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Il rifiuto delle armi in Italia: dall’Unità alla seconda guerra mondiale

2.2 Non solo uomini davanti all’obiezione di coscienza: le donne e il rifiuto delle arm

2.2.2 In pubblico: le donne nelle piazze e nelle assemblee

L’azione del pacifismo femminile non si esercitò solo nel campo della pedagogia, benché questo rivesta senz’altro una fondamentale importanza, né unicamente attraverso scritti teorici. Negli anni che prendiamo qui in esame, le manifestazioni, le strade e le piazze non sono occupate solo dagli uomini: le donne furono spesso in prima fila nella manifestazioni pacifiste e a favore dell’obiezione di coscienza. Come si è visto, già nelle proteste di piazza dei primi decenni del Novecento (quelle contro le guerre coloniali o durante il Biennio rosso, per esempio) le donne occupavano spesso la testa del corteo, erano le donne ad avvicinarsi all’esercito schierato e a cercare di convincerlo ad abbassare le armi (si trattava di uno schema tipico delle proteste di piazza di metà Ottocento-inizio Novecento: le donne venivano messe in prima fila nelle fasi di negoziato, come primo approccio, per scoraggiare le fucilate e allo stesso tempo dimostrare le intenzioni pacifiche dei manifestanti). Anche nel corso della guerre furono quasi sempre le donne a riunirsi nelle piazze per chiedere la fine dei combattimenti mostrando sui volti i lutti della guerra.

Diversi sono gli esempi che si potrebbero portare. In Italia, già negli scioperi del marzo 1943 (in particolare l’8 marzo) il grido che univa le donne nelle manifestazioni era “guerra alla guerra”63. Ma l’esperienza femminile italiana più interessante è quella del pacifismo, che si potrebbe definire “emotivo”, di Maria Occhipinti che già nel 1944 iniziò la sua battaglia contro la coscrizione obbligatoria scendendo per le strade a protestare e sdraiandosi davanti ai camion che avrebbero dovuto portare gli uomini (tra cui suo marito) al fronte a combattere. Quel che successe durante le proteste a Ragusa nel 1944 è stata la stessa Occhipinti a riferirlo in una raccolta di memorie, scritte a distanza

62 Martellini, Fiori nei cannoni cit., p. 28. Per uno sguardo più ampio e di lungo periodo, seppur talvolta

provocatorio, sul rapporto tra donne e guerra cfr. Elshtain, Donne e guerra cit.

63 Marina Addis Saba, Donne e coscienza femminile, in La cultura della Pace dalla Resistenza al Patto

di una decina di anni64: essa raccontò i due mesi di insurrezione contro il richiamo alle armi, cominciati il giorno in cui il segretario comunale aveva pubblicamente insultato le donne della città che chiedevano pane esortandole a prostituirsi agli americani. Motivazioni pacifiste e rivendicazioni di genere si intrecciarono così nella protesta ragusana. Occhipinti (1922-1996) era all’epoca una ventenne di famiglia povera e con poca istruzione, che si ritrovò quasi per caso a essere tra i capi della rivolta. Si trattava di una ribellione contro il potere delle istituzioni ancor oltre che contro l’esercito, che costò alla giovane prima il confino e poi il carcere. Nelle sue memorie, le proteste contro la coscrizione si intrecciano a lotte per il pane e per la terra e, nel passaggio dal privato al pubblico, viene posto l’accento sul tentativo di ribellarsi, prima di tutto, contro il principio d’autorità sia in casa che fuori. Lo scrittore – e militante antifascista e nella Resistenza – Carlo Levi caratterizzava in questo modo il senso del gesto di Maria Occhipinti, nella sua nota introduttiva per l’edizione del 1957:

La rivolta individuale diventa spirito di giustizia, assoluto, per tutti, l’esame di coscienza, azione con gli altri: lo sforzo di liberazione femminile si sposta dal piano privato e familiare della servitù del costume, dell’ignoranza e del pregiudizio, sul piano pubblico dell’azione politica65.

Levi, dunque, coglie nel gesto della Occhipinti lo stesso significato degli obiettori del dopoguerra (Levi scrive nel 1957, quando cioè c’è già stata la prima ondata di obiezioni di coscienza): ovvero il passaggio da un gesto individuale, chiuso in sé stesso, a un gesto pubblico e di esempio per la società, un gesto politico nel suo più antico significato. In Sicilia, dunque, sembrano esserci state “le prove” di quello che ci sarà nel dopoguerra italiano: forzando un po’ le parole di Levi e le rivendicazioni di Occhipinti, si può dire che durante questi movimenti si fanno le prove di nuovi sentimenti riguardo la guerra e il rifiuto delle armi.66

64 Maria Occhipinti, Una donna di Ragusa, con una nota di Carlo Levi, prefazione di Paolo Alatri, Landi

editore, Firenze 1957.

65 Carlo Levi, nota introduttiva a Maria Occhipinti, Una donna di Ragusa cit., p. XI.

66 Tale teoria secondo la quale il Sud del 1944 è un po’ la prova dell’Italia che ci sarà dopo, è stata ripresa

da diversi storici. Si vedano in particolare gli atti del Convegno del 1984: Nicola Gallerano (a cura) L’altro dopoguerra. Roma e il sud 1943-44, con contributi di G. Canali, G. Chianese, R. Colapietra, M. Comei, E. Corvaglia, R. Covino, N. De Janni, P. De Marco, C. Felice, E. Forcella, A. Giovagnoli, A. Graziani, T. Lombardo, A. Martini, C. Pavone, A. Pepe, L. Piccioni, L. Ponziani, A. Portelli, G. Quazza, P. Saraceno, V. Tedesco, Franco Angeli, Milano 1985.

Nel suo testo, Occhipinti raccontava gli eventi partendo dalla condizione del popolo siciliano stanco e oppresso (condizione nella quale l’autrice evidenzia la situazione che la donna è costretta a subire nella società arretrata siciliana). Così l’accusa a chi, durante e dopo la guerra (a cominciare dal Partito comunista) definì “fascista” il movimento di rivolta del dicembre ’44-gennaio ’45, è quella di non aver capito la complessa realtà siciliana, mentre l’errore principale del governo libero era stato quello di non aver puntato su un “volontariato cosciente” anche nel Sud Italia – così come era avvenuto per la Resistenza al Nord – per combattere il nemico tedesco, piuttosto che su una coscrizione obbligatoria che si sarebbe imposta, ancora una volta, come esterna, oppressiva e autoritaria.

E proprio in questa chiave e nell’accusa di autoritarismo si deve leggere la questione del ruolo della donna nel contesto delle lotte contro la leva militare. Occhipinti è sicuramente uno degli esempi da cui partire: una giovane donna incinta alla testa di una rivolta contro il richiamo alle armi. E la questione di genere è rilevata anche da Carlo Levi:

Maria Occhipinti guarda alle donne della sua terra, che non si sono ribellate come lei, ma che hanno tuttavia il senso nuovo della libertà, che scoprono se stesse vincendo in se stesse la servitù e l’ambivalenza, e che riescono non soltanto a vivere e sopportare, ma, (segno di forza reale e di libertà raggiunta) che sanno, anche, commiserare67.

La guerra, quindi, ha permesso a queste donne di prendere coscienza di un nuovo ruolo che solo il dopoguerra avrebbe potuto definitivamente sancire.

Anche nel dopoguerra Occhipinti continuò il suo impegno per la pace, e non solo attraverso la pubblicazione delle memorie che raccontano la sua esperienza nel 1944, ma anche con la partecipazione a dibattiti e assemblee sulla pace.

Quello della Occhipinti non è però una eccezione. La conversione al pacifismo in seguito a lutti subiti è un tema classico, che si riscontra largamente per esempio dopo la prima guerra mondiale e non è nemmeno una esclusiva di genere68. È però più raro

67 Carlo Levi, nota introduttiva a Maria Occhipinti, Una donna di Ragusa cit., p. XII.

68 Si pensi per esempio alla vicenda dell’inglese Vera Brittain, che divenne pacifista dopo aver perso il

fratello e il fidanzato in guerra. Cfr. il carteggio Vera Brittain, Letters from a Lost Generation – First World War Letters of Vera Brittain and Four Friends: Roland Leighton, Edward Brittain, Victor Richardson, Geoffry Thurlow, Little Brown, London 1998. Oppure al grande impegno di Émile Durkheim nella propaganda francese antitedesca durante la guerra del 1914-18 si interruppe bruscamente dopo la morte del figlio al fronte.

trovarne esempi nel periodo 1943-45 dove l’immagine della guerra è quella di una “guerra giusta”, la guerra antifascista combattuta per la libertà (e da qui l’accusa di fascismo ai movimenti di cui la Occhipinti fu parte).

Nel dopoguerra l’impegno femminile nella pace è rinnovato nei dibattiti pubblici su quel che è stato e su come evitare che possa succedere nuovamente in futuro. Marisa Cinciari, una delle prime donne italiane a ricoprire delle cariche parlamentari di un certo livello (PCI) e tra le fondatrici dell’UDI, nel 1945 scrisse un articolo per il periodico Noi

donne intitolato È finita la guerra. Conquistiamo la pace…, nel quale incitava le donne a

prender parte al dibattito sulla guerra, sul fascismo e sulla ricostruzione culturale e morale del paese:

[…] ogni donna vuole oggi sapere con chiarezza cosa ha significato questa guerra spaventosa, chi l’ha preparata e scatenata, perché vuole con tutte le sue forze che non avvengano più guerre in cui i suoi uomini siano mandati senza ragione a morire e ad uccidere, in cui la sua famiglia venga dispersa, distrutta la sua casa, troncata ogni sua più cara speranza. Oggi una sola volontà deve unire tutte le donne italiane: conoscere i colpevoli, conoscere le cause della guerra. E distruggerle. Lavorare, lottare per la pace69.

In queste parole non viene assolutamente rotto il cliché secondo il quale la donna si deve occupare di assistenza, infanzia e, al massimo di educazione: la donna è sempre prima di tutto madre (o al massimo sorella), sono “i suoi uomini” a essere mandati a morire. E anche la velata rivendicazione, che si legge tra le righe di questo articolo, del diritto della donna a partecipare alla vita politica, non si discosta molto da questo cliché.

A partire dal 1945 c’è un fiorire di movimenti femminili per la pace in tutto il mondo. Il 19 maggio 1945 si tiene a San Francisco il primo congresso femminile internazionale che ha come tema La partecipazione della donna all’opera di pace. Il 20- 22 ottobre 1945 l’UDI organizza a Firenze il suo primo congresso, intitolato Per la

ricostruzione, per il benessere, per la pace. Tra i suoi obiettivi:

Che la donna creatrice e conservatrice di vita si metta risolutamente e con tutte le sue forze contro lo strumento di distruzione e di morte che è la guerra; che nella partecipazione alla vita politica del suo paese abbia sempre presente questo scopo e appoggi quelle correnti politiche che danno più affidamento di essere contro la guerra; che nell’educazione dei

figli sviluppi quei sentimenti di solidarietà, di comprensione che verranno a creare tra i popoli la vera fratellanza, condizione prima e indispensabile per una pace duratura70.

Di nuovo l’educazione, di nuovo un ruolo di appoggio alla lotta pacifista e di nuovo la donna “creatrice e conservatrice”. Tutti gli anni Cinquanta dei movimenti femminili sembrano aver continuato su questa linea, con le organizzazioni femminili che organizzano eventi rivolti alle donne in questa chiave.

Questa stessa prospettiva e questa stessa retorica si ritrova anche nelle compagne degli obiettori di coscienza. Vanna Ablondi, anarchica e compagna di uno dei primi obiettori di cui si parlerà nel prossimo capitolo, per esempio, si esprime con queste parole in un articolo scritto mentre il suo compagno è in carcere per obiezione di coscienza:

Ed è a noi donne soprattutto che tocca il compito più arduo. Siamo noi che non dobbiamo permettere che ci strappino dalle carni i nostri figli; noi, che con dolore li partoriamo e con amore li facciamo crescere, non dobbiamo lasciare che quando questi sono sulla soglia della vera vita, quando sono sul punto di diventare uomini, che ce li portino via, che ce li mandino ad uccidere contro i figli di altre madri che piangono e soffrono come noi. È il nostro sangue che deve ribollire, che deve vincere qualsiasi ostacolo per salvare quest’umanità corrotta, sanguinante, per salvare i nostri figli, per salvare i figli di tutto il mondo. Se nei limpidi occhi di un giovane, se nelle sue parole calde di entusiasmo, se nella sua voce ferma e decisa, gli uomini, i malvagi, non hanno saputo apprendere la verità, la vera legge della vita, ebbene tocca a noi farci capire, a noi donne di tutti i paesi, a noi madri di tutto il mondo. Sono, siamo fiere di te, compagno Piero, di quelli che prima di te dettero l’esempio e di quelli che dopo di te lo seguiranno. Siamo fiere di te che rappresenti in questo momento il vero ideale di amore e di pace, che rappresenti con la tua rinuncia un nuovo domani, sereno, in cui il nostro sogno di un’umanità libera e fiorente sarà, diventerà una realtà71.

Non risulta che Vanna Ablondi all’epoca avesse figli, eppure è proprio il ruolo di madre a essere utilizzato nelle sue parole come principale esempio di donna contro la guerra e il militarismo: retorica di un’epoca ma anche costruzione sociale dell’identità femminile.

70 Per la ricostruzione, per il benessere, per la pace, in “Noi donne”, II, 5, 15 ottobre 1945.

71 Vanna Ablondi, Parole di una donna ai giovani…, Anarchiscmo-Vespro Schiacchiano, maggio 1950-

A partire dagli anni Sessanta aumenta sempre più la partecipazione di donne e di attiviste pacifiste a manifestazioni pacifiste organizzate da uomini, manifestazioni che verranno anche prese a esempio per manifestazioni femminili create sullo stesso modello. L’esempio più famoso è forse quello della prima Marcia Perugia-Assisi del 24 settembre 1961 (che aveva visto la partecipazione di diverse migliaia di persone). Alla fine della Marcia si costituì la Consulta italiana per la pace, alla quale presero parte diverse associazioni femminili e che permise di organizzare diverse altre manifestazioni, tra le quali la manifestazione organizzata a novembre dello stesso anno a Roma dall’Unione donne italiane.

Due anni dopo, nell’aprile del 1963 venne organizzata una marcia internazionale di donne a Roma, su iniziativa di un gruppo di “Madri per la pace” americane, che intendevano recarsi in pellegrinaggio da papa Giovanni XXIII per ringraziarlo per il suo impegno per la pace nel mondo e che ottennero un’udienza proprio pochi giorni dopo l’emanazione dell’enciclica Pacem in terris, dove, tra l’altro, si fa implicitamente cenno anche alla questione dell’obiezione di coscienza:

30. L’autorità, come si è detto, è postulata dall’ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell’ordine, e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza, poiché “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”; (At 5,29) in tal caso, anzi, l’autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso. “La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza”72.

Ma sulla questione della Chiesa cattolica e del dovere di obbedire ci soffermeremo nel prossimo capitolo.

72 Lettera enciclica Pacem in Terris del sommo pontefice Giovanni PP. XXIII ai venerabili fratelli

patriarchi primati arcivescovi vescovi e agli altri ordinari locali che sono in pace e comunione con la sede apostolica, al clero e ai fedeli di tutto il mondo nonché a tutti gli uomini di buona volontà: Sulla pace fra tutte le genti nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1963.

Capitolo 3