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La “politicizzazione” della diplomazia: il caso Brosio

Questa elite negli anni tra il 1944 e il 1947 viene accusata da più parti di apologia fascista, di faziosità. Tutto ciò ebbe due importanti conseguenze: dalla parte degli accusati portò il corpo diplomatico a stringersi sempre di più, a radicarsi entro i propri confini e dalla parte degli accusatori indusse i leader politici a rimpiazzare i funzionari di Palazzo Chigi con membri dei partiti di governo o comunque figure esterne, militari, avvocati.

Luciolli nel suo libro parla delle cosiddette “nomine politiche” che fanno irritare terribilmente i funzionari del Ministero e portano ad una situazione insostenibile, per Luciolli: “erano stati convocati alla Conferenza di Parigi gli ambasciatori a Londra, Carandini, a Washington Tarchiani, a Mosca, Quaroni a Varsavia, Reale e a Rio de Janeiro Martini. Dei cinque, solo Quaroni era un funzionario di carriera ed era anche uno dei più brillanti.” Martini era un avvocato di Firenze, Eugenio Reale un membro del PCI, Tarchiani e Carandini appartenevano al partito liberale. Prosegue Luciolli “ammettevamo ad esempio che la carriera, a causa della posizione necessariamente esposta che molti alti funzionari avevano assunto sotto il fascismo, non era in grado di fornire lì per lì dei capi missione

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Palazzo Chigi: anni roventi…p.170

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ASMAE Archivio del Personale serie I, secondo versamento, b.18 Mancini Tommaso I-M-19 Concorso diplomatico 16 marzo 1939 per consigliere commerciale di seconda classe

politicamente accettabili per le principali sedi. (Perciò non lamentavamo che Carandini fosse ambasciatore a Londra, Saragat a Parigi e Tarchiani a Washington). Ammettevamo che l’”epurazione” dovesse colpire quelli di noi che per il loro zelo fascista avevano avuto ingiustificati vantaggi di carriera o che, più tardi, avevano aderito alla Repubblica sociale (---) non ammettevamo che si facesse pesare su di noi una presunzione globale di slealtà verso le nuove istituzioni, considerandoci aprioristicamente monarchici, fascisti, antidemocratici, eccetera. Non ammettevamo di non essere in grado di fornire, ad esempio un ministro a Caracas, a Montevideo o un console generale a Valparaiso, posti che, appunto, vedevamo assegnati ad elementi politici. Non capivamo perché a Rio de Janeiro dovesse essere destinato l’avv.Martini, né perché dovesse essere nominato titolare di un consolato generale in Argentina un ex ufficiale dell’Aereonautica, modesto dirigente della Democrazia Cristiana ed evidentemente capace soltanto di danneggiare la reputazione della nuova Italia”. E’ Proprio sulla base di questo scontento che nel febbraio 1946 a Palazzo Chigi si forma uno pseudo-sindacato dei diplomatici: qui non si critica la nomina di ambasciatori capaci, quali Carandini e Tarchiani, ma piuttosto per l’inserimento di figure dalla dubbia professionalità.

Sicuramente un fattore determinante della “politicizzazione” della diplomazia è l’esigenza di epurazione, ma non bisogna dimenticare la volontà dell’apparato governativo di muovere e controllare la politica estera imponendole certi connotati, che, vedremo più avanti, rispecchiavano la cultura internazionale delle Democrazia Cristiana.

Delle “nomine politiche” quella più importante ai fini del nostro studio è la scelta di Manlio Brosio che infatti sarà leader dell’ambasciata moscovita nel periodo preso in esame da questo lavoro. Di conseguenza è doveroso soffermarsi sulla biografia, sul background politico e culturale di quello che sarà il futuro ambasciatore a Mosca.

Manlio Brosio nasce a Torino il 10 luglio 1887, seppur neutralista, si arruola volontario nell'esercito e prende parte alla prima guerra mondiale, in cui viene decorato con una medaglia d’argento al valor militare e un croce di guerra. Tornato a Torino continua gli studi e nel 1920 si laurea in giurisprudenza, sono gli anni dell’idealismo, delle lotte e la città è attraversata da un tumulto di idee, di rabbia e di speranza. Ovunque nascono nuove associazioni, sindacati, partiti e i giovani sono protagonisti. E’ così che un gruppo di ragazzi, studiosi e appassionati, dall’indole forse più moderata rispetto ai colleghi operai del PSI, comincia a pubblicare un quotidiano dal nome “Rivoluzione Liberale». La rivista uscì per quasi quattro anni tra il 1922 e il 1925. Il primo numero apparve il 12 febbraio 1922, con un appello ai lettori in cui si proponeva di formare una classe politica che avesse «chiara coscienza delle sue tradizioni storiche e delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato». L'ultimo apparve l'8 novembre 1925, in seguito ad una diffida del prefetto di Torino, in cui si attribuiva

alla rivista il ben diverso proposito di mirare «con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale122». Brosio in “Rivoluzione Liberale” scrive 9 articoli dai temi più disparati: sul liberalismo e il partito liberale a cui apparteneva ma anche sulla crisi matteotti(2 ottobre 1923 “i conservatori contro il liberalismo”, 22 luglio 1924 “l’equivoco del Partito Liberale”), sul protezionismo (“Economia: Repaci Francesco Antonio, il livello del protezionismo in Italia” 17 aprile 1924) , sul decentramento, sul riformismo cattolico, sulla questione meridionale (“Decentramento” 9 luglio 1922), sulla legge Drago sul latifondo (“Disegno di legge sul latifondo” 23 aprile 1922), sui giolittiani (“Giolittiani in ritardo”, 11 novembre 1924) e anche sul fascismo (“Il fascismo annacquato” 30 settembre 1924). Dai suoi articoli, oltre che un’attenzione per l’attualità, Brosio esprime un liberalismo di folle, di masse, un liberalismo presente nella vita del paese. Quasi si indigna al Congresso del Partito nel luglio del 1924 perché di fronte ad un avvenimento così drammatico come il delitto Matteotti, il partito era assente dalle piazze e dai giornali. “Il partito liberale, se ben ricordo, o almeno quel gruppo di uomini che in occasione delle elezioni si riassume e si giova del nome di liberale, sempre, o almeno negli ultimi venti anni di vita politica italiana è stato così assente che non ha mai dato assolutamente alcuna direttiva alla vita politica italiana. Noi abbiamo visto prima della guerra - permettetemi questo breve ricordo - che il partito liberale è stato talmente assente, che per dieci e più anni si è avuta una politica assolutamente contraria a tutti i princípi liberali: la famosa politica del socialismo di Stato, che ha visto gli industriali e gli operai papparsi sotto le ali del protezionismo il massimo bottino dell'economia italiana. Abbiamo visto Giolitti, questo serio uomo, questo abile dittatore dominare assolutamente uomini e cose, senza che mai il partito liberale italiano, o gli uomini che si chiamavano liberali, riuscissero ad imporre veramente una lotta politica liberale. Noi abbiamo visto poi che questi stessi uomini, i quali tanto si erano sempre dimostrati amanti dell'ordine, e fedeli alla Monarchia, hanno frettolosamente abdicato alle loro idee a favore di quella demagogia che negli anni immediatamente successivi alla guerra ha dominato, e abbiamo visto questa stessa Associazione Liberale Monarchica Umberto I diventare Associazione Liberale Democratica, per poi diventare dopo tre anni nuovamente Partito Liberale Italiano puro e semplice, proprio nel momento in cui il fascismo stava per salire al potere. (---)Dico soltanto questo che se il partito liberale non ha mai espresso niente di proprio si è perché è tuttora dominato da altri interessi, i quali sono necessariamente contrari ad una politica liberale vera. Nessuno può negare che, specialmente oggi, il Partito Liberale è dominato dagli interessi della grande industria protetta. Nessuno può negare che specialmente nell'Italia settentrionale questa grande industria protetta domini, nel Partito Liberale, come in molte sezioni del Fascismo, cosicché indifferentemente vengono sovvenzionati Il Corriere Italiano e La Stampa.(---) Lo vediamo ora di fronte al fascismo, ora in cui la più assoluta mancanza di libertà e di dignità si verifica, e tuttavia da parte liberale non si fa che sperare in una futura successione, la quale poi non si cerca apertamente di provocare mediante opera di critica

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leale e risoluta, ma semplicemente si attende per il giorno in cui il Governo, non si sa perché o come, cadrà per un caso fortuito123.”

Queste parole pronunciate da Brosio alla sezione torinese del PLI ci restituiscono l’immagine del giovane intellettuale arrabbiato con il suo paese, soprattutto con una classe dirigente che non è in grado di innalzare l’Italia, di portare a compimento l’azione nobile iniziata con il Risorgimento e arenatasi con la politica della Destra e della Sinistra Storica, poi con il “giolittismo” e infine con il fascismo. Come per Gobetti quest’ultimo fenomeno era il frutto più vero della vita politica italiana: era un vociare di aspirazioni che trovava terreno fertile perché nessuno vi reagiva. Infatti quello che temeva più Brosio era la tendenza italiana a rassegnarsi, a dimenticare la lotta, ad accettare: “nella realtà italiana era ben prevedibile, data la generale immaturità e la tendenza delle masse a placarsi nel soddisfacimento delle necessità primordiali, questa facilità di ritorno alla tranquillità attraverso l'oblio delle promesse di guerra, delle lotte e speranze di dopoguerra. Il prevedibile sta avvenendo, almeno nelle grandi linee, e di questa realtà bisogna tener conto senza perdersi dietro vane speranze di pronte azioni di masse; la sensibilità pronta con cui queste reagivano agli eccitamenti politici è sopita. Ciò non toglie però che qualcosa, di tutto questo ribollire, sia rimasto, su cui si può contare; esistono oggi in Italia gruppi di "élites" e formazioni politiche che hanno fatto la loro prova e si sono temprati resistendo a molti assalti, e che prima della guerra non esistevano. Realtà come il partito popolare, i nuclei superstiti del socialismo più propriamente operai, i nuclei di parlamentari risolutamente ostili al fascismo, non si possono disprezzare. Gruppi di "élites" intellettuali, repubblicani; democratici di vario colore permangono con azione più sentita124.” Brosio conta, nel suo tentativo di svegliare un sopito sentimento veramente libertario, sulle forze giovani che non hanno subito lo scoramento di anni di lotte fallite, servono invece forze giovani e ottimiste. “L'Italia giolittiana, in un senso generico, incombe: è l'Italia povera, primitiva, impreparata e dispersa. Il problema di oggi è essenzialmente psicologico e pratico; non si tratta di ritirarsi ma di riaffermare, energicamente e istintivamente, la esistenza e la possibilità di sviluppo di forze politiche nuove e promettenti125.”

Gli autori di “Rivoluzione Liberale” sono esponenti di quella media-borghesia non combattentista, che rifiuta l’immobilismo conservatore e traduce l’indignazione, l’esigenza di libertà e giustizia, in lotta politica ragionata, frutto di un criticismo maturato con l’osservazione e lo studio della storia e delle contingenze. Questo è quello che Brosio era agli inizi degli anni Venti. Ma il regime, chiudendo “Rivoluzione Liberale” chiuse anche l’unico canale che Brosio e i colleghi avevano per comunicare le loro idee e il loro malcontento. Fu così che Manlio Brosio si dedicò alla sua professione, ritirandosi dal palcoscenico politico.

123 Manlio Brosio durante la riunione torinese del Partito Liberale , riportato in “Rivoluzione Liberale”: “L’equivoco del Partito Liberale”, 22 luglio 1924. Sta in www.erasmo.it/liberale/testi/1262.htm

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Manlio Brosio, “Giolittiani in ritardo”, 11 novembre 1924. Sta in www.erasmo.it/liberale/testi/1262.htm 125

Durante la seconda guerra mondiale, dopo l'armistizio di Cassibile, entrò nella resistenza, diventando membro della giunta militare del CLN come delegato del Partito Liberale Italiano insieme a Giorgio Amendola (PCI), Riccardo Bauer (PdA), Giuseppe Spataro (DC), Sandro Pertini (PSIUP) e Mario Cevolotto (DL). In particolare, tra le sue competenze (non avendo il PLI formazioni partigiane di partito) vi era quella di tenere i contatti con il Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo.

Nel 1944, per breve tempo, fu anche Segretario politico del Partito Liberale Italiano. Al termine della guerra fu ministro senza portafoglio nei governi Bonomi I e II, vice presidente del consiglio nel governo Parri con delega per la Consulta Nazionale, e ancora ministro, stavolta della Guerra, nel primo esecutivo guidato da Alcide De Gasperi. Nel 1947 iniziò la sua carriera di diplomatico con la nomina ad ambasciatore a Mosca.

Brosio, è appunto esponente di quella “parte politica” a cui si erano aperte le porte della diplomazia, la sua figura è particolarmente importante per il nostro studio in quanto sarà la protagonista indiscussa delle trattative italo-sovietiche. Il matrimonio tra Brosio e la diplomazia, vedremo, sarà un matrimonio felice proprio perché il leader del PRI condivide l’impostazione culturale liberal-conservatrice e Italocentrica, che animava da sempre il mondo diplomatico italiano.