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Il rifiuto delle armi in Italia: dall’Unità alla seconda guerra mondiale

2.1. Le proteste contro la guerra e i primi obiettori italiani del Novecento

2.1.1 Le proteste contro la guerra e i primi obiettori: dall’unità d’Italia alla fine del secolo

La storia dell’obiezione di coscienza italiana iniziò ben prima che tale diritto venisse riconosciuto dalla legislazione nazionale, conquistato solo dopo lunghe battaglie combattute a più livelli (quello giuridico, quello sociale e quello culturale) a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Esistono però alcuni esempi di rifiuto di servire nell’esercito avvenute prima di tale data che in molti casi rappresentano dei precedenti ben presenti nelle memorie collettive italiane.

Gli episodi di resistenza alla leva universale introdotta in tutto il regno all’indomani dell’unificazione potevano essere dovuti a una serie di diverse motivazioni. Esisteva un problema “tecnico”, legato all’organizzazione in un unico corpo dei vari eserciti preunitari, che contribuì ad alimentare le polemiche contro l’esercito regio sostenute soprattutto da nostalgici dei Borbone e dai cattolici intransigenti – nel più ampio contesto delle resistenze e dei malumori contro l’unificazione. Le tensioni erano tanto più vive dal momento che questo nuovo esercito fu subito chiamato a intervenire contro il fenomeno del brigantaggio, esploso quasi in una guerra civile nelle regioni meridionali.1 C’erano le resistenze dei contadini, soprattutto delle regioni meridionali, per cui la leva era una novità assoluta e diventava, insieme alle nuove tasse, uno dei simboli dei carichi, se non dei soprusi, imposti dal nuovo Stato. Il peso di vedersi

1 Su tale questione si veda, per esempio, Massimo Mazzetti, Dagli eserciti pre-unitari all’esercito italiano,

“Rassegna storica del Risorgimento”, 4, 1972, pp. 563-592; Marco Rovinello, Disegnare la Naja. Rappresentazioni della leva in Italia fra nation-building e antimilitarismo (1861-1914), “Memoria e ricerca”, 44, 2013, pp. 43-72; Salvatore Lupo, Il grande brigantaggio. Interpretazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia, Annali 18, Guerra e Pace, a cura di Walter Barberis, Einaudi, Torino 2002, pp. 463-502, in particolare pp. 493-498 per l’ampiezza e la ferocia dello scontro e l’opportunità di considerarlo – scelta rivendicata da Lupo sin dal titolo del suo saggio – una vera e propria guerra civile.

sottrarre per un lungo periodo giovani nel pieno delle forze è stato immortalato anche in varie testimonianze letterarie, la più celebre probabilmente è quella del servizio militare di Ntoni e della morte nella battaglia di Lissa si Luca, nel romanzo naturalista I

Malavoglia di Giovanni Verga (1881).

Anche diversi repubblicani, mazziniani e garibaldini avevano motivi di protestare contro l’istituzione sabauda: critiche, attacchi e sarcasmi contro i militari erano pertanto un tema ricorrente nella stampa “democratica”, tanto più nel primo decennio post- unitario, quando l’esercito fu impiegato per l’ordine pubblico, per reprimere gli ultimi slanci mazziniani e garibaldini e diede pessima prova nella cosiddetta terza guerra d’indipendenza (1866). In questo quadro, l’anti-monarchismo poteva diventare aperto antimilitarismo, assumendo dei caratteri assonanti con una concezione pacifista “moderna”. Questo aspetto si accentuò in seguito alla nascita, anche in Italia, di un movimento operaio, socialista e anarchico, che avviò esplicitamente una propaganda nelle caserme. Lo storico militare Virginio Ilari ha proposto di far risalire proprio a questi episodi l’origine del pacifismo e dell’antimilitarismo italiano, riferendosi in particolare alle proposte di una propaganda sistematica nelle caserme formulate dall’internazionalista Tito Zanardelli al Congresso socialista universale del 1877.2 Tale interpretazione appare eccessiva e ci pare più corretto ridimensionarla, seguendo lo storico del movimento operaio Renato Zangheri: la questione della propaganda nelle caserme è stato un tema classico della Prima Internazionale, e non va letto tanto come incitamento a un rifiuto etico, quanto nel contesto di un programma rivoluzionario; si trattava di avvicinare i soldati agli ideali della rivoluzione sociale e a convincerli, in caso di insurrezione, a schierarsi con la rivolta popolare, portando con sé le armi3.

Quel che ci interessa sottolineare è che in questo periodo una certa opinione antimilitarista prende forma come tema politico e letterario, in particolare negli ambienti del movimento letterario “sovversivo” e “antiborghese” della Scapigliatura che in parte coincidono con quelli in cui muove i primi passi il movimento operaio italiano all’indomani della Comune di Parigi4. Si sfoglino per esempio le pagine di uno dei

2 Virgilio Ilari, Storia militare della prima Repubblica, Nuove Ricerche, Ancona 1994, p. 371.

3 Renato Zangheri, Storia del socialismo italiano, I, Dalla rivoluzione Francese a Andrea Costa, Einaudi,

Torino 1993, pp. 483-484. Si può qui portare a esempio il modo in cui il III Congresso della Federazione Italiana dell’Internazionale del 1876, ha ribadito la necessità della propaganda nelle caserme.

4 Non è questa la sede per una rassegna bibliografia esaustiva su questi temi, oggi marginali ma che per un

periodo hanno alimentato molte ricerche; ci limitiamo a rimandare a Zangheri, Storia del socialismo italiano, I cit., capp. III (Preludio italiano), IV (La Comune di Parigi), V («L’Internazionale è il sole

principali periodici scapigliati, il “Gazzettino rosa”, tra il 1869 e il 18725, oppure si pensi al racconto poi diventato famosissimo di Camillo Boito, Senso – il cui coprotagonista maschile, Remigio, è un sordido tenente (peraltro dell’esercito austriaco) seduttore, mentitore e imboscato, finché la contessa veneziana sedotta non riuscirà a farlo fucilare dalla giustizia militare6.

Da questi ambienti letterari esce anche un’opera molto più radicale, quella di Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869), citato talvolta come il vero precursore dell’obiettore di coscienza7. Nel suo più famoso romanzo, Una nobile follia (1867),8 Tarchetti racconta la

storia di un giovane che diserta (è questa la “nobile follia”) perché, dopo aver ucciso un nemico in battaglia, ha dei rimorsi di coscienza e inizia a considerare l’uccisione, anche in battaglia, un “atroce assassinio”. Le parole con le quali l’autore descrive il significato dell’arruolamento e della coscrizione sono molto esplicite:

Si manda loro un ordine che significa: – Vi avvertiamo che siete chiamato nelle file dell’esercito […], vi abbiamo visitato e abbiamo trovato la vostra dentatura sana, e i vostri muscoli forti: d’ora innanzi non sarete più un uomo come gli altri, non avrete più dei diritti e dei doveri, una volontà, una coscienza, dei desideri come gli altri; rinuncerete a tutto; […] marcerete al suono di un tamburo, e conterete uno e due; imparerete come si fa ad ammazzare un uomo, a spiarlo, ad appostarsi sulla sua via, a superarlo nella bontà delle armi e nella rapidità delle mosse; questa cognizione chiamerete tattica e strategia, e la eleverete al grado di scienza: dopo ciò avrete sempre con voi un mostro enorme e

dell’avvenire»); Claudio Giovannini, La cultura della “Plebe”. Miti, ideologie, linguaggio della sinistra in un giornale d’opposizione dell’Italia liberale (1868-1883), Franco Angeli, Milano 1984.

5 Per una panoramica su questo giornale, nato in ambienti scapigliati in letteratura e repubblicani in

politica, e quindi diventato uno dei veicoli dell’internazionalismo nel contesto italiano, cfr. Umberto Gualdoni, Rapporto su «Il Gazzettino Rosa», “Otto/Novecento”, VII, 1, gennaio-febbraio 1983, pp. 81- 128; rimando inoltre a Giuseppe Farinelli, La Scapigliatura. Profilo storico, protagonisti, documenti, Carocci, Roma 2003

6 Si veda, tra le altre cose: Aberto Asor Rosa, L’epopea tragica di un popolo no guerriero, in Storia

d’Italia, Annali 18, Guerra e pace cit., pp. 860-861 (il saggio alle pp. 839-918).

Si tenga presente, peraltro, che gli scapigliati potevano essere antimilitaristi contro l’esercito sabaudo, ma che comunque erano legati agli ambienti mazziniani e garibaldini e quindi non erano affatto pacifisti nel senso moderno termine.

7 Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Il Mulino, Bologna 20053

intitola Un obiettore precoce il paragrafo dedicato al romanzo di Tarchetti, Una nobile follia (cfr. pp. 219- 220).

8 Iginio Ugo Tarchetti, Una nobile follia (Drammi della vita militare), Treves, Milano 1869. Ho usato la

versione elettronica del testo, disponibile online:

http://www.liberliber.it/mediateca/libri/t/tarchetti/una_nobile_follia/pdf/tarchetti_una_nobile_follia.pdf, da cui sono tratte tutte le citazioni. La più recente edizione a stampa è quella curata da Roberto Carnero (Oscar Mondadori, Milano 2004), da tempo fuori commercio

spaventevole che sarà al vostro fianco, che imporrà qualunque obbligo alla vostra volontà e alla vostra coscienza, a cui sarete pienamente venduto, e che si chiamerà disciplina.

[…] Così si uccide un uomo e si forma un soldato9.

La vita militare, dunque, uccide la moralità dell’uomo. Quella di Tarchetti, che era stato soldato nell’esercito italiano impiegato nella guerra contro il brigantaggio, tra il 1861 e il 1863, è una polemica contro il militarismo dilagante nella società in cui viveva oltre che una polemica contro quel mondo borghese che trovava nel militarismo e nella guerra scopo e nutrimento. Il romanzo ebbe due ristampe e, come spiega l’autore nella prefazione alla seconda edizione, sembra aver avuto anche una discreta diffusione. Tuttavia la “contro-educazione antimilitarista di Tarchetti è […] una goccia nel mare”: sul “piano dei numeri e quindi dell’efficacia sul grande pubblico, la voce controcorrente del refrattario esce schiacciata dal confronto” con la letteratura apologetica, di stampo militarista, incarnata in particolare da Edmondo De Amicis con i suoi Bozzetti di vita

militare10.

Per trovare dei dibattiti più diffusi sulla questione militare bisogna aspettare qualche decennio. In Italia i primi esempi di antimilitarismo militante in tempo di guerra contro il servizio militare a poter essere definiti “pacifisti” nel senso più ampio e moderno del termine furono suscitati dalle avventure coloniali.11 Fu la sconfitta nella battaglia di Dogali (nella cui circostanza una colonna di soldati italiani venne distrutta, il 26 gennaio 1887) a far scoppiare le prime reazioni nel paese: i resoconti della sconfitta, riportati con enfasi sui giornali dell’epoca assieme ad articoli di inchiesta sulla sconfitta che continuarono per settimane,12 impressionarono fortemente l’opinione pubblica, tanto

che non molti giorni dopo iniziarono i primi raduni nelle piazze per protestare contro il

9 Tarchetti, Una nobile follia cit., pp. 84-85.

10 Isnenghi, Le guerre degli Italiani cit., p. 220. Scrive ancora nel 1880 Felice Cameroni, uno dei critici

letterari più in vista della Scapigliatura, disgustato dai bozzetti deamicisiani, tutti per il trono e per l’esercito: “Quando penso, che in Francia la giovane letteratura ci dà sulla vita militare e sulla guerra i Contes du lundi e le Soirées de Medan e che da noi è pochissimo apprezzata la Nobile follia di Tarchetti ed acclamato con entusiasmo l’autore dei Bozzetti militari, mi domando, se il manierismo idealista e la rettorica ottimista non siano una malattia cronica del nostro paese. E dire, che tale epidemia la si constata in ogni manifestazione letteraria!”; “Il Sole”, 24 aprile 1880 [recensione a le Soirées de Medan] cit. in La pubblicistica nel periodo della Scapigliatura. Regesto per soggetti dei giornali e delle riviste esistenti a Milano e relativi al primo ventennio dello Stato unitario: 1860-1880, a cura di Giuseppe Farinelli, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1984, p. 1372

11 La storiografia italiana è abbastanza concorde sul trovare i primi esempio di antimilitarismo militante

nella campagna d’Abissinia. Cfr. per esempio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica cit., pp. 371 e ss.

12 Si veda, per esempio, la prima pagina dedicata dal Corriere della sera il 14 febbraio 1887 sotto il titolo

governo. Nel frattempo, il 1° febbraio, il ministro dell’Interno e primo ministro Depretis aveva ordinato alla polizia di impedire qualsiasi manifestazione. Il 2 febbraio una considerevole folla si era riunita a Roma, in piazza Montecitorio, quando la polizia intervenne con alcune cariche per disperderla; ma i manifestanti si riunirono di nuovo poco dopo davanti alla Camera. Nell’aula si discuteva l’approvazione dei crediti per la guerra d’Africa e alcuni deputati tentavano di ammonire il governo a cessare un’impresa “non nobile”, se non “pazza e criminosa”, sottolineando anche che la scelta coloniale non era stata votata dal Parlamento. È in questa occasione che Andrea Costa pronunciò la celebre frase “Né un uomo né un soldo” che sarebbe rimasta a lungo la parola d’ordine del pacifismo socialista.13 Intanto, dalla piazza provenivano le grida: “Abbasso Depretis!

Abbasso il governo carnefice dei nostri fratelli! Abbasso le spedizioni africane!”. La polizia tornò alla carica colpendo i manifestanti con randelli e col calcio delle rivoltelle, ma senza riuscire a prendere il controllo sui manifestanti. Venne quindi chiamato l’esercito che, tra lo stupore della polizia, fu accolto con un “Viva l’Esercito! Abbasso i carnefici della gioventù italiana!”14.

Le grida con le quali furono accolti i soldati sono un interessante segno di quanto fosse radicato il sentimento di vicinanza dell’esercito al popolo: nell’esercito il popolo riconosceva i “propri figli”, i giovani della leva obbligati “contro il loro volere” a indossare la divisa15. È un tema ricorrente nella letteratura pacifista a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando la protesta contro la guerra assume anche significati di classe perché i “giovani mandati a morire” provengono dalle classi sociali più basse. Si può così spiegare perché fu il Partito Operaio che, assieme a varie organizzazioni minori, il 17 febbraio costituì un Comitato Popolare Permanente per il richiamo delle truppe dall’Eritrea (a cui presero parte, tra gli altri: il Comitato Elettorale di Bologna, le Società

13 Cfr. Antonella Marrone, Piero Sansonetti, Né un uomo né un soldo Una cronaca del pacifismo italiano

del Novecento, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003.

14 Tale notizia è entrata a far parte della memoria collettiva pacifista, tanto che viene riportata diversi anni

dopo in 50 anni di lotte del popolo italiano per la pace, Comitato Nazionale dei Partigiani della Pace, Roma 1950, p. 4. Una copia della pubblicazione è conservata nella biblioteca della Fondazione Feltrinelli di Milano. Quella giornata è rimasta a lungo, per altre vie, anche nella più generale memoria nazionale. Si ricorderà infatti che la manifestazione del 2 febbraio e i relativi scontri sono lo sfondo per un breve passaggio del romanzo di Gabriele D’Annunzio, Il piacere, uscito nel 1889, che scatenò grandi polemiche, a causa dell’atteggiamento ostentato dal protagonista Andrea Sperelli: altezzoso, sprezzante, “decadente”, mentre considerava tanto tumulto per “quattrocento bruti, morti brutalmente”. D’Annunzio dovette replicare dicendo che l’autore e le sue idee non va confuso con i suoi personaggi e le loro idee.

15 Si tratta di un tema classico per tutto il XIX secolo: le rivoluzioni riescono quando l’esercito fraternizza

con l’insurrezione popolare (si pensi alle celebri scene delle rivoluzioni parigine del febbraio 1848 e del marzo 1871). Su tale tema cfr. anche Rochat, Massorbio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943 cit., [metti pp.].

Operaie Popolari consociate e confederate di Pavia, le Società lavoranti in carrozze e sellai di Brescia, l’Associazione degli italiani residenti a Zurigo, la Società dei lavoranti cappellai italiani di Parigi). Scopo di questo Comitato, che vedeva principalmente la partecipazione di rappresentanti ed esponenti delle classi popolari, era quello di suscitare nell’opinione pubblica una corrente di ostilità verso la guerra. La campagna si concluse con i comizi del 23 maggio a Milano, Livorno, Bologna, Busto Arsizio, Fano, Alessandria, ai quali parteciparono alcune migliaia di persone.

In tutta risposta e, probabilmente, per sciogliere la tensione, Depretis predispose l’arruolamento di volontari per l’Abissinia, cessando l’invio di soldati di leva: per la prima volta dalle guerre d’indipendenza si riproponeva la creazione di un esercito di volontari, col chiaro intento di inserirsi nella tradizione risorgimentale del cittadino che imbraccia volontariamente le armi per liberare il proprio paese dall’invasore e dall’oppressore. Ma la proposta trovò la ferma opposizione delle associazioni garibaldine (in particolare quelle di Imola e di Pavia) che presero posizione contro questo richiamo alla “tradizione risorgimentale del volontariato” e incitarono i giovani a rifiutarsi di indossare la divisa in una guerra d’oppressione contraria ai principi democratici del Risorgimento italiano.

Nonostante queste proteste avessero avuto una discreta diffusione e fossero state riportate da diversi giornali, tali discussioni in realtà sembrarono incidere relativamente poco sull’opinione pubblica così come sulla sfera politica e di governo16.

Il conflitto si sarebbe riaperto qualche anno dopo e l’Italia sarebbe tornata a subire pesanti sconfitte in territorio africano: nel 1896 l’esercito italiano subì una rovinosa disfatta ad Adua (con un bilancio di circa 7000 morti tra i soldati italiani e almeno altrettanti tra gli etiopi). Non appena la notizia giunse in Italia, la proteste riprese nelle piazze italiane. Come è noto, la disfatta di Adua segnò la fine politica di Crispi, che fu destituito dalla carica di primo ministro. Questa svolta peraltro non servì a fermare le proteste, che proseguirono anzi più intense: in alcune città d’Italia vennero divelte le rotaie delle ferrovie per impedire la partenza delle truppe, mentre gruppi di cittadini, raggruppatisi sotto ai monumenti di Mazzini e di Garibaldi per esigere il richiamo delle truppe dall’Africa, finirono per subire le cariche della polizia17.

16 Intanto il conflitto avrebbe trovato una soluzione diplomatica nel 1889, quando venne stipulato il trattato

di Uccialli tra il governo italiano e il negus Menelik, da poco in carica, che sancì la pace per alcuni anni.

2.1.2 Le proteste contro la guerra e i primi obiettori: dalla guerra di Libia al 1945