moderno urbanizzato. Si tratta comunque di mete composite, il cui esito non è determinabile in base a un rapporto di causa-effetto.

Il social mix è nato allora come un’idea, un mezzo utilizzabile per il raggiungimento di un ideale modello di convivenza e di sviluppo del mondo sociale; e solo nel tempo, attraverso la riflessione sul tema e tramite la concretizzazione di diverse pratiche e modelli di mixture, si è trasformato in una politica sociale, oggi tra l’altro particolarmente diffusa e fonte di attrazione per molte amministrazioni locali.

Le prime forme di social mix sono state registrate sin dalla seconda metà dell’800 nel Regno Unito e sono connesse all’idea di un architetto londinese che sognava di creare un villaggio contraddistinto sia dall’incontro e dal contatto di classi sociali differenti, sia dalla prossimità fisica alla natura. Il social mix dell’epoca può essere considerato un desiderio di ordine e serenità sociale, ma anche una forma di resistenza alle spinte espansionistiche della città industriale e ai suoi possibili esiti negativi sul piano sociale. L’idea originaria di fondo era infatti quella di riprodurre su piccola scala ciò che stava accadendo su scala maggiore, dunque quella di dare vita a villaggi, o comunque a contesti territoriali non particolarmente estesi, capaci di racchiudere la spiccata eterogeneità della città in espansione, il cosiddetto “country character”; il tutto tramite l’armonioso incontro di diversi elementi. Doveva trattarsi al contempo di spazi contenuti, al fine di non disperdere la socialità tipica dei piccoli centri, ma anche di spazi diffusi, per non diminuire le probabilità di confronto e scambio sociale

31 Il raggiungimento dell’armonia sociale doveva passare anche per il conflitto e il contrasto, necessari a una crescita sia individuale che collettiva.

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(Sarkissian 1976, p. 234). Ad affiancare questo scopo, che Sarkissian ha definito ‘romantico’, ve ne era un altro molto più utilitaristico, fondato sull’idea che una società mixata, operando tramite la razionalizzazione delle risorse, avrebbe permesso a tutta la città di registrare migliori outputs dal punto di vista economico e dello sviluppo in generale. Avere diversi tipi di abitazioni, svariate tipologie di bisogni, popolazioni diverse in molteplici zone della città, avrebbe infatti permesso alla città di svilupparsi provvedendo alle esigenze di ogni sua sezione ed evitando che vi fosse concentrazione di servizi o di bisogni solo in alcune sue parti.

Le zone fisicamente non troppo estese e facilmente identificabili che fungevano da spazio di azione della politica erano i quartieri. Un po’ in tutta Europa, soprattutto all’indomani del secondo conflitto mondiale, si andavano diffondendo i modelli della città giardino e della città satellite, di cui proprio il quartiere era il contenitore fisico immaginato e il destinatario di attenzione per eccellenza. La città giardino, immaginata come un ambiente a misura d’uomo circondato dal verde, e la città satellite, vista come il dislocamento locale del più ampio contesto urbano, prendevano forma proprio attraverso il quartiere, considerato l’unità territoriale che andava a riempire di significato lo spazio fisico considerato.

Anche se fin dalla nascita della pratica del social mix l’enfasi è stata posta sul concetto di inclusività, seppur in ottica strumentale all’intera città, col passare del tempo e con la realizzazione di diverse esperienze concrete, i connotati di questa inclusività sono stati livellati in relazione agli obiettivi e al metodo migliore tramite cui attuarla, generalmente facendo leva su problemi di ordine sociale e di interesse collettivo tipici delle specificità territoriali dei singoli paesi e delle singole città. Come vedremo meglio nel terzo e nel quarto paragrafo, infatti, sono molteplici gli strumenti tramite cui si è cercato di realizzare la mixture. Nonostante ciò permangono tutt’oggi alcune idee di fondo. Persiste prioritariamente la convinzione che la parte povera della società possa beneficiare e arricchirsi della vicinanza di quella più benestante. Ciò per due motivi: da una parte l’idea che, convivendo nel medesimo spazio della classe sociale più elevata, possa essere stimolata all’acquisizione dei modi e degli stili di vita altrui, “imparando” proprio dal contatto diretto e continuato nel tempo (Bacqué et al., 2011; Manley et al., 2011). Dall’altra parte, unire le fasce più povere della società a quelle

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più ricche permetterebbe di evitare l’accumulo, dunque la concentrazione di condizioni di disagio in uno stesso e limitato spazio della città. In questo modo verrebbero meno anche i temuti esiti negativi dell’Effetto Quartiere, individuato proprio come risultato della concentrazione spaziale di fattori problematici attinenti il vasto mondo della povertà.

Sulla scia di questi presupposti il social mix è stato realizzato e continua a prendere forma tramite diversi strumenti di azione (che vedremo più nel dettaglio nel paragrafo successivo), ma in base a due approcci fondamentali (Melis et al. 2013, p. 14): uno che vede oggetto di attenzione le fasce povere della popolazione (e la loro migrazione da una zona all’altra delle città), un altro che punta alla differenziazione delle tipologie di abitazioni disponibili sul territorio (dando vita a complessi residenziali che accolgano al contempo diverse tipologie famigliari e a diverso titolo). In entrambi i casi l’obiettivo è riparare una situazione già esistente o prevenire una condizione potenzialmente negativa ma, se con il primo approccio l’obiettivo è quello di disperdere sul territorio cittadino specifici gruppi di popolazione (generalmente tra i meno abbienti), evitandone appunto la concentrazione spaziale e investendo direttamente nella creazione di una certa mixture sociale, con il secondo approccio l’obiettivo è quello di dare vita a diversi modelli abitativi capaci di rendere possibile, stavolta in modo indiretto, la desiderata mixité. Come vedremo, la prima modalità è stata sposata esclusivamente da paesi extra-europei, mentre in Europa le varie azioni sono state definite in base al secondo approccio, dando per scontato che mixare le (tipologie di) abitazioni, e in particolare il titolo di godimento di chi abita gli alloggi, dia vita in automatico in primo luogo a forme di eterogeneità sociale, in secondo luogo a feconde realtà eterogenee (Musterd e Andersson, 2005).

Dietro la scelta dei differenti modelli di realizzazione del social mix vi sono naturalmente alcune implicazioni, sia pratiche che teoriche. Determinando ad esempio la percentuale di tipologie abitative che caratterizzeranno un luogo, verrà stabilito, indirettamente, quali tipi di famiglie andranno ad occupare una specifica zona della città; almeno teoricamente, si saprà se gli appartamenti saranno abitati da nuclei famigliari unipersonali o da famiglie numerose, o sarà certo almeno per chi erano stati progettati. Similmente, determinando la percentuale dei diversi titoli di godimento

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degli alloggi con cui un territorio deve essere abitato, verrà stabilito ad esempio quanti alloggi in proprietà, in affitto privato o in affitto sociale verranno accolti in quella città o in quella specifica porzione di territorio. L’abitazione diviene in questo modo il mezzo per identificare, seppur in modo indiretto, i connotati socio-economici di chi abiterà la realtà urbana. Il titolo di godimento in particolare è spesso utilizzato come indicatore approssimativo del reddito e dunque come strumento per individuare in qualche modo lo stile di vita dei singoli (Tunstall e Fenton, 2006). Bailey et al. individuano ad esempio i benefici dell’avere ‘redditi mixati’, vale a dire: la possibilità per frange di popolazione diverse per età, nazionalità, etnia, dimensioni della famiglia e classe sociale, di entrare in interazione e costruire più o meno forti legami; la possibilità di ridurre effetti negativi di alcune zone; la possibilità per le scuole di entrare in contatto con giovani promettenti con diversi backgrounds; la capacità della zona di attrarre e supportare più alti livelli di servizi locali, attività per il tempo libero, negozi e relative strutture; la possibilità per i residenti di spostarsi per rispondere a modifiche della misura della propria famiglia, per necessità economiche o di spazio e anche per mantenere legami famigliari e sociali; la possibilità di creare opportunità lavorative per i residenti del posto (Bailey et al. 2006, p. 20). Si tratta chiaramente sempre di possibilità. È certo che mixando i redditi sarà realizzata una forma di

mixture, basata appunto sulla condizione reddituale dei singoli o delle famiglie, ma

non può essere dato per scontato ciò che accadrà dopo in relazione a questo. Seppur auspicabile non è infatti scontato che la prossimità rappresenti il motivo per cui persone appartenenti a diverse classi sociali entrino più facilmente in contatto tra loro, soprattutto stabilendo relazioni fruttuose le une per le altre (Briggs et al., 1998; Fava, 1958; Fischer et al., 1977; Fischer, 1982; Gans, 1961; Greenbaum e Greenbaum, 1985; Joseph, Chaskin e Webber, 2007; Kleit, 2005).

Ancor più complesso è riflettere della possibilità di decidere dove e con chi abitare, a quali condizioni, se in un quartiere piuttosto che in un altro. La possibilità di agency in questo senso può essere identificata come parte del più ampio diritto alla città di cui Lefebvre (1976) per primo ha parlato: un diritto che consiste semplicemente nel posizionarsi, appropriarsi e godere della città secondo modalità non normate ma autonomamente stabilite. L’impossibilità di stanziarsi liberamente all’interno della

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città, o eventualmente all’interno di un quartiere, si tramuterebbe nella perdita del diritto d’uso e d’opera che sulla stessa i cittadini dovrebbero avere, finendo per produrre realtà preconfezionate. La stessa Sarkissian (1976) concludeva la sua revisione sul social mix affermando, tra le righe ma non troppo, che spesso i pianificatori delle città cercano di risolvere semplicisticamente problemi molto complicati, anche giocando a programmare pezzi di vita urbana. Poneva così le basi per pensare alla mancanza di genuinità di cui possono essere colpiti luoghi modellati a immagine e somiglianza di un’ideale di perfezione. Sorge però spontaneo domandarsi se sia davvero possibile godere di un totale e reale diritto all’abitare una porzione di città senza normazione. Non è escluso che l’idea di social mix, seppur imponendo la segmentazione della popolazione, possa essere lo strumento tramite cui giungere a una piena realizzazione del diritto alla città per quella parte di popolazione che autonomamente non riuscirebbe a posizionarsi su alcuni gradini sociali o tra alcuni gruppi sociali. Ci sono esclusi, e come dire sempre più nuovi esclusi, che se non supportati rischiano di rimanere sempre esclusi, anche dinanzi all’esistenza di un pieno diritto alla città.

Restano aperte, infine, anche le questioni direttamente connesse alla volontà di controllo sociale urbano. Il social mix, che mira a risolvere tra l’altro anche gli effetti negativi della concentrazione spaziale e dell’Effetto Quartiere, ha intrinsecamente racchiuso il desiderio di creare una città armoniosa, che altro non significa se non una città ordinata. Una delle mire indirette della politica è infatti quella di dare vita a realtà urbane non problematiche, forse silenziose. Ma ad oggi, come affrontato nel capitolo precedente, non sono del tutto dimostrati né il ruolo della concentrazione spaziale né quello dell’Effetto Quartiere sul benessere collettivo e sull’influenza che i singoli possono avere gli uni sugli altri. Non è chiaro quale sia il limite oltre il quale la concentrazione diventi problematica o oltre il quale l’Effetto Quartiere prenda effettivamente forma, né in che modo le diverse condizioni e le varie forme di povertà si posizionino tra loro secondo una struttura gerarchica; non sappiamo dunque né a partire da quale momento l’Effetto Quartiere prenda ad esistere, né quali siano i fattori che lo influenzano maggiormente. Ad aggiungere incertezza, il fatto che, seppur vi siano segnali circa gli esiti negativi di alcune forme di concentrazione spaziale, sono

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stati al contempo evidenziati anche gli aspetti negativi figli della desegregazione sociale (Bolt et al., 2008).

Per completezza, non va dimenticato infine che il social mix, oltre ad essere strumento ed obiettivo, può anche essere un risultato non necessariamente volontario. Tunstall e Fenton (2006) pongono in luce come la mixture possa essere l’esito di una politica socio-economica che riguarda una comunità più ampia (l’ambiente urbano in generale ad esempio) o anche il risultato di una politica conveniente basata sulla costruzione di uno specifico tipo di alloggi con il supporto di sussidi statali (Ibidem, p. 10). In questi casi il mix si configurerebbe come la conseguenza socio-spaziale non voluta di azioni aventi obiettivi totalmente differenti.

Queste premesse spingono a guardare sì con curiosità, ma anche con scrupolo alle pratiche di mixture sociale e agli esempi di mix sociale, interrogandosi sempre circa le reali dinamiche e i veri scopi oggi sottesi alle azioni o alle politiche che possono essere avviate.

Per concludere questa sezione va ricordato che soprattutto a partire dagli anni ’70, i vari modelli di azione di mixture sono stati diretti a specifici territori, generalmente quartieri nati prima ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale e trasformatisi nel tempo in luoghi considerati á problema. Le cosiddette politiche area-based, grazie a supporti economici pubblici hanno permesso di risollevare le sorti di alcuni territori, seppur spesso a discapito di un’accentuata stigmatizzazione dei luoghi stessi o di risultati non programmati e non desiderati di gentrification. Ciò che è evidente è che il principio di inclusività, calato sull’espressione territoriale della convivenza, ha pian piano traghettato i propri confini verso il modellamento di un obiettivo finale parzialmente differente da quello iniziale: dal desiderio di arricchire, attraverso l’eterogeneità, la città nel suo complesso, si è approdati infatti verso la necessità di rendere maggiormente vivibili alcuni contesti territoriali, spesso segnati dalla convivenza di molteplici forme di povertà, dal degrado fisico all’emarginazione sociale.

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3.2 I quartieri di Edilizia Residenziale Pubblica come beneficiari prediletti delle