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Il quartiere “svantaggiato” come spazio di attenzione prioritaria Alla ricerca di una definizione

Questo paragrafo rappresenta un’introduzione allo stato dell’arte affrontato all’interno dell’intero capitolo, riguardante nel dettaglio la concentrazione sociale a livello spaziale e l’Effetto Quartiere di cui diverse zone delle nostre città sono considerate spesso generatrici. Ciò che sottostà all’idea di svantaggio che può colpire chi abita specifiche aree urbane (e gli stessi territori) è infatti la convinzione che forme di povertà di vario tipo possano tradursi in elementi che rafforzano o che addirittura aumentano le difficoltà degli abitanti. I quartieri deprivati vengono così considerati da alcuni autori territori capaci di ingabbiare chi li vive attraverso la riproduzione di forme di svantaggio sistematico (Sampson e Wilson, 1995; Wallace, 2001; Wilson, 1987). In questo senso condizioni territoriali sfavorevoli costituirebbero terreno fertile per ostacoli di varia natura:

6 Si rimanda al capitolo successivo per l’approfondimento sulla politica del social mix e per una descrizione dell’evoluzione dei programmi di riqualificazione urbana in Italia.

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“They are the visible signs that cities are subject to special socio-spatial forces that create social and physical inequality, unstable conditions and sometimes destruction—most clearly observed in the slums of big US cities” (Skifter Andersen 2002, p. 769)

Ci si domanda qui come possa essere individuato un quartiere deprivato. Cosa costituisce, cioè, elemento di svantaggio a livello territoriale? In base a quali caratteristiche un territorio è giudicato in stato di deprivazione e un altro no? E quali altri elementi permettono la perpetuazione della deprivazione nel tempo?

Si ritiene importante presentare prioritariamente, seppur sinteticamente, una riflessione sull’evoluzione del concetto di povertà, che colpendo i singoli o alcuni gruppi sociali, prende forma anche a livello spaziale. La nozione di povertà ha qui un ruolo fondamentale sia a fronte della responsabilità che avrebbe sulla vivibilità dei luoghi della città, sia a fronte delle importanti evoluzioni subite a livello concettuale nel corso del tempo (vedi anche Baldini, 2017). Da fenomeno di fatto statico, oggi viene sempre più osservato e valutato nella sua dinamicità e nella sua relatività e questo contribuisce, forse, alla difficoltà di individuare e definire un territorio in stato di deprivazione (Madanipour e Weck, 2015; Skifter Andersen, 2008) che diversi studiosi delineano, piuttosto, come la dimensione spaziale del fenomeno dell’esclusione sociale (Murie e Musterd, 2004).

“But social exclusion is context-sensitive and a focus on one context only may distract the attention from potentially more relevant contexts. The variation between contexts at various levels (neighbourhood, city, state) and between cities and countries produces enormous differentiation.” (Murie e Musterd 2004, p. 1453)

Terraneo (2016) ci ricorda che la povertà può essere studiata secondo tre approcci tra loro molto differenti, ribadendo come la stessa, classicamente distinta tra assoluta e

relativa, oggi venga sempre più presa in esame invece nella sua processualità.

Il tradizionale approccio di tipo monetario differenzia tra persone povere e persone non povere in relazione alla capacità (economica) che esse possiedono di giungere ad un determinato consumo di beni. Questo modo di concepire la povertà, nella sua forma statica, rischia di limitare la presa di coscienza delle condizioni sfavorevoli, poiché

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prende in esame solo un momento della vita e solamente il reddito e la capacità di spesa di un individuo o di una famiglia, tralasciando il potere dei risparmi, dei supporti esterni (pubblici o famigliari) e delle necessità. E naturalmente non conferendo valore a tutto ciò che economico (in senso stretto) non è.

L’approccio rivolto alle capabilities (Sen, 1992) ha rappresentato un momento di svolta nel valutare la povertà, poiché ha permesso di porre attenzione a ciò che l’individuo riesce a raggiungere rispetto al proprio benessere e alla propria qualità di vita, a prescindere dal reddito e dai beni materiali. In quest’ottica il reddito, e le possibilità finanziarie in generale, diventano uno degli strumenti utilizzabili per “capacitare” l’uomo e contribuire ai funzionamenti che lo riguardano, ma né l’unico, né il più rilevante.

Infine, l’approccio rivolto all’inclusione vaglia, al di là delle possibilità, l’effettivo ruolo che i soggetti (o alcune categorie di soggetti) ricoprono all’interno delle società. In questo caso assume importanza l’esclusione dalla partecipazione, che può sì essere una scelta soggettiva, ma che più spesso risulta il frutto di meccanismi macro- strutturali di cui alcune figure sociali rimangono vittime con maggiore frequenza.

“The term ‘social exclusion’ has its origins in Lenoir (1974; see also 1989 edition). Lenoir, then Secre´ taire d’Etat a` l’Action Sociale in the Chirac government, referred to the excluded as consisting not only of the poor but also of a wide variety of people, namely the social misfits. The meaning of the term evolved and expanded in the following years to include all individuals and groups that are wholly or partly prevented from participating in their society and in various aspects of cultural and community life.” (Bossert et al. 2007, p. 777)

Murie e Musterd (2004) rilevano che nel traghettare dal concetto di povertà a quello di esclusione sociale sia cambiato il focus di attenzione, che ora non è più rivolto alla capacità economica, bensì a fenomeni quali partecipazione, redistribuzione e diritti. È possibile affermare che la nozione di esclusione sociale ha quindi definitivamente spostato l’attenzione sulla multidimensionalità della povertà: Atkinson (1998), ad esempio, la identifica come una forma di deprivazione multipla, in cui fattori economici e fattori sociali si incontrano.

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Al momento non c’è, a livello europeo, una definizione unanime di esclusione sociale (Platt, 2009): è soprattutto l’ambito dell’occupazione quello preso in considerazione ed analizzato come vettore capace di monitorare il livello di inclusione, dunque di integrazione, di specifici gruppi sociali7. In generale, ad essere problematizzata, è comunque quell’esclusione sociale individuata come “involontaria”. Un individuo può essere considerato socialmente escluso, ad esempio, se:

“a) he or she is geographically resident in a society; b) he or she cannot participate in the normal activities of citizens in that society, and c) he or she would like to so participate, but is prevented from doing so by factors beyond his or her control” (Richardson e Le Grand 2002, p. 498)

Ad oggi, povertà ed esclusione sociale sono fenomeni che dunque non sembrano combaciare perché se la prima, incentrata per lo più su fattori economici, immagina la popolazione come composta da abbienti e meno abbienti, secondo l’approccio dell’inclusione sociale gli esclusi non sono coloro che non hanno sufficienti risorse economiche, ma coloro che, spesso attraverso un processo multidimensionale di rottura sociale, vivono fuori dalla società nel suo complesso, a prescindere dal reddito

e dalla classe di appartenenza8:

“[…]da una parte coloro che dispongono di un impiego stabile e di una solida rete di protezione, dall’altra gli esclusi” (Bergamaschi, 1999)

7 Vale la pena di citare il caso della Gran Bretagna, dove per studiare l’esclusione sociale molta importanza è stata data anche al ruolo delle relazioni sociali (Ibidem).

8 Per queste ragioni l’esclusione sociale andrebbe combattuta, al di là della possibile volontarietà del fenomeno, per il portato di ingiustizia e in quanto elemento limitante per lo sviluppo della partecipazione e delle opportunità all’interno di una società. A tal proposito si ricorda lo studio di Richardson e Le Grand (2002), i quali hanno interrogato gli stessi “esclusi” circa il significato da loro dato all’esclusione sociale. I punti di partenza degli studiosi erano due: verificare la legittimità di una definizione data esclusivamente dall’esterno (generalmente da accademici) e appurarne la correttezza. I residenti di un contesto territoriale individuato come svantaggiato, chiamati ad esporre le loro considerazioni, hanno posto attenzione sulla multidimensionalità dell’esclusione sociale, che può di fatto colpire chiunque e per i più svariati fattori (dall’età, al lavoro, alla sicurezza, al crimine, allo stigma, alla mobilità), ma soprattutto sull’interrelazione di molteplici elementi: se essere povero pare significare non avere sufficienti introiti per raggiungere un determinato stile di vita, essere escluso ha il suo punto di partenza nella povertà materiale, ma sfocia in una molteplicità di problematiche che intaccano le storie personali sotto i più disparati aspetti.

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Va detto che entrambi i paradigmi guardano alla società come se essa fosse

semplicemente dicotomica, dunque tramite una logica binaria del “dentro” o “fuori”.

Come suggeriva la prima idea di povertà, anche quella di esclusione, connessa spesso

ad altri fenomeni che Murie e Musterd (2004) individuano nella marginalizzazione,

nella polarizzazione, nella frammentazione, nella segregazione e nella disoccupazione, rischia infatti di dualizzare la società separando, semplicisticamente, esclusi da non esclusi (Bergamaschi, 1999).

“Social exclusion is a relative concept, in the sense that an individual can be socially excluded only in comparison with other members of a society: there is no ‘absolute’ social exclusion, and an individual can be declared socially excluded only with respect to the society of which he is considered to be a member.” (Bossert et al. 2007, p. 778)

Guardando all’evoluzione del modo di osservare e considerare la deprivazione hanno quindi estremo rilievo le nozioni di disqualification di Paugam (1991) e di

disaffiliation di Castel (1995), che hanno di fatto ridefinito il modo di leggere la

povertà, spingendo a considerare centrale l’idea di vulnerabilità. Entrambi gli studiosi hanno descritto, infatti, non più delle condizioni, bensì dei processi che intaccano la vita degli individui quando, ad una specifica perdita, non corrisponde solo il termine del possedimento o la privazione materiale di un bene, ma piuttosto un disconoscimento di ciò che l’individuo rappresenta per la società. L’idea di povertà ha così abbandonato gli storici caratteri di staticità che limitavano la presa di coscienza delle condizioni di svantaggio, assumendo le sembianze di un processo molto più fluido, capace di coinvolgere sempre più individui che rischiano, perdendo ruolo e identità, di scomparire tra le figure più forti della società. In questi termini è stata introdotta l’idea di precarietà che connota il rischio di povertà.

Tutte queste riflessioni non fanno altro che complicare e rendere quasi impossibile identificare con esattezza le condizioni che rendono un luogo svantaggiato. I territori, inoltre, non essendo né immobili né immutabili, attraversano delle traiettorie che possono, anche in breve tempo, rivoluzionarli totalmente.

Nonostante scegliere cosa effettivamente renda un luogo povero o deprivato possa modificare le caratteristiche del luogo stesso, intervenire su micro-scala, dunque

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tendenzialmente a livello di quartiere, secondo tecniche area o place-based, è stata comunque considerata una necessità (Atkinson, 2008) e i territori svantaggiati sono diventati l’oggetto privilegiato di attenzione di alcune politiche pubbliche (a fronte della concentrazione di soggetti in stato di povertà materiale o -almeno potenziale- esclusione sociale9).

L’idea di agire su quello che Marelli (2014) nella sua tesi di dottorato chiama il “dove” è di origine prettamente anglosassone e in Italia è stata assorbita all’interno dei discorsi sulle periferie e all’interno delle azioni e delle politiche di riqualificazione o di rigenerazione urbana, dove lo spazio è appunto l’oggetto di attenzione prioritaria. Nel passaggio da una società di tipo fordista ad una di tipo post-fordista, in particolare, lo spazio si è definitivamente affermato come la realtà fisica, dunque visibile e delimitabile, in cui si manifestano quelle condizioni sociali (di fragilità) connesse a meccanismi di altra natura.

“La marginalità è in questa prospettiva non tanto fenomeno accidentale e accessorio, quanto piuttosto figlia dei processi di modernizzazione stessi, che producono asincronie nei differenti segmenti della società, creando delle situazioni di non corrispondenza tra i tempi, le mentalità, le strutture sociali, alimentando un conflitto tra le istituzioni tradizionali e le moderne.” (Paone e Petrillo in Wacquant 2016, p. 11).

“[…]La marginalità urbana attuale va invece letta all’interno di un processo complesso di rimodellamento della stratificazione sociale delle metropoli e di rimescolamento delle popolazioni delle città e degli spazi che esse occupano” (Ibidem, p. 12).

“[…]Diventa perciò difficilissimo uscire da questa condizione, ha luogo una sorta di cristallizzazione di questa condizione, anche perché intervengono processi di fissazione e stigmatizzazione territoriale. Altra caratteristica della marginalità avanzata è l’alienazione spaziale, una sorta di perdita e dissoluzione del senso del luogo, un processo in cui viene smarrito non solo il senso dell’appartenenza spaziale, ma anche un retroterra sociale, il riferimento alle risorse cui nei momenti di crisi in passato gli individui potevano fare ricorso” (Ibidem, p. 14).

9 Si ricorda che in Italia la Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (Legge 8 Novembre 2000, n. 328) ha dato vita alla CIES - Commissione di Indagine sull'Esclusione Sociale - che ha sostituito di fatto la Commissione di Indagine sulla povertà e sull'emarginazione, istituita a sua volta dieci anni prima.

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I territori, in questo senso, sono diventati da una parte spazi di potenziale esclusione, in quanto vissuti non in modo omogeneo ma in modo frammentato e segmentato dai diversi gruppi sociali; al contempo spazi potenzialmente “escludenti”, poiché dotati del potere di escludere chi li abita dal resto della società nel suo complesso.

Donzelot (2009) ha recentemente tradotto con maggiore efficacia il potere dei luoghi identificando tre meccanismi che a livello urbano oggi possono essere registrati:

- la gentrification (Glass, 2010), quel meccanismo tramite cui luoghi in stato di abbandono o di forte decadimento si “rigenerano” a seguito della modifica dei gruppi sociali che li abitano, in particolare grazie al trasferimento di fasce di popolazione economicamente più agiate che cambiano, di fatto, il volto fisico e sociale dei luoghi;

- la periurbanizzazione, un fenomeno verificato come diretta conseguenza dell’espansione urbana che, avvenendo in modo “disordinato”, ha di fatto creato delle isole abitative e prodotto tutta una serie di cambiamenti a livello socio-spaziale: consumo di suolo, netta separazione tra spazio lavorativo e spazio residenziale, dipendenza dell’uomo dai mezzi di trasporto personali, segregazione e specializzazione dell’uso del suolo, spopolamento dei centri storici e delle periferie (Semmoud, 2003);

- la relegazione, un modello abitativo che funzionando tramite meccanismi quali staticità e concentrazione spaziale, sancisce l’immobilità di alcuni luoghi e delle popolazioni che li abitano.

Lo spazio diviene così la chiave di lettura per svariati fenomeni sociali. L’ultimo meccanismo individuato da Donzelot, quello della relegazione, è la “velocità” urbana di principale interesse di questo capitolo perché i territori individuati come svantaggiati sono spesso concepiti come ambiti spaziali statici sotto le prospettive dello sviluppo economico, della perpetuazione delle disuguaglianze, della concentrazione di varie forme di povertà. Ciò che, in particolare, sembra aiutare nella definizione di territorio deprivato sono proprio i concetti di relegazione, intesa come ostacolo all’inclusione socio-spaziale di specifiche popolazioni, e quello di concentrazione, qui inteso come “ammontare” del livello di povertà locale. Territori

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deprivati dovrebbero essere, cioè, luoghi in cui diverse forme di povertà si concentrano con maggiore intensità rispetto ad altri spazi della città e allo stesso tempo ambiti spaziali in cui la condizione di maggior svantaggio tende a ripresentarsi, seppur eventualmente sotto diverse forme, anche a fronte del trascorrere del tempo.

Il rischio di leggere i fenomeni sociali in quest’ottica è quello che in parte è in realtà già avvenuto con il passaggio cognitivo che dalla spazializzazione del “problema” conduce alla “problematizzazione” dello spazio del problema. In questo senso la spazializzazione di una condizione non viene più semplicemente identificata come una

situazione, ma lo stesso spazio, e dunque i gruppi sociali che lo vivono, si fanno essi

stessi problema. Ciò perché le fragilità non vengono trattate come difficoltà sociali, ma appunto come problemi spaziali, intimamente connessi al luogo fisico in cui si verificano. In questo senso se tra un territorio e un altro sono presenti differenze di notevole entità, la responsabilità viene individuata nei luoghi stessi e in chi ci abita, e non nei sistemi di strutturazione del potere e delle dinamiche sociali di più ampia portata di cui i singoli invece soffrono.

In Europa le odierne politiche di coesione sociale e territoriale incarnano esattamente questo focus operativo che in alcuni paesi era già diventato il fulcro di progettazioni specifiche nella seconda metà del ‘900, vedi le ABIs (Area Based Iniziatives) in Gran Bretagna e la PdV (Politique de la ville) in Francia, tra i primi esperimenti di politiche

territorializzate europee.

Le prime esperienze area-based (ABIs) hanno avuto origine negli anni ’60 in Inghilterra dopo aver accertato che il fenomeno della povertà fosse fortemente correlato a precisi territori e nello specifico alle nuove migrazioni del tempo (Tallon, 2009). Come meglio vedremo nei paragrafi successivi trattando dell’effetto quartiere, l’obiettivo di queste iniziative era quello di risolvere lo stato di estrema povertà in cui versavano alcune realtà urbane e migliorare in particolare la condizione di deprivazione minorile che poteva farsi premessa della concretizzazione europea dell’esperienza del ghetto americano. Vi era la paura che le evoluzioni in atto a livello europeo potessero cioè avere gli esiti di violenza e disordine già verificati oltreoceano. Con questo fine, evidentemente, non veniva combattuta la povertà in quanto tale, bensì l’esito culturale che si pensava essa portasse con sé. Le primissime esperienze,

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denominate EPA (Educational Priority Areas) andavano infatti a definire le zone territoriali in cui era necessario intervenire con progettualità specifiche attraverso l’istituzione scolastica. La scuola, considerata per i giovanissimi quell’incubatore di stimoli positivi contrapposto al macro contesto sociale deprivato e potenzialmente invalidante entro cui crescevano, era la realtà da supportare (economicamente) per poter migliorare, indirettamente, il territorio tutto, aprendo possibilità che diversamente i bambini non avrebbero avuto:

“Why then do we devote so much attention to this subject? The power of environment is more obvious than it was then. The progress made since 1931 testifies to it. The rise in educational standards is due to improvements in the schools themselves; but it is also due to changes in the homes from which the children come, and, beyond the homes, to changes in the wider society of which the children and their parents are members […]” (The Plowden Report, 1967, punto 78).

L’esperienza francese della PdV ha un excursus del tutto simile a quello delle ABIs inglesi. Di fronte alla nascita dei disordini registrati nelle banlieue di alcune delle principali città francesi, infatti, le ZEP (Zones d’éducation prioritaire) degli anni ’80 erano zone di “educazione prioritaria” all’interno delle quali portare avanti attività di valorizzazione locale. Dapprima connessa alle sole scuole, che anche in questo caso ricevevano incentivi economici in relazione alla zona territoriale in cui erano collocate, divenne politica urbana nei successivi anni ’90, con la piena affermazione della

“geografia prioritaria” come focus di intervento dell’intero nucleo urbano10:

“Pour améliorer la qualité de l'offre de services et ouvrir au plus grand nombre de ménages de réelles possibilités de choix, il faut adapter les politiques sectorielles et les articuler dans un véritable projet urbain d'ensemble, tourné vers un développement qualitatif et un meilleur équilibre entre le centre des villes et les banlieues.” (riportato in Marelli 2014, p. 68).

In entrambi i casi possono essere ritrovati degli elementi comuni. Da una parte si tratta di fatto della ricerca di un rinnovato contratto sociale tra autorità e popolazione

10 Vedi la legge 10 luglio 1989 approvante il Xe plan dove la contrapposizione tra centro e periferie era uno dei gap cui le amministrazioni pubbliche dovevano provvedere.

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(Ibidem), in cui la prima si impegna a risolvere ed eliminare le discrepanze socio- strutturali verificabili in diverse aree urbane, nell’ottica del raggiungimento di un pieno diritto alla città da parte di tutti. Al contempo l’attività delle amministrazioni aveva, evidentemente in entrambe le esperienze, uno spiccato ruolo di controllo urbano. Nel caso inglese il timore che guidava l’istituzione delle iniziative area-based era quella del tipico ghetto americano, mentre nel caso francese, il discorso sulle geografie prioritarie nasceva a fronte dell’esigenza di “sedare”, di fatto, alcuni territori “caldi”. Inoltre, sia in un caso sia nell’altro, obiettivo principale era quello di “educare” la natura culturalmente differente di alcune fasce di popolazione: proprio le scuole rappresentavano l’anello forte della catena tramite cui doveva essere innescato il cambiamento culturale all’interno di quelli che più avanti nel tempo sarebbero stati definiti i quartieri difficili per eccellenza.

Col passare del tempo i programmi di riqualificazione diretti ai territori sono evoluti e si sono in parte complessificati. Oggi quelli della concentrazione della deprivazione e dell’esclusione sociale a livello urbano sono diventati anche elementi cardine delle direttive e delle politiche dell’Unione Europea.

“Le origini dei principi di coesione economica e sociale risalgono al Trattato di Roma (1957)