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Guerra finita, nuovi orizzonti d’azione diplomatica? (giugno ’45-febbraio ’47)

3. Guardando ad Est: l’azione diplomatica di Palazzo Chig

3.2. Guerra finita, nuovi orizzonti d’azione diplomatica? (giugno ’45-febbraio ’47)

A guerra finita, nell’estate 1945, l’ambasciata a Mosca si riattiva. Il 25 agosto 1945 i sovietici dichiararono il rimpatrio di tutti i prigionieri italiani in Russia. Quello che sconvolse di più l’opinione pubblica italiana fu il numero, solo 19.648 nei non quali erano compresi i fuggitivi fascisti, civili e gli 84.830 soldati dell’ARMIR. Tra il 1945-46 furono 12.385 i soldati dell’ottava armata che tornarono in Italia, mentre in totale si ebbero 21.663 rimpatri415. Già dal 1943 le famiglie dei soldati partiti per la Russia avevano formato un’associazione, l’“Alleanza familiare dispersi e prigionieri in Russia”, mentre molta della stampa indipendente si era dedicata all’argomento; dopo l’agosto i comitati dei familiari, i quotidiani come il “Corriere del Popolo”, “il Quadrante”, per non parlare dei periodici di destra come “l’Uomo Qualunque” di Giannini o “l’Italia nuova” di Selvaggi, denunciavano i sovietici di impedire il ritorno del resto dell’Armata416. Un fatto era però che i sopravvissuti confermavano la nota sovietica: non credevano fossero rimasti molti prigionieri italiani in Urss. Questo faceva indignare ancora di più l’opinione pubblica; i sovietici erano responsabili della decimazione di un intero corpo d’Armata: dai racconti sul trasferimento nei campi siberiani417 emergevano infatti le privazioni subite dai soldati, il freddo, le morti.

Aprendo una parentesi sulla vicenda dell’ARMIR, la storiografia sull’argomento risente di prese di posizioni e interpretazioni ideologizzate. In realtà l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore si dimostra forse il più obiettivo: nella prima relazione ufficiale sulla vicenda, datata 21 gennaio 1946, sulla base delle testimonianze di settanta reduci si stabilisce che alla tragedia dell’Armir hanno contribuito una serie di fattori: la deficienza di attrezzatura, il clima, il disinteresse delle autorità militari sovietiche e la malvagità di alcuni quadri sorveglianti. Nelle zone di operazione il trattamento era peggiore, mentre migliorava nei campi di prigionia dove non era eccessiva la propaganda comunista418. Ancora Della Rocca tende a sottolineare la connivenza italiana nella tragedia: quando i tedeschi rifiutano, nell’agosto ‘41, di aderire alla convenzione di Ginevra (la quale prevedeva un trattamento specifico dei prigionieri) dichiarando che il documento non veniva rispettato dagli alleati, allora l’Unione Sovietica, che pur non avendo firmato, aveva aderito a inizio conflitto, rifiuta anch’essa la convenzione; è in questo momento che l’Italia, il 12 marzo ‘42, comunica al comitato internazionale della Croce Rossa che avrebbe smesso di comunicare le liste di prigionieri all’Urss. L’atteggiamento italiano, dice Della Rocca, sembra autorizzare i sovietici alla trascuratezza nel trattamento dei prigionieri. E’infatti la noncuranza che provoca il maggior numero dei decessi nelle file dell’Armir, noncuranza non tanto frutto di sentimenti anti-italiani, di un’avversione particolare, ma piuttosto di una situazione estremamente confusa vissuta dai quadri dell’esercito sovietico in quel periodo. Tra la fine del 43 e gli inizi del 44 l’Unione Sovietica 415

ASMAE. A.P. (1931-45) b. Urss 45 f. Prigionieri di guerra tedeschi-italiani in Russia 416 La politica estera italiana e l’Unione Sovietica (1944-48)..p.60

417 Armir si ritira nella primavera del 1943, cade prigioniera e viene sparpagliata nei campi delle retrovie, in questa fase molti muoiono di malattie e denutrizione. I campi per i prigionieri vengono organizzati solo nell’estate 43, quando l’offensiva sovietica si stabilisce sulla linea.P. Scaccia, Armir: sulle tracce di un esercito perduto, il Mondo Digitale, 2002

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dovette creare ex-novo un’offensiva di ampia portata, ricacciando le truppe nemiche dal proprio territorio, passando attraverso i villaggi, le case. Graziosi ricorda come nell’Urss la stessa popolazione subisse le privazioni vissute dai prigionieri italiani419. E’ quindi difficile attribuire alla tragedia dell’ARMIR quell’intenzionalità che poteva invece esistere nel caso della carestia ‘32-’33 in Ucraina. Del resto al di là della vicenda in sé, la cui analisi trascende l’argomento di questo lavoro, è importante sottolineare come il caso dei prigionieri di guerra italiani in Urss sarà una costante nelle relazioni italo- sovietiche: il dibattito si accese con toni forti e un notevole riscontro al livello di opinione pubblica italiana dopo le dichiarazioni sovietiche del 1945; passato lo slancio emotivo, nel 45-46 si discute sulle modalità dei rimpatri; i sovietici infatti tendevano a non comunicare le liste di rimpatrio e consegnavano i prigionieri alle autorità di passaggio senza indicare il numero di matricola o la lista dei nominativi. Diminuito l’interesse generale ed esauritesi i rimpatri, la questione si ridusse ad uno stillicidio di note e di richieste di chiarimenti da parte di Palazzo Chigi al Cremlino. Si chiedevano le liste dei decessi ed eventuali informazioni riguardo ai prigionieri rimasti in Urss: tra il 47-51 si riesce a rimpatriare 29 reduci dell’Armir, di cui 3 generali, mentre nel 1954 addirittura 34. La questione dei prigionieri diventa quindi un elemento procedurale, quasi una parte della prassi diplomatica tra i due paesi, per dieci anni, dal 1944 al 1954. Si stabiliscono delle richieste standard a cui corrispondono risposte standard, infatti, confrontando tra i documenti dell’Ambasciata di Mosca i vari fascicoli prigionieri di guerra e internati nei diversi anni, si nota una corrispondenza di frasi e di procedure, mentre gli obiettivi raggiunti, come abbiamo visto, sono esigui. Una domanda interessante potrebbe essere: quanto la questione dei prigionieri ha influenzato le relazioni italo-sovietiche? Sicuramente già nel 1947 Palazzo Chigi si era convinto, grazie anche ai racconti dei veterani, dello scarso numero di italiani rimasti in Urss; del resto insistere sul loro futuro era un dovere diplomatico, ma non una questione di vita o di morte. Soprattutto al livello di quadri dirigenti ci si convince della “risibile importanza che la questione dei prigionieri italiani rivestiva nel panorama degli enormi spostamenti di popolazione provati dalla guerra nei territori sovietici”, e soprattutto che “in Urss si badava al sostanziale: negli affari politici concernenti prigionieri di qualsiasi stato e della stessa Urss, tutte le questioni erano ridotte al puro e semplice rimpatrio, senza ulteriori preoccupazioni di carattere umanitario o giuridico quali controlli internazionali, elenchi nominativi420”. In un appunto di Quaroni a De Gasperi si chiarisce meglio questa posizione largamente condivisa: “questa gente è abituata a tutta un’altra concezione dei rapporti umani. Qui non si sono mai occupati dei loro prigionieri, non hanno mai chiesto liste, non hanno cercato di assicurare loro corrispondenza, pacchi ecc. Anche adesso agli anglo-americani non si domandano liste, si domanda di averli indietro (---) nell’esercito sovietico salvo per i generali, non si comunica alla famiglia che il proprio congiunto è morto, ognuno si sbrighi da sé. L’evacuazione ha disperso la popolazione dell’Unione nei quattro canti del paese: non c’è qui nessuno che si incarichi di fare delle ricerche, di rimettere insieme la famiglia (…) il mistero che circonda i nostri prigionieri non è certo maggiore del 419

Andrea Graziosi, L’Urss: dal trionfo al degrado: storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, vol. I, il Mulino, 2008 420

mistero che circonda qualsiasi piccola cosa421”. Si sta cominciando a capire la Russia. Le differenze di linguaggio sottendono differenze di civiltà, di atteggiamenti, di educazione e i due ambasciatori che soggiornarono a Mosca nel lungo dopoguerra percepirono chiaramente questo scontro di civiltà. Scontro perché in un clima di crescente tensione internazionale le diversità prendono spesso una forma oppositiva. Nella microscopica realtà dell’ambasciata moscovita lo scontro è analizzato invece senza i toni polemici e in maniera obiettiva, nelle sue sfumature più impensate.

All’inizio del 1946 la diplomazia italiana sta imparando a conoscere le peculiarità sovietiche, così, nel caso dei prigionieri, abbandona ogni speranza di una reciproca comprensione e procede nell’unico modo possibile per i rappresentanti sovietici: il mercanteggiare. Si stabilisce una prassi che i diplomatici nella sede moscovita riutilizzeranno in altri ambiti, ottenendo anche alcuni importanti successi.

Tra il 1945 e il 1946 iniziano le prime dispute tra gli alleati; le tensioni sulla Polonia (gli angloamericani appoggiano il governo in esilio a Londra, l’Urss crea un raggruppamento a Varsavia, alla fine sono i sovietici a vincere con un governo di compromesso in cui la gran parte sono esponenti della fazione filo-russa) l’arrivo a Mosca, nell’estate ‘46, di delegazioni da Jugoslavia, Polonia e Bulgaria, ancora il trattato d’amicizia concluso dall’ Urss con l’Ungheria e la Cecoslovacchia nel febbraio ‘46, per non parlare degli avvenimenti in Grecia e della situazione in Germania, tutto ciò contribuisce ad irrigidire il clima di collaborazione internazionale sancito con la dichiarazione di San Francisco nella primavera del ‘45. Quaroni propone, in un rapporto del 14 ottobre ‘45, di usare queste tensioni a vantaggio dell’Italia. Proprio in continuità con la linea adottata da Prunas, si potrebbe in primis denunciare all’Urss la volontà dei governi alleati di imporre nel trattato di pace con l’Italia un Bill of Rights, che garantirebbe la via dell’intervento diretto agli anglo-americani nel governo della penisola. De Gasperi lascia correre, consentendo all’ambasciatore ampi margini di manovra. Con l’Urss la politica non ha una strategia; si vuole trattare perché l’Unione Sovietica è uno degli alleati più potenti quindi si può, si deve, aprire un canale con l’Urss, a patto che non pregiudichi le principali direttrice della nostra politica estera: gli Stati Uniti e l’Europa.

Il suggerimento dell’ambasciatore viene quindi seguito dalla dirigenza di Palazzo Chigi e porterà l’Unione Sovietica dalla parte dell’Italia nella Commissione Trattati, contro la proposta inglese e americana. Il Bill of Rights non si farà. Dall’altra parte anche gli Stati Uniti coinvolgono l’Italia nei meccanismi di quella che per ora è la “tensione nelle relazioni sovietico-americane”: a febbraio del ‘45 avevano modificato l’armistizio italiano senza consultare Mosca, implicitamente autorizzando l’Urss ad agire ugualmente nella sua zona d’influenza, ma nel novembre dello stesso anno il Dipartimento di Stato invia una nota al Cremlino in cui chiede all’Urss l’autorizzazione a modificare ulteriormente il regime di armistizio422. In realtà i documenti diplomatici statunitensi provano che non c’era una reale volontà di apportare alcuna modifica, anzi ci si era appurati da fonti italiane che l’Urss non avrebbe 421

Il mondo di un ambasciatore…p.143

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acconsentito ad eventuali rimaneggiamenti. Quello che Washington voleva fare era inaugurare una pratica che avrebbero poi dovuto rispettare anche i sovietici: consultarsi prima di modificare il regime armistiziale nei diversi paesi d’occupazione, con la consapevolezza di poter e di dover accettare un possibile rifiuto. Inutile specificare che Washington stava pensando alla Bulgaria, all’Ungheria e alla Romania.

Seppur in un linguaggio strettamente diplomatico, gli Stati Uniti provocano l’Urss, attraverso una prassi di attacchi velati alla sua sfera di influenza, prassi che si ripeterà anche da parte sovietica. La Guerra Fredda assume infatti le forme spesso di un contenzioso diplomatico, di un reciproco stuzzicarsi nelle rispettive zone di influenza; esse divengono così l’oggetto di una tensione crescente, il luogo di scontro di due diplomazie antagoniste. In questo modo l’Italia diventa terreno di Guerra Fredda, un qualcosa di passivo, un oggetto appunto di politica internazionale . In alcuni casi però il nostro paese riesce ad inserirsi nella contesa, diventando soggetto attivo, come nel caso del Bill of Rights. Ma per ritagliarsi quello spazio d’azione occorre l’accordo con la politica e con il finire del 1945 sia Sforza che De Gasperi si mostreranno sempre più restii ad usare la carta sovietica con gli angloamericani.

Abbandonando il piano tecnico delle relazioni italo-sovietiche, al livello di opinione pubblica, che pure influenza l’andamento dell’agenda diplomatica, l’Urss appare ancora come un qualcosa di misterioso. Ma con l’acuirsi della crisi internazionale si intensificano le critiche e le recriminazioni al potere sovietico. La stampa indipendente si concentra sulla presa di posizione sovietica riguardo a Trieste (le accuse sono rinfocolate poi dalle continue proteste dei profughi istriani contro il comportamento autoritario delle truppe Jugoslave) e sull’organizzazione della vita sovietica423, mentre la stampa cattolica si risente per le accuse di nazismo fatte da Radio Mosca, irrigidendosi ulteriormente dopo il processo al cardinale jugoslavo Stepinac424. A questo punto Quaroni scrive, nel febbraio ‘46, che l’Unione Sovietica è infastidita dai toni assunti dalla pubblicistica italiana e dal Cremlino si chiede al governo di intervenire, almeno per quanto riguarda i giornali governativi, con una campagna filosovietica. A poco vale, secondo l’ambasciatore, replicare invocando la libertà di stampa, concetto occidentale e assolutamente estraneo ad un paese come l’Unione Sovietica, piuttosto è importante per Quaroni evitare di “tirare in ballo la Russia per combattere il comunismo”. Su questo e solo su questo il governo poteva intervenire; del resto De Gasperi andò oltre le raccomandazioni dell’ambasciatore: fin

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Benedetto Croce il 23 agosto 45 parla della Russia come un esempio da non imitare, la “paura della Russia” nasce dal fatto che quando si tentò l’esperimento Russi in Italia lo si dovette chiamare fascismo:“in Russia non c’è socialismo ma una singolare forma di Stato e società scaturiti dalle viscere della storia russa (---)Il comunismo in occidente era diventato socialismo decurtato da quei tratti dapprima ascetici e monarchici e poi dittatoriali e assolutistici.”Croce vuole invitare gli italiani a tollerare il socialismo senza volervi trasporre la mentalità lontana anni luce dei sovietici. La Russia è vista come qualcosa di lontano e funzionale alla trattazione di problemi nazionali. In La politica estera italiana e l’Unione Sovietica

(1944-48)…p.98

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In ogni caso da parte di Mosca non c’era da allarmarsi, l’antisovietismo non era ancora un fenomeno radicato, nei giornali comunisti l’Urss era sempre il paese che aveva vinto la guerra, mentre le critiche all’Unione Sovietica erano spesso la reazione emotiva ad una perdita drammatica, ad una tragedia come quella dell’Armir, la quale si esaurì quando si sgonfiò la vicenda. Ancora, al livello di stampa indipendente si parlava dell’Urss come di un regime totalitario, tralasciando però toni offensivi o allarmistici. A proposito vedi lo studio di Morozzo Della Rocca sull’opinione pubblica italiana in La politica estera italiana e

dall’inizio del ‘46 pronuncia una serie di discorsi425 in cui sottolinea l’importanza di un’amicizia italo- sovietica, mentre il 4 marzo ‘46 in una conferenza stampa critica i giornali per i commenti antisovietici ed esorta, proprio come aveva suggerito Quaroni, a scindere la critica al movimento comunista da quella all’Urss, visti i legami di amicizia con l’Italia. Quest’amicizia non era, abbiamo visto, ugualmente percepita a Mosca, ma i sovietici fecero sapere di aver ampiamente gradito la presa di posizione di De Gasperi. Questo atteggiamento del leader italiano è una prova di quello che afferma Tosi: la DC vuole aprirsi alla collaborazione internazionale, a tutti i costi, anche quando questa si rivolge all’Urss. Contrariamente a quanto si possa pensare quindi non ci fu scontro sul terreno delle relazioni italo- sovietiche: i diplomatici vogliono sviluppare l’interesse nazionale attraverso negoziati bilaterali, Sforza e De Gasperi desiderano promuovere una nuova immagine dell’Italia, promotrice di pace internazionale, mentre i punti di partenza sono diversi, l’ obiettivo è lo stesso, ovvero avvicinare l’Unione Sovietica. Con la dichiarazione dell’ammiraglio Stone, il primo agosto ‘45, l’Italia ritorna ad avere un controllo, seppur parziale, sul commercio con l’estero426. Il 2 dello stesso mese a Palazzo Chigi si svolge una riunione inter-ministeriale tra funzionari del Ministero dell’Industria, del Commercio, dell’Agricoltura, del Tesoro, dei Trasporti ed alcuni membri dell’Istituto per il Commercio Estero427, in cui si parla della possibile ripresa delle relazioni commerciali con l’Urss. Ancora Giuseppe Enea, alle dipendenze del MAE e futuro addetto commerciale a Mosca dall’aprile ‘46, nell’ottobre ‘45 si recava con una missione commerciale in Alta Italia per testare le proposte di varie ditte per forniture all’Unione Sovietica. Il 13 novembre 45 riferisce in una memoria per il Ministero degli Esteri428 che sarebbe auspicabile l’attivazione di una corrente di scambi che prevedesse forniture di prodotti industriali finiti dall’Italia in cambio di materie prime dall’Urss. Soprattutto le industrie meccanica e elettromeccanica avevano mostrato un particolare interesse per questo tipo di scambi: la guerra aveva appunto, ricorda Enea, lasciato relativamente intatto l’apparato produttivo; le industrie avevano quindi una produzione superiore alle capacità di assorbimento del mercato interno. Enea individuava due principali problemi: la collocazione dei prodotti industriali e la scarsità di materie prime necessarie, in particolare carbone, ghisa e cellulosa. Intanto anche a Mosca ci si interroga sui vantaggi del commercio italo-sovietico: Quaroni parla con Dekanozov, viceministro degli esteri, il 31 ottobre ‘45429, il quale esprime dubbi sulle capacità dell’industria italiana e l’efficienza dei trasporti e sottolinea le difficoltà sovietiche a reperire

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De Gasperi sottolineerà l’importanza di intrattenere buoni rapporti con l’Unione Sovietica nel discorso alla consulta nazionale il 21 gennaio ‘46, alla Commissione esteri della Camera l’11 marzo ‘46, in un comizio a Milano 30 maggio e in un discorso all’Assemblea Costituente il 25 luglio. In tutti questi casi il capo del governo non sottolinea i vantaggi pratici (al livello di modificazioni regime armistiziale o ammorbidimento delle forme del trattato di pace) ma gli scopi dell’amicizia con l’Urss: promuovere la collaborazione pacifica tra le nazioni, all’armonia e alla pace. Così di nuovo siamo di fronte all’impostazione degasperiana dei problemi di politica internazionale, tutta finalizzata a ricreare per l’Italia un nuovo ruolo, quello di promotrice della pace e dell’armonia sovranazionale. V . Capperucci e S . Lorenzini (a cura di) Scritti e discorsi

politici. Ediz. critica. vol.. 3: Alcide De Gasperi e la fondazione della democrazia italiana 1943-1948, il Mulino, 2008

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La Commissione Alleata decideva ancora in merito alle merci da esportare o da importare ma le liste venivano proposte dall’establishment italiano, mentre fino al marzo ‘46 la flotta mercantile non venne restituita all’Italia. Storia della politica

estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957)…

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ASMAE A.P. (1946-50) b. Urss 2 f. Rapporti con l’Italia 428

ASMAE, A.R., b. 307 f. Relazioni economiche tra Urss e Italia 429

beni richiesti come contropartita alle forniture industriali: carbone, nafta, ferro, legame, grano, erano tutti elementi necessari in primis per la ricostruzione dell’Urss e poi dell’Europa Orientale, alla cui sistemazione economica i sovietici davano una priorità assoluta.Il sottosegretario agli affari esteri, il comunista Celeste Negarville, va a Mosca per convincere i sovietici ad aprirsi al commercio con l’Italia; nei suoi rapporti del 11 e del 23 settembre 430 riporta come la perplessità sovietica riguardava “1) impegni assunti dalla Missione economica italiana a suo tempo recatasi negli Stati Uniti 2) Grossi movimenti di azioni tendenti a far passare le principali attività italiane sotto il controllo degli Stati Uniti 3) nostra capacità di negoziare liberamente accordi commerciali con altri stati e, nel caso specifico l’Unione Sovietica. 4) in rapporto anche ai punti precedenti, capacità della nostra industria di assumere impegni per forniture a codesto paese(…) 5) vi è poi la questione dei trasporti, alla quale si attribuisce da parte sovietica un carattere pregiudiziale.” A fine ‘45 Palazzo Chigi sembra persuaso, nelle persone del leader di dipartimento Zoppi e di Sforza, ma anche del ministro Merzagora, ad aprirsi all’Est. Pesano su questa presa di posizione i legami storici tra Italia e Unione Sovietica (nel 1919-21 Nitti aveva concluso un trattato commerciale vantaggioso mentre con gli accordi firmati da Mussolini, l’Urss arrivò a ricoprire il 50% del fabbisogno petrolifero italiano tra il 1929-34431), ma anche la complementarietà dei due mercati.

Così nell’estate ‘45 il Ministero degli Esteri riesce a trattare con la Polonia e si stabilisce, in cambio del carbone polacco, l’invio di 5000 lavoratori italiani432. Incoraggiato dall’esito positivo del negoziato polacco Sforza propone a Quaroni di fare una mossa decisiva verso i sovietici: il 15 gennaio ‘46 l’ambasciatore consegna al Cremlino433 una nota dettagliata del governo italiano in cui si precisavano le condizioni e le possibilità degli scambi auspicati: l’Italia avrebbe fornito disponibilità nei settori che più interessavano ai sovietici, quello navale e meccanico soprattutto, in cambio del reintegro delle materie prime utilizzate per la produzione. La nota sottolineava come l’armistizio non intralciasse in nessun modo lo sviluppo delle trattative: “nessun altro impegno limita la libertà dell’Italia nelle sue