Pace, guerra e obiezione: società, politica e giurisprudenza
4.1 Come si cambia una società? Il ruolo delle minoranze: discussioni su guerra e costituzione
4.1.1 Guerra, esercito e spese militari su una rivista della “terza forza” (“Il Ponte”, 1949-1955)
Come si è potuto vedere seguendo le vicende degli obiettori italiani del Novecento, la seconda guerra mondiale ebbe un ruolo propulsore nella diffusione del dibattito, fino ad allora estremamente limitato, sull’obbligo di servire nell’esercito e sul ruolo dell’esercito all’interno della politica dello Stato. L’esperienza della dittatura prima, della guerra poi e della Resistenza infine, avrebbe condizionato e caricato di significati e motivazioni nuovi l’intera discussione.
In Italia, una delle sfide principali delle forze antifasciste di fronte alla ricostruzione del dopoguerra era stata quella di rendere il 1945 un anno di cesura e, quindi, di affrontare ed eliminare le possibili continuità (sul piano politico, istituzionale e culturale) dei regimi fascisti in seno ai nuovi regimi democratici. “Porsi dopo il
fascismo” doveva essere, nelle proposte degli intellettuali antifascisti degli anni Cinquanta, un atto di coscienza foriero di mentalità e metodi politici e sociali radicalmente diversi da quelli usati dal fascismo e capaci di creare uno “Stato nuovo”, uno Stato che trovava nella convivenza e nella collaborazione internazionale le sue fondamenta e nella libertà di coscienza e nel diritto di resistenza dei suoi cittadini i mattoni con cui costruire la società. L’esperienza della dittatura e della guerra, inoltre, avrebbero dovuto funzionare come deterrente e come spinta propulsiva per costruire una nuova mentalità improntata alla creazione della pace e contraria a ogni forma di militarismo: bisognava quindi partire dalla decostruzione delle teorie e delle culture che avevano portato alla guerra, prima tra tutte l’idea che si vis pacem para bellum.
Questo dibattito teorico sulla questione della guerra e della pace si svolse principalmente all’interno delle classi intellettuali legate all’antifascismo, in particolare il gruppo azionista e “post-azionista”, che trovavano nella pubblicazione di riviste uno dei modi più efficaci di impegno. Uno dei luoghi privilegiati di questa discussione furono le pagine della rivista “Il Ponte”, che può servire da esempio in questa sede per capire quale fosse il contesto all’interno del quale si muovevano gli obiettori. “Il Ponte” era nata a Firenze nel 1945, in seno a un gruppo legato al Partito d’Azione, per particolare impulso del giurista e quindi costituente Piero Calamandrei, che diresse la rivista sino al 1956, anno della sua morte. Era quindi una rivista di nicchia, scritta e letta da una élite, ma nella quale si possono ritrovare molti dei temi caldi dell’epoca. “Il Ponte” si occupava di storia, letteratura e politica e in quelle prime annate era impegnata nelle battaglie per la costituente, per la Repubblica, per l’indipendenza della magistratura e, infine, contro l’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico1. Nel gennaio 1949, la rivista si apriva con un editoriale firmato “Il Ponte” (da attribuire a Calamandrei) intitolato La pace si difende
dal didentro2.
1 Per una storia della rivista nei suoi primi anni di vita e della direzione Calamandrei, cfr. Luca Polese
Remaggi, Il ponte di Calamandrei, 1945-1956, Olschki, Firenze 2001; cfr. anche l’antologia Oltre la guerra fredda: l’Italia del “Ponte” (1948-1953), a cura di Mimmo Franzinelli, Laterza, Roma-Bari 2010; Mario Isnenghi, Dalla Resistenza alla desistenza: l’Italia del “Ponte” (1945-1947), Laterza, Roma-Bari 2007. Sulla nascita della rivista, cfr. anche il ricordo di Vittore Branca, Rinnovamento culturale: “Il Ponte”, in Id., Ponte Santa Trinita. Per amore di libertà, per amore di verità, Marsilio, Venezia 1987, pp. 45-61, che data al giugno 1946 il definitivo passaggio della rivista nell’area azionista-radicalsocialista, sancito anche dal cambio di editore (da Le Monnier alla Nuova Italia di Tristano Codignola).
2 Sugli editoriali a firma “Il Ponte” scritti da Calamandrei cfr. Marcello Rossi, “Il Ponte” di Calamandrei,
Tutti voglion la pace, e per questo preparano la guerra. La sciagurata menzogna che cento volte ha insanguinato il mondo, il pretesto ipocrita di tutti i conquistatori, è ancora su tutte le bocche: si vis pacem, para bellum. Cento volte l’esperienza dimostrò che preparare la guerra già vuol dire fare la guerra: eppure tutti, di qua e di là, continuano a prepararla, illudendosi così (o figurando) di salvare la pace. Tutti continuano a giurare che chi vuole la guerra è «quell’altro»: quell’altro, il traditore, il maledetto, il dannato. Gli uni e gli altri sono talmente innamorati della pace, che alla fine si sbraneranno per gelosia3.
La critica di Calamandrei era rivolta contro il continuo incremento degli arsenali, quelli delle superpotenze e quello italiano (malgrado le limitazioni imposte dal trattato di pace del 1947, nel mutato quadro delle relazioni internazionali era già in discussione l’incremento delle spese militari in vista dell’ingresso nel Patto Atlantico), che invece di diminuire il numero di effettivi e di armi a partire dal 1945, sembrava lo aumentasse smisuratamente. La questione dell’esercito (formato da chi, quanto consistente e se su base volontaria o per coscrizione) erano elementi centrali nel dibattito ben prima che si iniziasse a discutere del diritto di obiezione di coscienza e, per certi versi, ne furono all’origine. Il contesto dell’inizio della guerra fredda e del ruolo che l’Italia vi avrebbe dovuto giocare erano la cornice principale al dibattito. Il giurista e ormai pubblicista fiorentino, e con lui probabilmente buona parte dei collaboratori de “Il Ponte”, partiva proprio da questa questione e spiegava quanto essa fosse centrale dato che non era possibile schierarsi su una posizione neutralista nella guerra fredda, perché – sosteneva Calamandrei –, sarebbe stato un controsenso: in tempo di pace non si può essere neutrali, la neutralità esiste solo rispetto a una guerra esterna e lontana, se invece la guerra è dappertutto, come lo è la guerra fredda, il neutralismo è irreale.
E poi che vuol dire neutralità? Neutrali si può rimanere nelle guerre che sono fuori di noi; ma oggi, anche se vorremmo rimanere neutrali nella guerra che scoppierà di fuori, la guerra ce la troveremmo in casa, dentro di noi4.
Calamandrei, che seppur antifascista fin dall’inizio non partecipò mai attivamente alla Resistenza5, era prima di tutto un giurista che credeva che le istituzioni fossero la
3 La pace si difende dal didentro, “Il Ponte”, V, 1, gennaio 1949, pp. 1-3. 4 Ivi, p. 2.
base della convivenza civile. Proprio per questo prendeva una posizione ben chiara sulla questione dell’esercito e dello Stato italiano del secondo dopoguerra: era a favore della creazione di un’Europa politicamente e militarmente unita (cioè con un esercito sovranazionale europeo composto da cittadini in armi, quindi con la leva obbligatoria), in grado di porsi come forza di pace e di mediazione tra Usa e Urss6. Per questo motivo si schierò, in un altro editoriale del “Il Ponte”, in modo deciso contro il Patto Atlantico: solo la creazione di una terza superpotenza che avesse agito da ago della bilancia avrebbe potuto garantire un futuro di pace7.
Man mano che il sistema bipolare si stabilizzava, Calamandrei e “Il Ponte” tornavano sulla questione militare europea con sempre maggior disincanto. Nel 1950 vengono pubblicati due articoli sul tema, uno in aprile e l’altro in agosto. Tra le due date, c’era stato lo scoppio della guerra di Corea e perciò le differenze di interpretazione cambiano visibilmente. Il primo articolo8, sempre firmato “Il Ponte” ma sempre da attribuire alla penna di Calamandrei, manifestava ancora una certa speranza di evitare lo scoppio di uno scontro aperto tra USA e URSS con la creazione di un’Europa in grado di mediare tra le due potenze9. Il secondo articolo10, pubblicato quando la guerra di Corea era in corso e firmato Enzo Enriques Agnoletti, dimostrava invece una differenza di
5 Non è questa la sede per seguire le note polemiche intorno alla collaborazione di Calamandrei alla stesura
del Codice di Procedura Civile fascista e alla sua mancata diretta partecipazione alla Resistenza, essendosi allontanato da Firenze dopo l’8 settembre 1943 per nascondersi a Colcello (Umbria) e quindi guadagnare Roma dopo la liberazione della capitale. Si vedano ora i saggi che accompagnano i volumi delle opere pubblicati dall’editore Laterza, in particolare Piero Calamandrei, Uomini e città della Resistenza: discorsi, scritti ed epigrafi, a cura di Sergio Luzzatto, Laterza, Roma-Bari 2006 e Piero e Franco Calamandrei, Una famiglia in guerra: lettere e scritti (1939-1956), a cura di Alessandro Casellato, Laterza, Roma-Bari 2008. Nell’ambito degli studi di storia del diritto, sono da segnalare alcuni lavori dedicati a Calamandrei e alla sua collaborazione per il CPC fascista da Franco Cipriani, di cui ricorderemo per esempio La consulenza tecnica e i doni natalizi di Piero Calamandrei, “Il giusto processo civile. Rivista quadrimestrale”, 2, 2009, pp. 143 ss.
6 “Se l’Europa vuol diventare veramente una forza in difesa della pace, non basta che sia una forza militare,
non basta che diventi una unità politica, ma è necessario che riesca ad offrire a queste due grandi esigenze umane che si fronteggiano, un terreno di incontro e di pacificazione, una soluzione originale della questione sociale che le plachi entrambe e le riconcilii”, La pace si difende dal didentro cit., p. 3.
7 In una lunga lettera, Calamandrei (che in quel periodo era deputato alla Camera e che votò contro
l’adesione dell’Italia del Patto) spiegava i motivi di questa presa di posizione: “Io per mio conto sono contrario in questo momento a qualsiasi scelta, e non sono favorevole al patto atlantico proprio perché esso forza l’Italia a questa scelta preventiva, che io ritengo pericolosa e non necessaria in questo momento. […] Diventare alleato militare di uno dei due blocchi in conflitto significa assumere fin da ora la posizione di nemico potenziale dell’altro blocco. […] All’Italia questo patto non solo non dà la garanzia di allontanare dal nostro territorio la catastrofe della guerra, ma dà anzi ad essa la certezza della immediata invasione anche se il conflitto sarà provocato da urti extraeuropei”, in Piero Calamandrei, Ragioni di un no, “Il Ponte”, V, 4, aprile 1949, pp. 451-454.
8 Appello all’unità europea, anno VI – n. 4 aprile 1950, pp. 337-339.
9 “In quest’ora decisiva, l’ultima speranza di pace e di distensione mondiale è negli Stati Uniti d’Europa.
Chi si pone contro questa speranza è al servizio di vecchi incorreggibili nazionalismi e di nuovi imperialismo che considerano l’Europa come una vile pedina del loro giuoco mondiale”, ibidem, p. 338.
prospettiva: non più speranza in un’Europa di pace, ma una critica al Patto Atlantico per non essere stato in grado di creare un vero fronte di difesa. Leggendo di fila i numeri della rivista durante l’anno 1950 si può cogliere l’espressione di un chiaro sentimento: la guerra di Corea ha distrutto tutte le speranze di pace e di possibilità per l’Europa unita e attesta che il Patto Atlantico non è riuscito nel suo intento di creare una organizzazione militare comune, dal momento che è evidente il ruolo egemonico degli Usa11. La guerra di Corea è di certo l’evento che più ha influito nel cambio di prospettiva e ha aperto la strada a un disincanto accentuato: la preparazione alla guerra sembrava allora inevitabile in Italia e anche nell’eventualità che il conflitto non fosse scoppiato, si sottolineava che intanto lo stato di allerta avrebbe impedito alla democrazia di svilupparsi. Ancora Calamandrei:
Chi ha detto che la guerra è scomoda? La guerra (quando ancora non è cominciata) è piuttosto comoda: permette di consolidare i privilegi, di chiudere la bocca alla miseria, e di sopprimere la libertà; e tutto (si capisce) per salvare la patria12.
L’amara considerazione di Calamandrei è dunque un’accusa: lo stato di guerra permanente e il riarmo del paese hanno prima di tutto la funzione di mantenere sotto controllo la comunità nazionale, attraverso la limitazione delle libertà, delle rivendicazioni e delle dinamiche sociali che dovrebbero esserci in una democrazia in tempo di pace. Ecco che si inizia a discutere di libertà individuali, di diritto alla vita e di libera scelta, altrettanti temi in gioco anche nella discussione che si stava aprendo attorno alla questione del diritto di obiezione di coscienza e ai primi casi di obiezione (Pinna, Santi, Ferrua e Barbanti), come se la guerra di Corea avesse dato l’avvio agli obiettori.
Rimandando al prossimo capitolo per una puntuale comparazione con il caso tedesco, rileviamo qui la particolare attenzione che la direzione e la redazione del “Ponte” prestano alle vicende tedesche. Nel maggio del 1949 viene pubblicato un saggio di Ernesto (Ernst) Heinitz, professore universitario di diritto penale che si era stabilito in Italia nel 1933 per rimanerci fino al 1949 (prima della guerra per un periodo era stato
11 “Il Patto Atlantico aveva anche un altro aspetto: quello di porre le basi per una organizzazione militare
comune. Anche su questo punto il bilancio, fino ad oggi, per quanto concerne l’Europa continentale, è presto fatto: zero. Zero perché le scarse armi finora arrivate non hanno che un’importanza decorativa, e zero perché la politica che sta dietro l’invio di armi non è stata capace di infondere negli stati europei continentali quel minimo di speranza nell’avvenire e di coesione morale senza le quali non esiste resistenza militare”, ibidem, p. 851.
assistente universitario di Calamandrei), quando tornò in Germania. “Il Ponte” pubblica proprio il resoconto del suo rientro in patria13. Un passo attira l’attenzione, soprattutto dopo aver parlato degli obiettori del dopoguerra, delle loro scelte e delle loro idee:
Particolarmente interessante è questo fenomeno degli studenti. Essi non credono nella democrazia a tipo occidentale, che considerano «überlebt», superata; ma tanto meno vorrebbero un nuovo stato totalitario o una «democrazia popolare». La fede religiosa è viva e operativa soltanto in pochi; essi sono profondamente scettici, senza la forza di creare un mondo nuovo in luogo di quello crollato. Questa è una delle ragioni per cui l’attività dei partiti politici ha qualcosa di artificiale; la gran massa non solamente della popolazione, ma anche di quelli che domani dovrebbero formare l’avanguardia, creatori di una nuova Germania, non si occupa affatto di politica o, almeno, non è interessata nell’attività dei partiti politici14.
Heinitz presenta così la teoria di “generazione scettica” otto anni prima della pubblicazione del libro del sociologo Helmut Schelsky che avrebbe reso celebre questa definizione15. In questo brano si sottolinea il distacco tra la generazione dei giovani (che
lui chiama “studenti” e che possiamo immaginare avere tra i 18 e i 25 anni nel 1949, cresciuti durante la guerra ma in genere troppo giovani per avervi partecipato direttamente) e i partiti politici che non sono stati in grado (o forse non sono interessati) a coinvolgere i giovani (ma anche il resto della popolazione) nella ricostruzione morale e politica del Paese. Si tratta di una tesi che ha avuto diversa fortuna16 ma che alla luce di un lavoro di ricerca come questo sui giovani obiettori degli anni ’50 e ’60 non sembra particolarmente corretta, mentre può essere in buona parte contestata sulla base dei dati raccolti sia per quanto riguarda l’Italia che per la Germania occidentale. E non tanto per
13 Ernesto Heinitz, Ritorno in Germania, “Il Ponte”, V, 5, maggio 1949, pp. 583-586. Non ho trovato molte
notizie sulla pur interessante figura di Heinitz (1902-1998). Stabilitosi a Firenze nel 1934, oltre a lavorare alla facoltà di giurisprudenza, scrisse un metodo per imparare il tedesco, pubblicato dall’editore Nerbini (1941); dopo la guerra, nel 1952 si stabilì a Berlino Ovest, dove fu professore ordinario di procedura penale, diritto processuale e diritto del lavoro presso la Freie Universität e ricoprì importanti cariche accademiche (tra le altre cose fu decano dal 1961 al 1963). Oltre ai cataloghi delle biblioteche nazionali italiana (Firenze) e tedesca, cfr. il ricordo pubblicato sul sito della Freie Universität (http://userpage.fu- berlin.de/~fupresse/FUN/1998/6-98/l3.htm, consultato il 30.4.2014).
14 Heinitz, Ritorno in Germania cit., pp. 585-586.
15 Mi riferisco in particolare alla famosa definizione del sociologo Helmut Schelsky (Helmut Schelsky, Die
skeptische Generation: eine Soziologie der deutschen Jugend, Diederichs, Düsseldorf-Köln 1957) di “generazione scettica”, caratterizzata dal rifiuto di ogni ideologia mobilitante e totalitaria (di destra come di sinistra) e da una posizione critica ma in maniera impolitica.
16 Cfr. Franz-Werner Kersting, Helmut Schelskys “Skeptische Generation” von 1957, in Vierteljahrshefte
für Zeitgeschichte, Jahrgang 50 (2002), Heft 3, pp. 465-495 (il pdf della rivista è consultabile alla pagina: http://www.ifz-muenchen.de/heftarchiv/2002_3.pdf, data ultima consultazione 19.5.2014).
il fatto che fu proprio questa “generazione scettica” a ricostruire il proprio paese nel dopoguerra, quanto piuttosto per il fatto che furono alcuni rappresentanti di questa generazione a farsi promotori di idee e teorie pacifiste, così come di dibattiti e discussioni sulla questione della libera scelta di forte carica innovativa, spesso al di fuori di partiti e gruppi politici. Quello che Heinitz non sembra cogliere è la profonda trasformazione culturale in atto e il mutamento delle forme e delle pratiche del fare politica rispetto agli schemi delle esperienze liberali di prima della guerra.
Tra i collaboratori del “Ponte” più attenti alla “questione tedesca” c’è Enzo Enriques Agnoletti, che vi interviene più volta, cominciando con un lungo articolo intitolato Il riarmo della Germania17.
Il riarmo della Germania occidentale è ora al centro della politica di tutti gli stati occidentali e sarà esso a determinare in certi casi le relazioni fra questi vari stati, l’unità o la disunione dell’Europa18.
La possibilità di riarmare la Germania fu, come vedremo nel prossimo capitolo, discussa a lungo a diversi livelli, e i riflessi di questi dibattiti si trovano proprio nelle riviste coeve. Enriques Agnoletti, per esempio, riporta fin da subito la percezione secondo la quale la questione del riarmo tedesco sia centrale per lo sviluppo della Comunità europea: esso nasconde al suo interno, infatti, la questione del tipo di relazione che i paesi europei si incamminavano a intrattenere con gli Stati Uniti:
L’Europa, forse contro sua voglia, ha trovato una sua politica unitaria verso la Russia, deve trovarla anche verso l’America e una politica vuol dire coscienza di interessi non sempre coincidenti e volontà di farli prendere in considerazione, sia pur nell’ambito di quella che si vuole chiamare una «scelta occidentale». Se l’Inghilterra preferisce, forse a ragione, fare per suo conto una sua politica verso l’America, il resto dell’Europa che
17 Enzo Enriques Agnoletti, Il riarmo della Germania, “Il Ponte”, VI, 12, dicembre 1950, pp. 1473-1484.
Enzo Enriques Agnoletti (1909-1986) è stato uno dei protagonisti della Resistenza fiorentina, nelle file del Partito d’Azione, e dopo la guerra fu una figura di spicco dell’area della “terza forza”; dopo la morte di Calamandrei, riprese la direzione del “Ponte”, che a sua volta mantenne sino alla morte. Il suo impegno pacifista si dispiegò in particolare in occasione della guerra del Vietnam. Si veda ora il recente numero monografico della “sua” rivista: Enzo Enriques Agnoletti: l’utopia incompiuta del socialismo, a cura di Andrea Becherucci e Paolo Mencarelli, “Il Ponte”, a. LXX, n. 1-2. L’archivio di Enriques Agnoletti è depositato presso gli Archivi Storici dell’Unione Europea, cfr. le descrizioni online agli indirizzi: http://archives.eui.eu/en/fonds/104542?item=EEA e http://archives.eui.eu/en/fonds/101467?item=EEA/DOC (data ultima consultazione: 10.5.2014).
fa una sua politica verso la Russia, riarmandosi, deve cercare una politica comune verso l’America, tale da poter diminuire i pericoli del riarmo, pericoli a cui essa è, per ragioni geografiche, più esposta dell’America. Questa politica non può che cominciare con l’unità19.
Enriques Agnoletti si esprime, quindi, per una “Unità europea” in grado di rivendicare la propria autonomia dagli Stati Uniti: solo così, seppur riarmata, essa potrà – spiega – scongiurare una nuova guerra che la vedrebbe di nuovo come campo di battaglia principale.