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La diplomazia italiana al confronto con la Guerra Fredda:1943-1948 Le sfide dell'Ambasciata d'Italia a Mosca

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La Guerra Fredda alle porte di Palazzo Chigi:

l’azione dell’Ambasciata d’Italia a Mosca

Lista di abbreviazioni

A.C.C.: Allied Control Commission

A.C.S.: Archivio Centrale dello Stato

A.L.: Ambasciata Londra 1861-1950

A.P.: Affari Politici

A.R.: Rapprestentanze diplomatiche in Urss (1861-1950)

A.S.M.A.E.: Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri

D.D.I.: Documenti Diplomatici Italiani

D.G.A.E.: Direzione Generale Affari Economici

D.G.A.P.: Direzione Generale Affari Politici

D.G.P.: Direzione Generale del Personale

F.O.: Foreign Office

F.R.U.S.: Foreign Relations of United States

M.A.E.: Ministero degli Affari Esteri

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INDICE

Introduzione………..p.4

1. L’universo diplomatico: storia di un’altra realtà………..p.13

1.1. La diplomazia in crescita: dai príncipi ai funzionari………p.13

1.2. La distruzione della rete diplomatica: fascismo e guerra……….p.19

1.3. Ricostruire una nuova realtà: 1946-47………p.27

1.4. La “politicizzazione” della diplomazia: il caso Brosio………...p.40

2. Politica estera italiana post res perditas: autori, coautori e protagonisti…………..p.44

2.1. Gli albori 1943-45 ………..p.44

2.2. L’adolescenza: settembre 1945- dicembre 46………...p.62

2.3.L’età adulta: gennaio-dicembre 1947 ………...p.72

Il trattato di pace………p. 79

Il piano Marshall………p. 86

Reinserimento nello scenario internazionale………...p. 88

La multilateralità delle amicizie………p.95

Gli Stati Uniti: compromettersi con l’Occidente?...p. 96

 La Francia: i primi passi di una relazione europea………..p.100

 La Gran Bretagna: una relazione difficile……….p.107

 Novità e incertezza:

le relazioni con Jugoslavia, Austria, Paesi Latini, Medio Oriente

...p.112

3. Guardando ad Est: l’azione diplomatica di Palazzo Chigi………..p.116

3.1. La genesi delle relazioni italo-sovietiche (1943-aprile 45)………..p.117

3.2. Guerra finita, nuovi orizzonti d’azione diplomatica? (giugno ’45-febbraio ’47)….p.122

(3)

3.4. Il momento elettorale e le trattative commerciali………...p.136

4. In medias res: l’azione diplomatica di Manlio Brosio:……….p.139

4.1. Il mondo visto da mosca……….p.139

4.2. L’ambasciata si mette all’opera………..p.171 4.3. I lavori preparatori: Roma e Mosca a confronto………..p.195 4.4. Entrando nel vivo della trattativa………p.202 4.5. Un lavoro complicato………p.214 4.6. L’evoluzione dei negoziati italo-sovietici……….p.237

Conclusione: Palazzo Chigi nella Guerra Fredda tra “equilibrismo” ed “equidistanza”….251

Bibliografia………..p.259 Sitografia………..p.262 Note archivistiche………p.262

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Introduzione:

Tra il 3 e il 7 aprile 1984 presso “the Haus of St. Ulrich” a Augsburg più di ottanta storici inglesi, tedeschi, francesi e italiani si sono riuniti per discutere sul tema: “Western European Nation States and Europe between the Global System: Percepitions od Power Constellations in Britain, France, Germany and Italy 1945-1949”. Il nodo centrale della discussione era il declino repentino di quei poteri che erano ancora “Great Powers” nel 1938 e che dieci anni dopo, vincitori o perdenti che fossero, erano diventati qualcos’altro, pedine più che giocatori, della politica internazionale. Come percepivano i governi, l’opinione pubblica, i partiti, i militari, gli agenti economici, questo declino del potere? Lo studio era in realtà già stato portato avanti da Rene Girault, l’iniziatore del progetto (1980) “Perceptions of Power in Western Europe between 1938 and 1958”. Il libro di Joseph Becker e Franz Knipping 1 prosegue lungo questa lunghezza d’onda e tenta di ricostruire le “political mentalities” nei quattro paesi. Così scopriamo che tutti e 4 gli stati si trascinano dietro il problema coloniale, una costante nell’agenda diplomatica come recesso di “power” ormai sconfitto e che le spinte all’integrazione secondo le diverse forme, più o meno difensive, più o meno europee, stimolate sempre da una componente politica centrista, sono sempre sottomesse agli interessi nazionali, militari (pericolo sovietico) ed economici (ricostruzione) in uno sforzo di risistemazione del potere. La paura della Russia, fomentata dai quadri militari, rende impossibile ogni spazio governativo per i partiti di sinistra, le formazioni centriste non riescono a gestire una politica estera così polarizzata, ma anche complessa e infine problemi di riorganizzazione delle diverse diplomazie affliggono in maniera trasversale i quattro governi. Così l’Europa occidentale “between power and powerlessness” sarà costretta a retrocedere sul piano internazionale a soggetto mediatore del potere statunitense.

La chiave interpretativa che mi ha suggerito questo lavoro è, a mio avviso, estremamente stimolante: la volontà, o meglio le percezioni dei diversi attori internazionali, politici, militari, agenti diplomatici, tecnici, sono i motori dell’azione politica. Il movimento dello scenario internazionale, secondo la lettura che ne dà Power in Europe, è dato dal micromovimento dei singoli attori nazionali, i quali a loro volta, si muovono in base alla percezione che hanno della situazione politica, economica, militare.

Un caso è quello del co-fondatore della Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio, Jean Monnet. Dalla sua autobiografia2 emergono tutta una serie di reti di collaborazione tra le personalità più disparate, tra il tecnico banchiere e il diplomatico statunitense, tra il ministro degli Esteri e quello dei trasporti ecc. Queste reti, fatte di simpatie, di paure e di percezioni, sono il motore della cooperazione. 1

J. Becker, F. Knipping (a cura di) Power in Europe? Great Britain, France, Italy and Germany in a Postwar World,

1945-1950, Walter de Gruyter, 1986

2

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Così l’amicizia e il rispetto di Jean Monnet per Robert Schuman, allora ministro degli Esteri, portano alla nascita di un piano per la condivisione di risorse europee.

In contraddizione solo apparente con tutto ciò, gli studi sui “sistemi mondo” di Braudel3, Wallerstein4 e Arrighi5 che partono dall’analisi di situazioni di potere, determinanti per il corso della storia. Così ne Il

lungo XX secolo, Arrighi si concentra su vari sistemi egemonici che emergono in base principalmente

alla propria capacità economica. Munkler6 si colloca all’interno di questa prospettiva studiando le situazioni di potere per cui sia uno stato o un raggruppamento di città libere (come nel caso dell’olanda del 1600) si afferma su altre realtà geopolitiche attraverso l’esercizio alternativamente del potere militare, di quello economico (Usa) , di quello culturale (Spagna 1400). E’ il potere e l’esercizio del potere a muovere la storia? Sono le relazioni inter-personali? E’, invece, l’insieme delle percezioni dei quadri militari, degli agenti economici, dei quadri dirigenti?

Le reti individuali, gli orientamenti e le prese di posizione dei singoli elementi che formano l’azione politica di uno stato, di un raggruppamento politico, si inseriscono in un flusso inesorabile il cui orientamento è dato dalla situazione del potere. Studiare la storia significa assumere un punto di vista, a seconda della prospettiva scelta si riusciranno a mettere in luce avvenimenti e sfumature sempre nuove e sempre diverse. Così con un approccio “da lontano” come quello di Giovanni Arrighi, attento alle relazioni tra gli avvenimenti storici di lungo periodo, s’individueranno onde lunghe della storia, corsi e

ricorsi come direbbe Vico. Guardando invece “con lo zoom” ai singoli fatti si scopre come spesso le

scelte che li determinano sono il frutto di una dialettica tra le percezioni e gli orientamenti degli individui (o delle istituzioni) preposti a quelle scelte. Da qui parte il lavoro di Simone Selva7 sul riarmo italiano istituzionalizzato dalla NATO: Selva dimostra che in questo riarmo hanno un loro peso nell’assegnazione delle commesse offshore (una forma presa da questo riarmo dopo il 1950), i rapporti intercorsi tra l’amministrazione americana, nella sua Country Mission a Roma ed i funzionari della Farnesina, ma di più del Ministero del Tesoro, il quale con il suo orientamento rigidamente deflazionistico e mercantilista conforta gli ambienti del Pentagono. Anche il ruolo di Valletta viene più volte messo in evidenza dall’autore: l’amministratore delegato Fiat infatti esercitò e spesso con successo pressioni sui suoi personali conoscenti americani all’ambasciata per assicurare alla Fiat le commesse per la costruzione dei caccia F86K.

Il punto di vista del lavoro è proprio quello dello zoom, della ricerca ravvicinata. Da cui emergono figure di spicco ma anche, all’apparenza, marginali, come ad esempio i segretari di legazione, i sottosegretari del Ministero degli Esteri, gli addetti e i consiglieri commerciali.

3

F. Braudel Espansione europea e capitalismo, 1450-1650, Bologna, Il Mulino, 1999

4

I. Wallerstein Il sistema mondiale dell'economia moderna, 3° vol., Bologna, Il Mulino,1995

5 G. Arrighi, Il lungo XX secolo, il Saggiatore, 1996 6

H. Munkler Imperi: il dominio del mondo dall’antica Roma agli Stati Uniti, il Mulino, 2012 7

S. Simone, Integrazione internazionale e sviluppo interno: Gli Stati Uniti e l’Italia nei programmi di riarmo del blocco

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Individuata la prospettiva è importante delineare l’oggetto di studio. Per questo torniamo a Power in

Europe: la realtà internazionale inquadrata dal lavoro di Becker e Knipping è una realtà in continuo

mutamento, sconvolta dalla guerra e dalla powerlessness europea, invasa dalla potenza economica degli Stati Uniti e dalle pretese egemoniche dell’Unione Sovietica. L’Italia, come sottolinea la preparata storiografia italiana8, in tutto questo aveva perso lo status di “media potenza”, si era invece fregiata della fama di “ex-nemico”, istituzionalizzata dall’armistizio, non possedeva più un patrimonio coloniale ed era governata dagli angloamericani. Com’era possibile in uno scenario di devastazione ricreare un’azione politica, interna ed estera, coerente? Come si riuscì a rimettere in piedi il paese? Chi furono i protagonisti della nostra ricostruzione?

La politica estera italiana negli anni tra il 1943 e il 1947 viene interrogata dalla storiografia partendo da punti di vista diversi: l’azione di De Gasperi Nenni e Sforza9, l’occidentalismo della democrazia cristiana10, il rapporto con la Francia11 o con la Gran Bretagna12. Quello che è più vicino a questo lavoro è l’approccio di Varsori, che si concentra sulla diplomazia italiana, la sua ricostruzione e la collaborazione con gli ambienti governativi nel determinare nuove direzioni di politica estera13.

Prima di parlare nel dettaglio degli anni che ho definito della Ricostruzione (1943-47) è importante fare delle premesse sulla nostra politica estera, le caratteristiche, le direzioni, ma anche i suoi protagonisti. Richard Bosworth afferma: “la politica estera italiana è la più intricata, confusa, complessa, la più infida di ogni stato europeo14”. Questo perché, secondo Giorgio Petracchi, l’azione internazionale dell’Italia è sempre stata caratterizzata da miti radicati che Enrico Serra individua lucidamente: l’idea della “Grande Proletaria”, di “Roma civilizzatrice“, della fratellanza dei popoli latini o dell’ Italia e della Prussia popoli giovani, in contrapposizione con la Francia, l’Austria15. Così la nostra politica estera si trova profondamente divisa tra una tendenza alla facile propaganda e un serio tentativo di analisi16. Per tutto il cinquantennio dopo l’Unità, però, la capacità di analisi rimane debole data la scarsità di istituti di scienze politiche (nati solo sul finire degli anni Quaranta e affermatisi con forza solo negli anni Novanta grazie allo sviluppo della geopolitica) ad eccezione dell’Istituto Superiore Cesare Alfieri di Firenze e

8

E.Di Nolfo, R.H.Rainero, B. Vigezzi L’Italia e la politica di potenza in Europa (1945-50), Marzorati, 1988 e A. Varsori (a cura di), Storia della politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957), LED Edizioni Universitarie, 2005 o ancora C.M.Santoro La politica estera di una media potenza. L’Italia dall’Unità a oggi, il Mulino, 1991 e P. Pastorelli, La politica

estera italiana nel secondo dopoguerra, il Mulino, 1987. Ma anche, da un punto di vista più orientato verso la storia

diplomatica, E. Serra La diplomazia in Italia, Franco Angeli, 1988.

9 B. Vigezzi, De Gasperi, Sforza, la diplomazia italiana e la politica di potenza dal Trattato di Pace al Patto Atlantico in

L’Italia e la politica di potenza in Europa…p.4-43 e A.Varsori De Gasperi Nenni Sforza nella politica estera italiana in Power in Europe…p. 143-164

10

G. Formigoni La Democrazia Cristiana e l’alleanza occidentale (1943-53), il Mulino, 1996 11 J.B. Duroselle e E.Serra, Italia Francia (1946-1954), Franco Angeli,1988

12

A. Varsori Il diverso declino di due potenze coloniali. Gli eventi di Mogadiscio del gennaio 1948 e i rapporti anglo-italiani, FIAP, 1981 e Storia della politica estera italiana nel secondo dopoguerra (1943-1957)…

13

A. Varsori La prima legislatura repubblicana. Continuità e discontinuità nell’azione delle istituzioni, Carocci, 2004 14

R.B. Bosworth La politica estera dell’età giolittiana, Editori Riuniti, 1985 cit in G.Petracchi (a cura di)Uomini e Nazioni.

Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, Gaspari editore, 2005

15

La diplomazia in Italia…p. 27

16 Ibidem

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della Scuola Superiore di Commercio a Venezia. Così fino dentro all’epoca fascista la politica estera italiana è autoreferenziale, nazionalista, dannunziana.

Ancora Serra individua un’altra importante caratteristica del nostro agire internazionale: la permanenza di orientamenti tradizionali, derivanti anche dalla situazione esterna. “La storia dell’Italia, legata ad una specie di machiavellismo geografico della sua posizione, non è stata e non può essere concorde” infatti la nostra penisola potrebbe sviluppare, per posizione, una politica continentale in quanto “ha ereditato dallo stato sabaudo la guardia delle Alpi e della pianura del Po’”, ma anche una mediterranea, ereditata per altro dai Borboni e infine una politica balcanica dato lo sbocco adriatico. Le soluzioni a questo machiavellismo sono state spesso la difensiva politica di neutralità, inaugurata con la Triplice Alleanza, o una linea più dinamica che vedremo all’opera nel secondo dopo guerra e che era stata tentata anche dal Visconti Venosta cioè quella dello “wait and see” e del “peso determinante” per cui l’Italia avrebbe dovuto osservare lo svolgersi delle tensioni tra i vari poteri mondiali per poi scegliere il più forte17. Essendo una piccola nazione, la penisola aveva costituzionalmente la tendenza al “pendolarismo”, ad inserirsi negli interstizi creati dalle tensioni tra le grandi potenze, tutto ciò ha impedito alla nostra politica estera di assestarsi su delle direttrici consolidate, a differenza delle Gran Bretagna con la sua politica dei “tre cerchi” e la chiara gerarchia di direzioni (Commonwealth e Stati Uniti). Il “machiavellismo geografico” e gli scarsi strumenti di analisi hanno aggravato questa predisposizione alla confusione. “Un difetto costante della politica estera italiana è stato la mancanza di una linea dichiarata e precisa, quando è venuto a mancare lo scopo dell’Unità18.”

Petracchi sottolinea invece un’altra tendenza, citando riporta un’espressione di Giuseppe Are: “gli italiani fanno ancora il tifo prima di comprendere19”. Così appunto scrive Arturo Graf: gli italiani prima si ispirarono agli spagnoli, poi ai francesi nel Settecento, nell’Ottocento scelsero gli inglesi e da ultimo i tedeschi20.

A tutto ciò concorrono gli ambienti preposti alla nostra politica estera: il governo e la diplomazia. Un altro lato positivo dell’analisi “da vicino” è che mette in luce mondi nuovi, fa parlare e dà importanza a nuove figure. Nel caso della politica estera: i diplomatici. Nel corso del lavoro vedremo come il corpo diplomatico si sviluppa nei suoi tratti culturali: da classe sociale aristocratica esponente di un nazionalismo opportunista e pacificatore che trova la sua massima espressione nella Triplice Alleanza, ad una realtà di professionisti, di funzionari scelti in base soprattutto alle doti di carattere ma anche al grado di conoscenza della realtà internazionale. Il lavoro di Luciano Tosi21 contribuisce ad arricchire il nostro punto di vista sulla politica estera italiana presentando la figura del diplomatico come coautore delle scelte internazionali, come colui che non solo registra le istruzioni provenienti dall’apparato 17

Ibidem 18

P. Quaroni Valigia diplomatica, Garzanti, 1956 p. 64 19

Uomini e nazioni…p.11

20 A.Graf L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo 18˚, Loescher, 1911 cit. in Uomini e nazioni…p.9 21

L. Tosi Governo e diplomazia nell’Italia repubblicana: il confronto su alcune scelte di politica estera in Uomini e

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politico ma le attua secondo la propria cultura, la propria impostazione. Rileggendo alla luce delle considerazioni di Tosi l’agire internazionale dell’Italia in epoca liberale e fascista si nota come ad imprimere una direzione nazionalista e dannunziana non erano soltanto i politici ma anche i diplomatici, entrambi esponenti di una realtà sociale alto-borghese se non aristocratica, radicata nella tradizione e lontana dall’attualità.

La storia delle professioni fa luce su questo mondo diplomatico diverso e separato e sul modo con cui si relaziona con la realtà politica: “Se dunque, come hanno scritto Egle Becchi e Monica Ferrari, intorno alla storia delle professioni si giocano le relazioni tra potere e conoscenza di gruppi sociali che si muovono a diverse velocità e in un più ampio macrocontesto, questo risulta particolarmente vero nel caso dei diplomatici e dei politici, storicamente contigui e intrinseci alle stanze del potere, percepiti e giudicati al di fuori di queste come corpo, come ceto, come classe e persino, vedi i politici dei nostri giorni, come casta22.”

La tesi si ripropone quindi, nella prima parte, di analizzare l’azione dei politici e dei diplomatici nella realizzazione della politica estera italiana durante di Ricostruzione (1943-47). Negli anni immediatamente successivi alla parentesi fascista vengono distrutti sia l’apparato governativo che quello diplomatico così all’estate ‘43 la politica è ancora “in stato di minorità” mentre il corpo diplomatico, sparso per l’Europa, deve affrontare una sfida difficile: trasformarsi da difensore della politica estera fascista a collaboratore degli angloamericani. Così Mario Luciolli, a San Sebastiano, si trova nell’imbarazzo di dover esplicitare la sua posizione al comandante britannico: si difende, come faranno molti suoi colleghi, specificando di aver soltanto fatto il proprio dovere che era appunto servire gli interessi del paese e di non essere mai caduto nell’apologia fascista23. C’è, però, bisogno di un’immediata azione diplomatica nei confronti degli alleati che stanno invadendo il paese, così a fine ‘43 rinasce un nucleo diplomatico guidato dal Segretario Generale Renato Prunas mentre il generale Badoglio incarica gli apparati militari di continuare i contatti con gli inglesi e gli americani. Ma la politica estera non fa in tempo a riassestarsi che viene nuovamente sconvolta dall’inizio dei processi di epurazione (che colpiscono, vedremo, buona parte dei funzionari del Ministero degli Affari Esteri) e dall’estromissione di Badoglio. Solo con l’avvento di De Gasperi agli Esteri e ancor di più con la nomina di Carlo Sforza finisce definitivamente la fase di distruzione e inizia il momento costruttivo. La nostra politica estera comincia ad assumere forme ben precise: prevale su tutte la direzione della collaborazione multilaterale e del reinserimento internazionale, accanto alle quali, nel gennaio 1947, De Gasperi aggiunge la direttrice statunitense. Ad animare questa politica è la cultura internazionale della democrazia cristiana fondata, come afferma Guido Formigoni24, sulla volontà di “mediare” ereditata dal pacifismo cristiano e sul desiderio di dare vita ad una collaborazione europea. Per parte sua l’apparato diplomatico esprime una visione nettamente separata: nonostante i processi di “democratizzazione” che,

22

A. Arisi Rota (a cura di), Formare alle professioni: diplomatici e politici FrancoAngeli, 2009 p. 8 23

M.Luciolli Palazzo Chigi: anni roventi. Ricordi di vita diplomatica italiana dal 1933 al 1948, Le Lettere, 2011 24

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come vedremo, non porteranno ad una sostanziale apertura dell’elite diplomatica, tra i funzionari del MAE rimangono radicate le convinzioni e gli orientamenti delle epoche precedenti. Così infatti si stenta a riconoscere la gravità della crisi internazionale: di fronte alle resistenze dell’establishment a firmare un accordo con la Jugoslavia, Di Martino da Belgrado ricorda i vantaggi economici della collaborazione che potrebbe anche portare ad un accordo su Trieste. Ma il legame con gli Stati Uniti tratteneva i politici italiani dall’aderire in maniera entusiasta ad un trattato commerciale con Tito: non era più possibile il “pendolarismo” tra i francesi, gli spagnoli della diplomazia sabauda. Non si poteva scegliere arbitrariamente tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Così infatti le trattative economiche italo-sovietiche, iniziate già a fine ‘47 e concluse con la firma di quattro accordi di cui uno commerciale, saranno letteralmente sabotate dalla tensione internazionale: gli Stati Uniti continuano a premere per tagliare beni dalle liste di esportazione proposte dall’Italia ai sovietici e l’Urss, per parte sua, rifiuterà di accettare il compromesso sulle riparazioni a cui era vincolata l’esecuzione del trattato. Manlio Brosio, responsabile delle trattative a Mosca, non capirà subito il motivo di questi atteggiamenti così “ottusi” ed accuserà spesso di “testardaggine” i sovietici o denuncerà le “inutili e opprimenti indicazioni americane25”. C’era una difficoltà di fondo dei diplomatici ad agire in un contesto polarizzato, persisteva negli ambienti di Palazzo Chigi la convinzione di potersi ritagliare degli spazi di autonomia nel conflitto tra gli alleati. In primis Renato Prunas tenterà di alleggerire l’armistizio usando la carta sovietica: infatti una volta ottenuto il riconoscimento diplomatico dall’Urss l’11 marzo 1944 (agendo tra l’altro in completa solitudine e rischiando di far infuriare gli angloamericani) nei vari contatti con la Commissione Alleata sottolinea la possibilità che l’Italia cada sotto l’influenza sovietica. Prunas appunto non riuscirà ad ottenere un alleggerimento che invece sarà concesso su pressione degli Stati Uniti solo in seguito alle loro proprie considerazioni geopolitiche. Il corpo diplomatico cercava di fare il suo dovere, che era diverso da quello dei politici, cioè sviluppare al massimo e in chiave positiva la collaborazione con il paese ospitante, a differenza dei politici che invece dovevano tener conto globalmente della posizione internazionale dell’Italia e formulare istruzioni e direttive che andassero a soddisfare o consolidare quella posizione. Da qui la difficoltà da parte dei diplomatici, a percepire la crescente polarizzazione del quadro internazionale, ma questa difficoltà restava anche negli ambienti romani, in quei funzionari del Ministero degli Esteri preposti all’amministrazione. Infatti il corpo diplomatico in generale risentiva della mancanza di una preparazione maggiormente approfondita sulla storia internazionale. L’Istituto per l’Europa Orientale e l’Istituto per l’Oriente che, secondo Petracchi, erano una faro nella notte nel panorama culturale italiano, vennero chiusi perché risalenti all’epoca fascista26.

Il discorso dell’azione diplomatica nei riguardi dell’Urss merita un approfondimento in quanto sarà oggetto della seconda parte del lavoro. Con l’Unione Sovietica, grazie ad un’azione armonica di diplomazia e politica, si riesce a stabilire un negoziato complesso e articolato. Infatti dal momento della

25 M.Brosio Diari di Mosca (1947-1951), il Mulino, 1986 26

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riprese delle relaizoni commerciali Palazzo Chigi chiede a Mosca l’avvio di trattative commerciali, soltanto a fine 1947 il Cremlino acconsente a trattare ma vuole aggiungere al negoziato un accordo sulle riparazioni. Palazzo Chigi, nonostante le resistenze dell’establishment accetta di inserire nelle discussioni la scottante materia delle riparazioni. Le trattative assumono quindi un peso politico maggiore di quello previsto dal ministro degli Esteri. Ancora Sforza e De Gasperi danno prova di voler collaborare seriamente con gli ambienti diplomatici di Mosca perché, nonostante l’ambasciatore italiano, debba lottare per superare una preconcetta ostilità, alla fine non si abbandona la trattativa, anzi l’11 dicembre 1948 l’Italia firma tre importanti trattati con l’Urss: un accordo commerciale, uno sulle riparazioni e un trattato di commercio e navigazione.

La politica lasciò carta bianca ai diplomatici dell’ambasciata moscovita: si riuscì a firmare un accordo sulle riparazioni vincolato, come invece non desideravano in principio gli italiani, a quello commerciale e si acconsente a fornire beni industriali ai sovietici, dopo una dura lotta con la missione ECA a Roma. Questo fu possibile grazie ad una comunanza di intenti tra politica e diplomazia. I diplomatici, come tradizione e come richiedeva il loro mestiere, mantenevano un approccio de-ideologizzato che li portava a cercare il dialogo con l’Est. Del resto tra quelli che lavoravano nella sede moscovita le considerazioni politiche furono sempre subordinate alla vocazione diplomatica, anche in personalità provenienti dallo stesso mondo politico, come l’ambasciatore Manlio Brosio (membro del Partito Repubblicano). Invece in Sforza e De Gasperi le considerazioni politiche proprio perché provenienti dal substrato repubblicano e democristiano agirono a favore di un’apertura verso Est. Entrambi tentarono la carta sovietica perché ritenevano preponderante mantenere una collaborazione internazionale pluridirezionale. Del resto anche altri fattori spinsero gli ambienti politici verso il negoziato: in primis i vantaggi politici ed economici (non tanto ottenere l’appoggio sull’ammissione all’Onu o sulle colonie, cosa in cui invece speravano alcuni diplomatici, come, vedremo, il Direttore Generale agli Affari Politici, Vittorio Zoppi, piuttosto per soddisfare le richieste degli industriali italiani i quali desideravano esportare sul mercato sovietico) in secondo luogo il fatto che non subivano eccessive pressioni dagli Stati Uniti (in realtà, vedremo queste pressioni si intensificheranno a fine 1947-inizi 1948). Così fino al 1950 il mondo politico lasciò una porta aperta a Mosca e non si può certo affermare che l’apertura non sia stata profonda: si inviò una missione commerciale, si accettò di trattare sulle riparazioni, si fronteggiò la crescente pressione statunitense. Alla fine però i politici di fronte alle richieste Usa si trovarono a ridimensionare la portata dei negoziati e a tener duro su alcuni punti, mentre la crescente ostilità sovietica fece il resto: le trattative commerciali fallirono mentre non si riuscì a trovare un accordo sulle riparazioni. A contribuire furono inoltre una serie di circostanze esterne: le direttrici statunitense ed europea, ritenute preponderanti, da Sforza e De Gasperi, cominciavano a prendere forma e concretezza politica.

Gli scontri maggiori tra cultura diplomatica e cultura politica avvennero sul terreno dell’entrata all’Onu, ritenuta per i diplomatici soltanto una formalità dalla quale non si sarebbero ottenuti vantaggi materiali, dell’unione doganale, qui è Pietro Quaroni (ambasciatore a Parigi) a battersi contro un progetto

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inattuabile, e sulle modalità di adesione al piano Marshall. In questo caso infatti il governo aveva anticipato la ratifica del trattato di pace per partecipare alla conferenza sul piano, sempre Quaroni, ma anche Brosio, criticano questa scelta che ha impedito una rinegoziazione delle clausole più amare del trattato e irritato tragicamente l’Unione Sovietica. Di nuovo è evidente come per i diplomatici l’Italia avesse ancora qualche margine di manovra, anche riguardo al trattato, e come esistesse ancora la possibilità per il nostro paese di non schierarsi con il campo occidentale. Le scelte dei politici, sull’Onu, sul piano Marshall e sull’unione-doganale erano tutte animate dalla volontà di promuovere la cooperazione internazionale a favore dell’occidente americano ed europeo, non era in discussione lo schieramento con uno dei due blocchi, l’Italia apparteneva alla civiltà occidentale a priori, poteva però, alla luce della sua capacità di mediare, della sua volontà di collaborare con tutti, e a fronte di interessi contingenti, rivolgersi anche all’Oriente.

In sostanza nei due mondi che concorrevano a formare la nostra politica estera esistevano differenti impostazioni, differenti prospettive che nascono dalla diversità di ruoli e di esigenze. I politici rappresentano gli interessi di tutto il paese, scelgono le alleanze nazionali e definiscono la collocazione dell’Italia nello spazio internazionale, i diplomatici invece si preoccupano di mantenere relazioni con lo stato ospitante (gli ambasciatori), di tutelare l’interesse nazionale anche in materie più “tecniche” come gli accordi commerciali, le restituzioni di beni italiani, all’estero, il rimpatrio dei cittadini ecc. Ma è interessante portare parallelamente avanti l’azione di entrambi, l’evolversi delle posizioni dei singoli protagonisti perché da questo continuo confronto di idee, gesti, impostazioni, nasce l’azione internazionale. I diplomatici e i politici restano due mondi completamente separati che però si incontrano nelle stanze di Palazzo Chigi, nelle ambasciate o nei consolati, insomma nei luoghi in cui si

fa la politica estera italiana. I tipi diplomatici che arrivano in quelle stanze sono tradizionalisti,

interpretano la realtà internazionale con le chiavi di lettura tramandate dall’Ottocento: equilibri di potere, interessi nazionali, rapporti bilaterali. Secondo Serra infine considerano, appellandosi agli schemi di epoca liberale, l’Italia come una grande potenza. Tutto ciò nonostante l’inserimento in carriera di figure politiche, giovani liberali o repubblicani, nei quali, però, forse per un carattere pacifico, una formazione classica, giuridica e letteraria, oppure per la provenienza dal mondo borghese, la vocazione diplomatica prevale sul giudizio politico. Accanto e al di sopra di questi tipi diplomatici , tra il 1944 e il 1946 c’era un politico democristiano, Alcide De Gasperi, fortemente orientato al reinserimento internazionale e alla collaborazione con gli angloamericani. Dopo la breve parentesi socialista, nel 1947, a guidare l’apparato diplomatico ci fu il repubblicano Carlo Sforza, non sbilanciato come De Gasperi verso gli Stati Uniti, ma ugualmente propenso a curare più di tutto il ricollocamento dell’Italia nello scenario europeo-occidentale. I responsabili di governo, grazie alla loro posizione privilegiata di interlocutori diretti degli alleati, ebbero da subito la chiara consapevolezza della preponderante forza degli Stati Uniti, dell’espansionismo sia sovietico che statunitense, della debolezza dell’Europa e nello specifico dell’Italia e cercarono così di giocare la carta dell’internazionalismo, della collaborazione internazionale, orientandola però principalmente al campo occidentale. Rimaneva,

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tuttavia, come ricorda Serra, anche nella politica estera della classe dirigente un recesso di quella infatuazione da “grande potenza” degli ambienti diplomatici e che si esprimeva nell’aspirazione “a partecipare a tutti i congressi internazionali pur sapendo che molte volte il contributo da recare e da ottenere non poteva che essere nullo o quasi27”. Infatti Sforza credeva di poter prendere parte al trattato sulla Germania e di riuscire ad entrare nelle Nazioni Unite. In generale, gli uomini dell’epoca, provenienti da un altro contesto internazionale, proiettati di colpo in una nuova realtà, in nuove dinamiche, stentavano a ridimensionare il ruolo dell’Italia. Mentre le potenze vincitrici avevano già fatto quest’operazione, considerando la penisola una pedina nei giochi di potere che si svolsero al momento delle Grandi Conferenze.

Il lavoro quindi si propone, dopo un excursus nel lontano universo diplomatico, di analizzare la politica estera italiana nel periodo di Ricostruzione o “post res perditas”, come lo definisce Silvio Lanaro28, alla luce di queste divergenze tra politica e diplomazia, partendo dal presupposto che proprio le diverse impostazioni e le diverse culture dei due mondi determinano la nostra azione internazionale.

“Politica estera vuole dire passioni ed affetti, idee e ideologie, situazioni del paese ed uomini, tutto ciò in una parola che fa della politica estera nient’altro che un momento, un aspetto di un processo storico assai più ampio e complesso, abbracciante tutta quanta la vita di una nazione ed il momento del rapporto con l’estero lega strettamente ed indissolubilmente l’altro, della vita morale, economica e religiosa dell’interno29.”

Come queste passioni e aspirazioni si combinano nel periodo compreso tra la caduta del regime e la rinascita della nostra azione internazionale?

E ancora, come invece politica e diplomazia si rapportano nello specifico sul terreno delle relazioni italo-sovietiche?

Il proposito fin qui è quello di dimostrare come punti di vista diversi arricchiscano il quadro storico generale Guardare al mondo della politica estera come un comporsi di visioni e interpretazioni da parte di politici e diplomatici consente di fare luce sull’azione di alcuni protagonisti messi in ombra dalla storia e di riflettere sui meccanismi stessi della nostra politica estera. Le decisioni dei politici, vedremo, sono importanti, danno istruzioni, indirizzano l’agire diplomatico, che però trova i suoi ampi margini di autonomia. Soprattutto in settori tecnici oppure su terreni lasciati “liberi” perché magari poco interessanti per i responsabili di governo.

Mentre la prima parte della tesi è dedicata a rispondere a queste domande, a seconda parte, più “tecnica”, si concentra sul lavoro della missione commerciale presieduta da Ugo La Malfa (agosto- dicembre 1948). Nell’ambito delle relazioni italo-sovietiche diplomatici e politici si trovarono d’accordo, nel gennaio 1946, sul proporre all’Urss una trattativa commerciale. La pressione degli 27

La diplomazia in Italia…p.112

28 S. Lanaro Storia dell’Italia Repubblicana, La Terza, 1997

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ambienti industriali e la volontà di cooperazione avevano avuto un peso determinante. Non si voleva però legare la questione a problemi politici, quali le riparazioni, l’ammissione Onu per l’Italia, la questione dei prigionieri italiani in Urss ecc. Questo proprio perché i responsabili di governo erano consapevoli di trattare con l’altro blocco, con una realtà diversa, ostile e pericolosa e risentivano della crescente pressione statunitense. Completamente differente era la posizione dell’ambasciatore a Mosca Manlio Brosio, un uomo politico non appartenente alla carriera, il quale, mostrando di aver acquisito velocemente gli schemi della diplomazia, insisteva per un impegno più serio con i sovietici e proponeva a Palazzo Chigi di abbandonare la politica “antirussa” optando per il neutralismo. Nonostante le divergenze il dato interessante è che alla fine, dopo la risposta positiva dei sovietici, il governo accettò di trattare, inserendo anche le riparazioni nell’oggetto del negoziato, e nel pieno dell’escalation inviava una delegazione commerciale, capeggiata da un leader politico.

La politica ha abbandonato gli schemi dell’occidentalismo, dell’adesione al blocco occidentale? Si vuole davvero trattare con i sovietici?

Il proposito di questa seconda parte è quello di zoomare ulteriormente su una trattativa diplomatica in un contesto polarizzato per mettere in luce ancor quali fossero gli interessi in ballo nei rapporti tra Italia e Unione Sovietica, come l’apertura dimostrata dalla diplomazia si scontrasse con le ritrosie e le incertezze dell’apparato politico, e come e perché i responsabili governativi abbiano deciso all’improvviso di intensificare la direttrice orientale. La scelta del campo occidentale era quindi una scelta reversibile?

1. L’universo diplomatico: storia di un’altra realtà 1.1 La diplomazia in crescita: dai príncipi ai funzionari

Recentemente la storiografia europea si è concentrata sulla ricostruzione, sulla nascita, sul costituirsi del mondo diplomatico all’interno di una riflessione sui luoghi del potere e l’esercizio della sovranità30. Questa, secondo Arianna Arisi Rota, può essere intesa non solo come espressione di forza militare, culturale o economica ma anche come “la capacità di reggere gli altri”. Così il diplomatico diventa lo strumento garante, il veicolo di trasmissione della sovranità. Gli studi di Arianna Arisi Rota31, mettono in luce l’evolversi della “professione” del diplomatico, sottolineando i momenti chiave in cui questa “classe” ha acquisito coscienza di sé.

“Una forte considerazione del proprio ruolo crea autorevolezza professionale” afferma Arianna Arisi Rota “questo diviene per gli addetti alla diplomazia, tanto più vero nel momento in cui essi stessi cominciano a riguardare i rispettivi ambiti d’azione come possibili mestieri di una vita, come carriere, e

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E.Becchi, M. Ferrari “Professioni, professionisti, professionalizzare: storie di formazione”, in E.Becchi, M. Ferrari (a cura di) Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori, FrancoAngeli, 2009 e Formare alle professioni: diplomatici e

politici Arianna Arisi Rota (a cura di)…

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non più solo come incarichi a tempo, come parentesi o trampolini rispetto ad altre occupazioni32”. Il processo di “professionalizzazione” è molto interessante perché mette in luce alcune caratteristiche costanti del mondo diplomatico.

I lavori citati riprendono a loro volta filoni storiografici che analizzano la “storia della diplomazia” al livello europeo cominciando da molto indietro, dalle corti quattrocentesche33. Da queste letture si desume come la costituzione del mondo diplomatico sul continente è qualcosa di graduale, un processo lento ma continuativo: nel Quattrocento la diplomazia era in mano ai príncipi, espressione di un’elite universale, umanistica e quindi non molto “tecnici” piuttosto appunto “eruditi e letterati”. “Nella prima età moderna quella del diplomatico non è una professione: l’ambasciatore è un negoziatore di fiducia del signore, scelto di volta in volta secondo le logiche della diplomazia occasionale, all’interno delle elite di corte: un patrizio dunque, che altro avrebbe potuto fare e altro magari avrebbe poi fatto, il quale, in virtù di un legame particolare di tipo clientelare, serve miratamente il signore o il suo Senato, nel caso delle repubbliche.34” Il corpo diplomatico rimane, per tutto il Sei-Settecento, profondamente legato all’apparato governativo e la sua composizione sociale, le tendenze psicologiche e culturali restano le stesse. Infatti la classe dei diplomatici si auto-riproduceva: gli ambasciatori chiedevano ai responsabili di governo l’entrata in carriera dei parenti oppure direttamente portavano con sé i figli nei vari incarichi e poi semplicemente cedevano loro il posto. La diplomazia si basa sulla “autoriproducibilità delle competenze all’interno dell’aristocrazia”.

A questo corpo sociale separato e chiuso si richiedeva una certa inclinazione alla prudenza, una politesse, cioè uno stile, bontà e perizia, ma anche una conoscenza teorica35. Secondo Bragaccia questa conoscenza dipendeva molto dall’interlocutore del negoziato: se si aveva a che fare con un nunzio pontificio era importante la teologia, con un politico l’ars retorica ed oratoria. Universalmente, fin dagli inizi dell’epoca moderna, si riconosceva su tutto il valore dell’esperienza pratica: come ricorda Jean Boutier nel libro di Arianna Arisi, molti aristocratici ricorrevano al Gran Tour per imparare a “stare nel mondo” e così quando ricoprivano incarichi diplomatici erano soliti portar dietro figli e parenti per “mostrar loro l’arte36”. Infatti l’apprendistato era un passo obbligato per ogni aspirante ambasciatore.

32

Formare alle professioni…p.10

33 S. Andretta L’arte della prudenza. Teorie e prassi della diplomazia nell’Italia del XVI e XVII secolo, Roma, Biblink, 2006; L.Bey L’art de la paix en Europe. Naissance de la diplomatie moderne, XVI - XVIII siècle, Puf, 2007; M. Riviero Rodrìguez

Diplomacia y relaciones exteriores en la edad moderna, 1453-1794, Alianza Editorial, 2000

34

Formare alle professioni…p.15

35 Nei vari trattati dell’epoca, in realtà, si chiedevano cose diverse: Torquato Tasso nel Messaggero, concepisce l’ambasciatore come “congiuntor d’amicizia tra i principi” mentre per Antonio Vera (Doveri dell’ambasciatore e ordine internazionale

nell’Enbaxador 1620) il diplomatico è il conciliatore degli affari dei principi. Siamo di fronte a quelle che saranno due

posizioni storiche rispetto alla funzione della diplomazia: idealismo e realismo. G. Bracaccia scrive nel 1626 un trattato sulle caratteristiche del perfetto ambasciatore: L’ambasciatore. opera divisa in libri sei. Nella quale si hanno avvertimenti Politici e

Morali per gli Ambasciatori e intorno a quelle cose che sogliono accadere alle Ambascerie. Utilissima alla Gioventù, così di Republica, come di Corte, che pretenda di salire per questa più breve via à gli honori, et principali dignità. Tratta dalla pratica , confermata dalla Civile , e Morale e coll’Historia illustrata. La diplomazia in Italia…p.45

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J. Boutier “Il grande teatro del mondo”. L’apprendistato aristocratico della politica (XVII-XVIII secolo) in Formare alle

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I compiti dell’apparato diplomatico non fanno che aumentare e complicarsi: mentre prima i rapporti tra gli stati erano improntati su logiche di potenza e prevaricazione, con la pace di Westfalia e la nascita delle relazioni internazionali si afferma la possibilità di creare equilibri, rapporti e collaborazioni tra gli stati. Aspetto questo che si era affermato con forza in ambito economico ma non al livello governativo, se non negli staterelli più piccoli la cui esistenza era subordinata proprio al fatto di saper intessere relazioni con i vari centri di potere. Alle nuove esigenze dell’assetto internazionale deve rispondere una struttura diplomatica chiusa, immobilizzata dal clientelismo. Non si può ancora parlare di “professione” quanto piuttosto di servizio diplomatico: in un periodo di ridimensionamento del ceto aristocratico la diplomazia è un ricordo cortigiano, uno degli ultimi “servigi” che può ancora offrire l’aristocrazia. Con l’assunzione da parte dello stato del reclutamento del personale diplomatico, gradualmente si crea un’elite diplomatica con un proprio stipendio fisso, meccanismi di entrata e uscita che garantiscono un’omogeneità culturale e scopi ben precisi legati all’azione di governo. La diplomazia smette di essere un esercizio di erudizione aristocratica, divenendo moderna professione. Del resto in Italia, come vedremo, dopo il decreto del 1857 in cui si stabiliva l’accesso al servizio diplomatico solo per concorso, nel 1864 un promemoria interno del Ministero degli Esteri ricorda alla commissione di non ammettere alla carriera nessuno che non abbia prima sostenuto il concorso. Segno questo che la regolamentazione e la professionalizzazione del mondo diplomatico procedeva a rilento: era difficile se non impossibile cancellare anni di chiusura e clientelismo.37

Il mondo diplomatico nasce quindi come un’espressione aristocratica di abilità negoziali e di erudizione, rimane chiuso nelle stanze di palazzo per secoli e con la nascita dello Stato moderno resta comunque una realtà separata in diretta comunicazione con il mondo politico. L’obbligo di una rendita minima, la rigida selezione all’ingresso, i tre anni di praticantato obbligatorio, precludono l’accesso alla carriere della nascente borghesia e ad orientamenti culturali o ideologici estranei alla cultura tradizionale. Quest’ultima perdurerà negli apparati diplomatici europei fin oltre la metà del Novecento, ma assumerà diverse forme e caratterizzazioni a seconda della storia politica dei vari paesi38. Anche dopo che la diplomazia era uscita dal monopolio aristocratico, dopo che lo stato ne aveva fatto una “professione” a tutti gli effetti, la storia di separatezza, di clientelismo e la cultura conservatrice fecero del mondo diplomatico un mondo d’elite, ancorato alla tradizionale impostazione

Al di là delle considerazioni generali, fornite da una storiografia abbastanza generica sulla materia, passiamo ad analizzare nello specifico il mondo diplomatico italiano: i punti di continuità e di discontinuità con il passato, le debolezze, le contraddizioni, ma soprattutto la cultura espressa dagli ambienti della nostra diplomazia.

37

A. Arisi Rota Dalla raccomandazione al concorso: formazione e reclutamento del diplomatico tra età moderna e

contemporanea, in Formare alle professioni.p.92-115

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Per una storia del mondo diplomatico italiano è necessario cominciare dal Piemonte sabaudo. Qui il 1848 aveva portato un forte bisogno di rinnovamento : la “Regia Segreteria” era diventata nei documenti ufficiali “Ministero degli Esteri” e con Massimo D’Azeglio in veste di titolare aveva riorganizzato l’ufficio dividendolo in sezione diplomatica, consolare e interna. Inoltre con il Regio Decreto del 23 ottobre 1849 si erano fissate le modalità di accesso alle tre carriere: per la carriera interna bastava il diploma di magistero, per le altre invece i candidati dovevano sottoporsi a prove d’esame complesse di lingua (o francese o inglese), diritto romano e canonico, storia universale, geografia fisica e politica, calligrafia. I vincitori del concorso erano obbligati a quattro anni di praticantato non retribuito, ridotti a due nel caso di possesso della laurea o del grado di tenente dell’Artiglieria, del Genio, dello Stato Maggiore o della Marina. Siamo di fronte appunto ad un processo di “professionalizzazione”: l’entrata in carriera non dipendeva più dal sangue ma dalle capacità professionali, da qui il ruolo forte che mai prima d’ora era stato attribuito al diploma di laurea. Del resto un accesso privilegiato era riservato all’elite militare, caratteristica questa tipica dello scenario italiano (vedremo l’importanza da sempre attribuita negli ambienti del Ministero degli Esteri alle posizioni e alle raccomandazioni della Marina). Inoltre rimaneva la clausola della rendita che rese l’accesso alla professione del diplomatico circoscritto ad un certo gruppo sociale39.

Al momento dell’Unità le strutture della “Regia Segretaria”, tramutatasi a tutti gli effetti “Ministero degli Esteri”, diventano le strutture del Regno d’Italia, gli uffici non cambiano di posizione e il personale diplomatico resta in maggioranza piemontese40.

Il Ministero degli Esteri nasce ufficialmente il 17 marzo 1861 insieme al regno di Italia ma la sua struttura, come tutta l’amministrazione statale italiana è quella ereditata dall’ordinamento sabaudo. Due divisioni, quella delle delegazioni e quella dei consolati e del commercio estero, oltre alla divisione amministrativa. Niente di più vicino all’ordinamento previsto dal R.D. del 23 ottobre 1849. Il regolamento d’ammissione è anch’esso di epoca sabauda (R.D. 22 dicembre 1856): un tasso minimo di rendita (8.000 lire, ridotte a fine 800 a 5.000, 3.000 solo per la carriera consolare) permette di accedere al concorso diviso in orale e scritto (le materie erano italiano, francese, elementi di diritto romano, canonico, civile, commerciale, storia, geografia, fisica e calligrafia), superato il concorso era obbligatorio scegliere il tipo di carriera, se diplomatica, consolare o amministrativa e infine erano previsti tre anni di volontariato alla fine dei quali c’era l’esame finale41. L’organizzazione come la composizione socio-culturale del mondo diplomatico erano gli stessi di epoca sabauda: la rendita obbligatoria aveva garantito l’accesso solo agli esponenti di buona famiglia, mantenendo il carattere elitario della diplomazia. Anche la mancanza di scuole diplomatiche, eccezion fatta per la “Cesare

39

Per una storia approfondita rimando a D. Frigo Principi, ambasciatori e “jus gentium”: amministrazione della politica estera

nel Piemonte sabaudo, Bulzoni, 1991

40

Per una storia approfondita rimando a F. Chabod Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Laterza, 1962 e R. Moscati Il Ministero degli Affari Esteri 1861-1870,Giuffrè, 1961 R. Gaja Dalla diplomazia sarda alla diplomazia italiana, in

Gli ambasciatori italiani e la diplomazia oggi, E. Serra (a cura di) FrancoAngeli, 1986.

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F. Grassi Orsini “I diplomatici”, in G. Melis (a cura di), Le élites nella storia dell’Italia unita, Cuen, 2003, p. 125-164

Alfieri” di Firenze (finanziata però da privati), aveva favorito i più ricchi, coloro che potevano permettersi un’istruzione privata di un certo livello42. L’elite restava un’elite, ma con una differenza culturale forte rispetto al periodo cavouriano: l’alta borghesia intellettuale che costituiva quadri dell’apparato diplomatico si era formata nell’esercito e nelle battaglie ideali del Risorgimento. Il patriottismo divenne una dote fondamentale quindi del corpo diplomatico. La diplomazia in un paese di recente formazione diventa vincolo identitario e il diplomatico ha l’importante dovere di rappresentare la patria unita all’estero: così Ricasoli descrive i diplomatici di epoca risorgimentale come funzionari “non più rappresentanti di quelle varie fazioni d’Italia che sotto a nomi e norme diverse di reggimento erano all’estero triste testimonianza delle disgrazie delle nostre divisioni. Gli agenti consolari di S.M. rappresentano l’intera terra italiana e questo concetto dell’unità della patria vuole essere di scorta ad ogni loro procedere, e rendersi manifesto in ogni loro atto43.” Così nei vari concorsi diplomatici del 1864, 1867, 1869 e 1870 la direzione del personale accusava innanzitutto una mancata preparazione dei candidati, ma soprattutto uno scarso sentimento patriottico “i giovani diplomatici infatti appartenevano anagraficamente ormai alla generazione che è stata efficacemente definita dei “nati troppo tardi”, mentre gli esaminatori sembravano avere in mente il profilo etico culturale proprio dei diplomatici della scuola moderata descritta da Chabod44”. C’era quindi un conflitto generazionale: l’attivismo romantico sta lasciando il posto ad un tecnicismo troppo pratico (nel 1866 infatti viene stabilito come criterio vincolante per accedere al concorso il diploma di laurea in legge o in economia). Il corpo diplomatico fino al 1919 infatti subisce un processo di sempre maggiore “tecnicizzazione”, proprio in contro- tendenza con la realtà del Settecento per cui i diplomatici avevano una cultura generica ed entravano in carriera per vincoli familiari, a cavallo tra XIX e XX secolo la cultura politica si trova a non poter fare a meno delle competenze tecniche dei vari diplomatici, perciò ne richiede una continua specializzazione. Il romantico patriottismo dei primi quadri va perdendosi progressivamente, così commenta Fabio Grassi Orsini: “i diplomatici erano uomini formati nelle facoltà di legge, un prezioso punto di contatto su mondi diversi e percepiti come profondamente diversi dalla cultura politica provinciale dell’Italia liberale45.” Negli anni di Crispi viene istituita la prova obbligatoria di economia, mentre nelle prove d’esame ricorrono sempre più frequentemente argomenti di attualità: i concorsi del 1904 sono dedicati all’emigrazione, alle associazioni produttive e ai sindacati, e nel 1911 alla disoccupazione. Il 24 marzo 1904 un decreto legge obbliga i segretari di legazione a redigere ogni sei mesi un rapporto sulla situazione e sulle condizioni del paese di accreditamento. “Da quel momento il progresso nella carriera dipendeva molto di più dall’esercizio di un mestiere per cui contava più la disciplina, l’impegno nell’assolvimento dei compiti affidati senza dar impressione di essere zelanti che non la protezione dei

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Dalla raccomandazione al concorso: formazione e reclutamento del personale diplomatico tra età moderna e contemporanea…p.108

43

Cit. in Ministero degli Affari Esteri 1861-1870…p.100 44

Dalla raccomandazione al concorso: formazione e reclutamento del personale diplomatico tra età moderna e contemporanea…p.110

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capi, le relazioni giuste e l’essere passati dagli uffici chiave46”. Certo l’acquisizione di competenze tecniche favorì il processo di “professionalizzazione” e sradicò il clientelismo che caratterizzava il mondo diplomatico pre-unitario. Ma non ne cancellò l’elitismo: il corpo sociale di maggioranza negli ambienti diplomatici continuava ad essere l’aristocrazia, infatti fino al 1923 per accedere al concorso diplomatico era necessaria una rendita minima che escludeva il mondo borghese dalla carriére; in realtà se anche non ci fosse stata questa clausola era difficile per gli aspiranti diplomatici senza rendita familiare mantenersi nel periodo di tirocinio all’estero (3 anni, chiamato, proprio per il fatto che non era retribuito, “volontariato”).

Questa classe che rimaneva aristocratica continuava a non essere sufficientemente preparata, in quanto scarseggiavano i centri educativi dedicati alla formazione diplomatica. Tutto ciò in un contesto, quello della politica internazionale tra Otto e Novecento, che richiedeva : “un’èlite funzionale così strettamente legata ai processi di policy-making, destinata a un profilo tecnico sempre più variegato e impietosamente costretto all’aggiornamento47”. Così, racconta Mario Toscano, alla conferenza di pace del 1919 gli esperti italiani si dimostrarono meno preparati dei colleghi statunitensi ed europei: “gli esperti che tanta parte ebbero nei lavori della Conferenza della Pace del 1919 altro non erano che degli studiosi, i quali ogni altra parte del mondo conoscono un solo linguaggio, quello scientifico48”. Non bastava, per Toscano, la preparazione accademica in una delle molte università, c’era bisogno di scuole diplomatiche che insegnassero “le pratiche, gli aspetti tecnici” ma che tenessero informati gli studenti sulle diverse situazioni economiche, politiche e culturali degli altri paesi. Il saggio vuole sottolineare come l’Italia si muovesse al di fuori del contesto internazionale, dedicando una scarsa attenzione alle relazioni con gli altri stati: la specializzazione dei quadri diplomatici quindi era insufficiente e risentiva del “provincialismo” della nostra politica estera.

Una volta stabiliti i confini culturali e socio-economici del mondo diplomatico e la sua evoluzione verso un tecnicismo chiuso, accademico, è interessante sottolineare come questo mondo si espresse in termini di politica estera.

Luciano Monzali49 parla di raziocinio, prudenza, realismo e distacco dalle masse del corpo diplomatico: la Triplice Alleanza, il prodotto, secondo l’autore della diplomazia liberale, è la prova della flessibilità ideologica di questa classe ma anche dei suoi valori base cioè restituire e annettere territori all’Italia, seppur in via pacifica e alleandosi con il nemico giurato, l’Austria. Il nazionalismo liberale, secondo Petracchi50, era largamente diffuso in queste elite: riguadagnare le terre irrendente attraverso una 46

Dalla raccomandazione al concorso: formazione e reclutamento del personale diplomatico tra età moderna e contemporanea…p.111

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Dalla raccomandazione al concorso: formazione e reclutamento del personale diplomatico tra età moderna e contemporanea…p.112

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M. Toscano Gli studi di storia delle relazioni internazionali in Italia in La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, vol II, Marzorati, 1970, p. 831

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L.Monzali Riflessioni sulla cultura della diplomazia italiana in epoca liberale e fascista in Uomini e nazioni: cultura e

politica estera nell’Italia del Novecento…p.24-44

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politica di collaborazione, confidando, secondo appunto l’interpretazione liberale, nel realismo e nella razionalità della parte austriaca. Nazionalismo quindi e realismo, evidente anch’esso nell’alleanza con l’Austria, poi capovolta a favore di Francia e Gran Bretagna. Vedremo come questi “tratti culturali” della diplomazia liberale si riflettano anche nell’epoca della Ricostruzione. In generale, leggendo anche gli scritti di questi diplomatici, la loro visione del mondo, siamo di fronte ad un liberalismo conservatore, monarchico e moderatamente nazionalista51.

Dopo il periodo di “professionalizzazione” il mondo diplomatico viene organizzato in gerarchie fisse, mentre si stabiliscono criteri di acceso e meccanismi di avanzamento. Nasce una micro-realtà che prosegue autonomamente seguendo, nella propria azione, gli atteggiamenti, le interpretazioni, le idee della cultura nazional-liberale. Questa realtà stabile e stabilizzata, questo contesto sociale ristretto e culturalmente omogeneo, verranno sconvolti dal fascismo prima e dalla guerra poi.

1.2 La distruzione della rete diplomatica: fascismo e guerra

Nel brillante excursus storico sulla “diplomazia epurata”, Diomede Ivone afferma che: “il Ministero degli Esteri fu uno degli organismi statali più compromessi con il regime fascista52”. Del resto, afferma Luciano Monzali, Mussolini non poteva fare a meno delle competenze dei suoi diplomatici, acquisite con la tecnicizzazione, infatti solo nel 1928 i gerarchi fascisti entrarono al Ministero degli Esteri, come riconoscimento per il servizio alla patria (un po’ come in epoca preunitaria) ma Grandi cercò di precludere loro i posti di rilievo53. Inoltre la politica estera fascista non si discostava di molto da quella crispina o in generale dalla politica nazional-liberale descritta da Monzali. Fino all’alleanza con la Germania e la svolta antisemita, Mussolini aveva seguito le aspirazioni nazionaliste e la volontà di accrescimento territoriale che avevano accompagnato i funzionari del Ministero degli Esteri di epoca liberale, conducendoli fino alle porte di Adua. Così personalità come Augusto Rosso, ambasciatore a Mosca tra il 1936 e il 1941, gli ambasciatori Raffaele Guariglia, Pompeo Aloisi e Vittorio Cerruti salutarono con entusiasmo l’ascesa al potere del Duce che ridava stabilità ad una politica estera troppo traballante e poco decisa nel perseguire gli interessi del paese. Non si può parlare, fino al 1936-38 di una fascistizzazione della politica estera italiana o del suo corpo diplomatico, soltanto al momento della svolta filo-nazista entrarono al Ministero fascisti convinti come Attolico e Pietromachi e anche i ventottisti come Bastianini, Casertano e Mazzolini assunsero posizioni importanti. A questo punto cominciarono le “punizioni”: Francesco Tommasini liberale conservatore, ministro a Varsavia prese posizione a favore delle minoranze, rifiutò il trasferimento punitivo in America Latina e fu collocato a riposo, Pietro Quaroni, invece dopo il suo articolo del 1935 “l’Italia e i problemi internazionali”, fu segregato per otto anni in Afghanistan.

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Dalla diplomazia sarda alla diplomazia italiana…p.113

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Diomede Ivone Raffaele Guariglia e la diplomazia epurata 1944-46. Un oscuro capitolo dell’Italia post-fascista, Editoriale Scientifica, 2002 p.37

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Nel 1939 scoppiò la guerra e il corpo diplomatico si sciolse, alcuni furono arrestati, altri riuscirono a fuggire ma rimasero isolati per mesi dal resto del mondo, senza nessuna notizia della famiglia, dei parenti, degli amici. “Dopo 14 mesi dall’armistizio, 23 funzionari si trovano ancora in condizioni di internamento o di domicilio coatto nell’Italia Settentrionale, in Slovacchia, in Croazia, Polonia o Estremo Oriente. Dei 236 funzionari che l’8 settembre si trovavano in Italia soltanto 22 si erano messi a disposizione del governo fascista, mentre 18 avevano passato le linee del fronte per raggiungere il governo a Brindisi. In definitiva, dunque, su un totale di 495 funzionari soltanto 72 avevano aderito alla RSI mentre 423 erano rimasti fedeli al Regio Governo54”.

Paulucci di Calboli il 13 marzo del 1943 comunica a Prunas che la famiglia è al completo e in buono stato55. Come questo ci sono milioni di altri esempi di lettere informative o di richieste d’aiuto per il rimpatrio di familiari in zone occupate56. Marcello Drago, al servizio dell’ambasciata di Berlino, viene internato con la famiglia nel 1944, Prunas comunica al padre Giovanni residente a New York, la sventura e utilizza importanti funzionari americani come Samuel Reber per informarsi sulla situazione di Drago. Ad aprile il diplomatico riesce a riparare in Svizzera e poi, a guerra finita, si ricongiungerà coi parenti a Roma57. L’interessamento del Ministero, gli sforzi del Segretario Generale, vengono ripagati, ma comunque l’esperienza della prigionia, la paura, le minacce segnarono la classe diplomatica negli anni a venire. Anche il caso di Agostino Ferrante sembra particolarmente disperato, infatti, oltre alle sofferenze della prigionia, il diplomatico aveva perso parte delle sue proprietà: aveva prestato servizio come Console Generale a Dresda, dopo la cattura e la consegna ai repubblichini aveva quindi lasciato tutti i suoi averi presso varie ditte, così il 18 settembre 1945, dopo essere stato liberato, scrive a Quaroni per riavere quello che era stato lasciato58. L’ambasciatore risponde “purtroppo, almeno per ora, non mi si presenta alcuna possibilità per assumere le informazioni che tu chiedi. Per quanto, però, è a mia conoscenza debbo dirti che le tue preoccupazioni sono ben giustificate: i Russi, infatti, come tu certo saprai, non si sono astenuti da fare copioso bottino nelle loro zone di occupazione59” così l’ambasciatore invita Ferrante a rivolgersi a conoscenze private in loco o agli angloamericani affinchè intercedano coi sovietici.

54 Raffaele Guariglia e la diplomazia epurata…p.84

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DDI serie X, Prunas a Paulucci di Calboli 13 marzo D. 290, Paulucci di Calboli a Prunas comunica la presenza a Roma del figlio Fulceri; sta anche in Renato Prunas diplomatico.p 353

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Quaroni ringrazia il Sottosegretario di Stato Celeste Nagarville per essersi adoperato affinchè la famiglia di Pier Luigi La Terza, consigliere commerciale, si riunisse a Roma. ASMAE, A.R., b. 339 f. Personale d’ambasciata Quaroni a Nagarville 13 febbraio 1946 tel.n. 210. Il Comando Supremo alleato telegrafa al Ministero dell’Interno che la moglie e la suocera di Umberto Grazzi (segretario di legazione a Rio de Janeiro) sono arrivate in Italia nel maggio del 1939 e dimorano in una proprietà agricola vicino a Firenze. Tel.n. 96/38 21 settembre 1941 ASMAE, Archivio del personale, serie I, II versamento Umberto Grazzi b. 18 f. 269

57

In G. Borzoni Renato Prunas diplomatico (1892-1951) , Rubettino, 2004 p. 134

58 ASMAE, A.R., b. 340 f. Personale d’ambasciata Ferrante a Quaroni 18 settembre 1945 (lettera personale no numerata). 59

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Pier Luigi La Terza60 destinato a Lisbona, chiede al Ministero di essere raggiunto dalla moglie Irene Altomonte e dalla suocera. Qui chiede l’espatrio della moglie Irene Altomonte e della suocera, così il Direttore Generale degli Affari Politici e del Personale, Serafino Mazzolini telegrafa al Sottosegretario di Stato per gli Affari Esteri Giuseppe Bastianini: “prima di concedere il nulla osta per l’espatrio dei detti nominativi, gradirei conoscere il Tuo pensiero circa l’opportunità che Funzionari del Tuo Dicastero si facciano seguire da una parentela assai numerosa61”. Alla fine l’espatrio verrà concesso, ma La Terza subirà una forte delusione pochi mesi dopo. nel maggio 1944, Renato Prunas lo richiama a Roma. La Terza non vuole lasciare la sua sede per una serie di ragioni62: il figlio malato ai polmoni che non può portare perché bisognoso di vitto confortevole e medicine; non ha i mezzi per sostenere i suoi all’estero, inoltre a suo carico non c’è solo la sua famiglia ma anche un fratello della moglie con la sua; dopo sei mesi dall’assegnazione di Lisbona La Terza era stato richiamato a Roma e aveva dovuto lasciare il posto in meno di 24 ore; l’appartamento di Roma era stato occupato dai tedeschi; si poteva ottenere lo stesso risparmio economico facendo scomodare funzionari scapoli o con famiglie in Italia come nelle sedi in Spagna, Portogallo o Marocco. Lo stesso ordine di ragioni La Terza lo ripeterà il 7 luglio 194463 ma alla fine, dopo l’insistenza del Segretario Generale, desisterà riportando a Roma anche la famiglia.

Nella sua autobiografia Mario Luciolli ricorda come Carlo de Ferraris Salzano e Giorgio Ciraolo tentarono di fuggire dalla prigionia in Italia del Nord attraversando, nell’inverno tra il 1944 e il 1945 l’appennino tosco-emiliano, mentre i due diplomatici ebbero successo, Attilio Perrone Capano fu colto da una bufera di neve e morì assiderato. Un altro funzionario Filippo de Grenet divenne membro della Resistenza e fu ucciso alle Fosse Ardeatine. Infine Luciolli riporta la rocambolesca vicenda di Alessandro Capece, console a Bruxelles, che si presentò al confine franco-spagnolo nei pressi della foce del fiume Bidassoa, sorvegliato dai tedeschi, parcheggiò l’auto, entrò nel casottino per chiedere delle informazioni banali, sperando che l’ufficiale di guardia alla sbarra pensasse che avesse presentato i documenti in regola e lo lasciasse passare. Così fu, ma il gendarme tedesco, quando vide che Capece stava per varcare il confine, tentò di colpirlo con la rivoltella, ma ormai era troppo tardi, il console 60

Pier Luigi La Terza nasce a Napoli il 1 aprile 1898, laureato in giurisprudenza all’università di Napoli, il 30 luglio 1920, fa il concorso per l’abilitazione all’ insegnamento nella Sezione di Commercio e Ragioneria e per l’avvocatura ma alla fine partecipa al concorso diplomatico (lo stesso di Mancini) nel novembre 1923. Sceglie la carriera consolare, come Mancini ha il primo avanzamento di carriera nel 1925, da addetto consolare a vice-console (10 aprile). Nel curriculum può annoverare di essere stato Segretario alla Terza Sessione della Conferenza di Roma tra gli Stati successori dell’ex-monarchia Austro- Ungarica (1924-25) e alla Conferenza italo-turca per la stipulazione della Convenzione Consolare. Il primo aprile 1926 diventa Vice-Console di prima classe e Console di terza classe il primo luglio 1927. Il 4 dicembre 1936 è destinato a Lisbona dove rimane durante la Guerra. Viene richiamato a Roma il 17 novembre 1940, ridestinato a Lisbona il 20 novembre 1942, il 7 agosto 1943 è a Madrid. Lavora come consigliere a Mosca dal novembre 1945 al 5 aprile 1948, dopo la promozione primo dicembre 1947. Sarà Ministro plenipotenziario di prima classe a Djakarta da dove pubblicherà anche una rivista in inglese “Italia”, per promuovere i prodotti italiani e la cultura. Qui sarà nominato ambasciatore il 16 marzo 1954. Tornerà a Roma l’8 novembre 1958 per poi andare in pensione nel 1963. ASMAE Archivo del personale, serie II, versamento B18 La Terza Pier Luigi b.106 f. 226

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ASMAE Archivo del personale, serie II, versamento B18 La Terza Pier Luigi b.106 f. 226 Mazzolini a Bastianini 20 luglio 1943 tel.n.. 2138

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ASMAE Archivo del personale, serie II, versamento B18 Mancini Tommaso b.106 f. 234 La Terza a Prunas tel n.720 15 maggio 1944 (spedito) 17 maggio 1944 (arrivato)

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ASMAE Archivo del personale, serie II, versamento B18 Mancini Tommaso b.106 f. 234 La Terza a Prunas 7 luglio 1944 (lettera personale no numerata).

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