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I comprensori in Italia: esperienze e prospettive

Cario Beltrame

1. Se iniziamo il nostro discorso sui com-prensori con alcuni tentativi di definizione non è tanto per cercare di porre delle solide basi di partenza quanto per offrire subito la sensa-zione della estrema varietà di tesi che intorno al comprensorio circolano, tesi che vanno spesso poste in relazione alle diverse situazioni e alle diverse esigenze sulle quali o in presenza delle quali si intende avviare un discorso compren-soriale. I n realtà la definizione e la delimita-zione del comprensorio è strettamente connessa con gli obiettivi che si intendono raggiungere attraverso il comprensorio e anche quando definiamo il comprensorio « strumento di pro-grammazione », « la sua individuazione, essendo in funzione degli obiettivi da raggiungere, è più un problema di precisazione di tali obiettivi che di delimitazione di confini » (1).

Uno studio dell'amministrazione provinciale di Lucca su « autonomia e coordinamento delle amministrazioni comunali nella programma-zione » ha t e n t a t o comunque una rassegna di definizioni. Si va dalla concezione dello studioso di ecologia u m a n a che parla di comprensorio come spazio di convivenza (2) alle aree econo-miche omogenee o alle aree econoecono-miche inte-grate degli economisti al comprensorio visto dagli urbanisti in un quadro di organizzazione del territorio, ma si parla anche di compren-sorio come espressione delle s t r u t t u r e locali di decisione, come accordo momentaneo tra co-muni per problemi particolari (il consorzio inteso come accordo t r a enti locali per problemi specifici), come organo politico di proposta (3), come vero e proprio livello di potere, come me-todo di partecipazione (4). Chi ha parlato di com-prensorio urbanistico lo ha anche definito come un'area urbanizzata, la cui popolazione vuole esprimere il senso della comune appartenenza ad una « s t r u t t u r a edificiale e sociologica, che riproduca il più fedelmente possibile l'imma-gine di una città moderna » (Franco De Marchi) o ha anche parlato di « città intercomunale ». Da più parti (5) viene poi a v a n z a t a la tesi del comprensorio come livello intermedio t r a regioni e comuni in alternativa all'ente

pro-vincia, mentre altre tesi collocano il compren-sorio tra la provincia e i comuni, come fa il Peracchi, che parla di provincia come coordi-natrice dei comprensori (6) o come avviene, ad esempio, in provincia di Varese con il di-scorso dei comprensori sub-provinciali.

Ma dalle definizioni è forse opportuno pas-sare subito alle esperienze comprensoriali, anche se su taluno degli aspetti accennati dovremo ritornare più avanti.

2. Ci chiediamo innanzitutto per quali vie si è arrivati nel nostro Paese al discorso e alla dimensione comprensoriale. Volendo schema-tizzare al massimo, possiamo dire che si è giunti ai comprensori sostanzialmente attra-verso tre vie:

a) come sbocco della ricerca dal basso di una dimensione sovracomunale;

b) come risultato di un'articolazione

terri-toriale della programmazione regionale; c) come ricerca di ambiti territoriali sub-provinciali, sia agli effetti di una articolazione degli interventi dell'ente provincia sia in sede di proposta di interventi programmatori o di ipotesi di assetto territoriale.

( 1 ) I V A N O L E O N A R D I , Varticolazione comprensoriale in provincia di Lucca, Amministrazione provinciale di Lucca,

serie schemi di studio, luglio 1969.

(2) Il comprensorio « dovrebbe rappresentare l'area entro la quale sia possibile ricostruire in qualche modo un clima comunitario, di comune partecipazione, di comune coscienza, di comuni responsabilità ».

(3) Non ci sembra lontana da siffatta definizione l'impo-stazione comprensoriale originaria portata avanti in pro-vincia di Firenze.

(4) Avremmo in questo caso, secondo la tesi lucchese, una unione tra cornimi nel senso di un « accordo spontaneo che nasce e si anima con lo scopo di far partecipare gli enti che lo compongono alla formazione delle scelte di programma, che sono scelte razionali e capaci, come tali, di coordinarsi a livello provinciale, regionale e nazionale ».

( 5 ) Si veda in particolare: G I A N N I B E L T R A M E , Tesi sul comprensorio, in « Città e società » n. 6, novembre-dicembre

1970.

(6) Per cogliere tutti gli aspetti di questa tesi si rinvia a Una proposta di legge per la provincia-comprensorio, pro-getto di F R A N C O F O S C H I ed E R A S M O P E R A C C H I , in «Regione e potere locale », n. 11, 1970, e al saggio di P E R A C C H , La regione tra centralizzazione e articolazione in governi macro-comprensoriali, in «Città e società», n. 1, 1971.

Abbiamo poi dei comprensori « specializ-zati », tipici i comprensori turistici e le zone agrarie, dei quali parleremo sj:>ecificamente. Aggiungiamo che per la definizione spaziale dei comprensori si è fatto di volta in volta riferimento ai seguenti elementi:

— la pendolarità per motivi di lavoro in-torno ad un determinato polo (come ha fatto I ' I R E S di Torino per la definizione delle aree ecologiche piemontesi);

— un minimo di popolazione e un minimo di servizi del vivere civile a un certo livello (la concezione olivettiana della comunità a dimensione dell'uomo come la stessa essenza delle aree ecologiche);

— le aree gravitazionali (come nel caso della suddivisione in aree gravitazionali del territorio della provincia di Milano, dove si è a d o t t a t a la seguente motivazione: «il poten-ziamento dei centri provinciali comporta la formazione di aree di influenza entro le quali dovranno essere ubicate le infrastrutture e i servizi a dimensioni intercomunali in modo che si realizzi un nuovo equilibrio tra le varie parti del territorio, in alternativa all'attuale cen-tralismo);

— l'omogeneità di particolari fattori o si-tuazioni (come nei comprensori turistici e nelle zone agrarie omogenee);

— motivazioni storico-politiche, come anche il riferimento a circoscrizioni storico-ammini-strative preesistenti.

3. ^Analizziamo ora singolarmente i tipi di approccio al discorso comprensoriale delineati sopra.

La ricerca dal basso di una dimensione sovracomunale è generata dalla presa di co-scienza dell'insufficienza dell'ambito territoriale comunale ai fini di una corretta pianificazione urbanistica. In questa ricerca si sono b a t t u t e principalmente due strade:

— la strada del piano regolatore interco-munale;

— la strada del consorzio intercomunale per la redazione di un piano di indirizzo-coordina-mento.

Accenneremo a due esempi: il piano interco-munale milanese e il piano urbanistico compren-soriale del cremasco. Il più grosso « caso » di pianificazione intercomunale nel nostro Paese è indubbiamente costituito dal P I M (Piano inter-comunale milanese) s o p r a t t u t t o per l'ambiente e il momento programmatorio-culturale in cui l'esperienza ha operato (dall'ambiente I L S E S al momento di costruzione del primo piano di

attività e di spesa del comune di Milano ai più recenti lavori del C R P E lombardo). L'espe-rienza PIM è stata oggetto qualche tempo fa (7) di approfondite analisi critiche, ma inten-diamo solo citarle, senza soffermarci diffusa-mente su di esse. Ci preme solo cogliere dagli « orientamenti operativi » presentati nel marzo '66 dal presidente della giunta esecutiva del PIM Filippo Hazon, nel tentativo di superare opposti modelli di sviluppo resi noti l'anno pre-cedente, alcune conclusioni significative. Di-ceva Hazon: « Partiti dall'art. 12 della legge urbanistica del 1942 si è giunti a dar vita ad una assemblea comprensoriale dei sindaci, cui spettano le decisioni finafi, ad una giunta ese-cutiva intercomunale, ad un centro studi ope-rante a livello comprensoriale quale istituto permanente di pianificazione urbanistica, e non solo urbanistica. E si sono fissati obiettivi e metodi d'azione che superano largamente la sor-passata concezione del mero piano di coordina-mento, del piano che aggiusta i problemi di frangia: obiettivi e metodi di azione che impli-cano un vero e proprio piano di sviluppo, che affrontano i problemi riconoscendone t u t t a la gravità, la natura, e le cause profonde, che preludono embrionalmente a ciò che dovrebbe essere veramente un'autorità comprensoriale, ovvero un « governo metropolitano » per corri-spondere con pienezza di poteri e di mezzi a ciò che la realtà richiede. Ma pur indicando una strada, pur suggerendo un metodo, pur costi-tuendosi come anticipatore, è assolutamente chiaro che il P I M di oggi, che opera nel quadro istituzionale dell'ordinamento vigente, non ha in sé né la forza, né le competenze, né le strut-ture, né le risorse per dirsi e per essere il « go-verno metropolitano » dell'area intercomunale milanese ». H a scritto Macchi Cassia che alla mancanza di una authority metropolitana si è cercato di sopperire con un agreement t r a le varie amministrazioni. In effetti il piano fu approvato all'unanimità il 18 febbraio 1967 dall'assemblea dei sindaci, ma fu poi rinviato ai vari consigli comunali per le delibere di approvazione.

Per il circondario cremasco un consorzio in-tercomunale ha elaborato un piano urbanistico, avente per obiettivi (citiamo dalla presenta-zione del piano): « u n a ragionata localizzapresenta-zione delle attività industriali; l'assetto delle resi-denze in rapporto alle scelte di localizzazione p r o d u t t i v a ; alcune proposte di aggregazioni residenziali e la ottimizzazione dei relativi ser-vizi pubblici; infine la disciplina dell'attività

( 7 ) Si vedano i saggi di M . R O M A N O e C . M A C C H I CASSIA

urbanistica ed edilizia comunale nel quadro delle scelte generali per il comprensorio ». Si resta però, a nostro avviso, sempre nel pur utile campo del piano di indirizzo-coordina-mento. H a affermato in effetti il Presidente del consorzio presentando il « piano »: « Ogni ammi-nistrazione comunale del territorio circonda-riale potrà attingervi elementi di studio e di decisione per una soluzione meditata e oppor-tuna dei propri problemi amministrativi e ur-banistici. Il consorzio non gode infatti di poteri esecutivi, ma ha invece il compito di favorire una graduale convergenza d'azione verso obiet-tivi di sviluppo generale dell'intero compren-sorio, suscitando la collaborazione tra le civiche amministrazioni partecipanti e i rappresentanti degli enti, associazioni e organismi locali. E quindi anche strumento di sollecitudine perché le popolazioni interessate partecipino docu-mentatamente alle decisioni circa l'evoluzione delle comunità in cui vivono » (8).

4. Si è arrivati ai comprensori anche par-tendo dai piani regionali, allorché, elaborando i primi schemi regionali di sviluppo, è emersa chiaramente l'esigenza di livelli di pianificazione o di governo sub-regionali. Cosi è avvenuto in Piemonte, ma anche nel Friuli-Venezia Giulia, in Umbria, in Emilia-Romagna, nel Molise e in altre regioni ancora. È opportuno soffer-marci a riferire sia sull'esperienza piemon-tese come sull'esperienza del Friuli-Venezia Giulia.

I programmatori piemontesi concordarono intorno a pochi obiettivi di fondo. Cosi insieme all'esigenza di una diversificazione del sistema produttivo piemontese (per ridurre la fortis-sima dipendenza dell'economia della regione dal settore automobilistico e produzioni con-nesse) si era posto l'accento più insistente su una riorganizzazione territoriale tendente a ridurre la polarizzazione di attività industriali e di persone sull'area metropolitana torinese per rivitalizzare, in contropartita, una serie di poli minori della regione. E r a un po' il disegno francese delle metropoli d'equilibrio (una serie di centri periferici da potenziare per bilanciare e ridurre la crescita dell'area parigina) trasfe-rito in Piemonte. La riduzione del tasso di crescita di Torino dovrebbe accompagnarsi dunque al rilancio di una serie di aree perife-riche chiamate aree ecologiche, quindici in tutto, a tenere conto dell'area da « decompri-mere » (per usare un'espressione dei programma-tori lombardi), quella di Torino. Abbiamo nel piano del Piemonte la seguente « gerarchia » di aree ecologiche:

a) l'area di Torino;

b) due aree di equilibrazione

interregio-nale per le evidenti interconnessioni con altre regioni: Novara e Alessandria;

c) le aree di riequilibrazione regionale: Cuneo, Mondovf, Fossano-Savigliano-Saluzzo, Alba-Bra, Asti, Casale Monferrato, Vercelli, Biella, Borgosesia, Verbania, Ivrea, Pinerolo.

Intorno alle aree ecologiche il piano pie-montese del C R P E afferma poi testualmente: « Per la pianificazione a livello sub-regionale, è opportuno distinguere i piani di area ecologica, che rappresentano una specificazione del piano regionale e che comprendono quindi t u t t i gli elementi sociali, economici e territoriali di un piano di sviluppo, e che costituiscono la base per i programmi pluriennali di attività delle amministrazioni pubbliche per gli interventi di loro competenza; e nell'ambito delle aree eco-logiche — ed in alcuni casi — i piani

compren-soriali, di contenuto più specificatamente

urba-nistico, di cui i piani di area ecologica rappre-sentano il quadro di riferimento. Si determina infatti, in genere, una identificazione tra area ecologica e comprensorio, ma in alcuni casi (es. area metropolitana), è possibile che una area comprenda al suo interno più comprensori urbanistici, i quali vanno considerati assieme per la formulazione delle ipotesi di sviluppo socio-economico e per la determinazione delle grandi linee di organizzazione territoriale, che sono strettamente connesse alle ipotesi di svi-luppo. I piani di area ecologica si presentano pertanto:

a) come specificazione delle ipotesi di

sviluppo regionale a riguardo dei fenomeni socio-economici;

b) come proposta di piano di organizza-zione territoriale (piano-guida) per l'area stessa;

c) come base per la definizione dei pro-grammi pluriennali di attività delle ammini-strazioni pubbliche, locali e nazionali, che ope-rano nell'ambito dell'area ».

Gli studi per il piano provinciale di Ales-sandria vennero allora a qualificarsi come l'in-sieme coordinato dei piani delle due aree eco-logiche che ricadono nel territorio provinciale, e cioè le aree di Alessandria e di Casale Mon-ferrato. Intorno al vestito giuridico dei piani

(8) Lo studio sul comprensorio del cremasco (curato da Giacomo Corna Pellegrini, Luigi Ferrario e Gianluigi Sala e pubblicato dall'editore Giuffré) comprende una vasta analisi di tipo socio-economico, ma è prevalentemente centrato sul discorso urbanistico. Si segnalano il capitolo dedicato ai problemi di salvaguardia e alle norme urbanistiche (con due documenti essenziali: uno schema di disciplina dell'attività urbanistica ed edilizia nel quadro del piano intercomunale e uno schema tipo di regolamento edilizio comunale) e il capi-tolo sul piano finanziario comprensoriale.

di area ecologica si apri poi un interessante di-battito intorno all'applicabilità o meno a tale livello dell'istituto del piano territoriale di coordinamento (9), dibattito che dovrebbe tro-vare composizione in sede di elaborazione della legge urbanistica regionale.

Passiamo al caso del Friuli-Venezia Giulia. Per consentire una articolazione a livello sub-regionale della programmazione economica e soprattutto di consultazione e di partecipazione, la regione Friuli-Venezia Giulia (in base a un decreto del 2.3 novembre 1970) è stata suddi-visa in otto zone socio-economiche. Le zone sono state individuate dalla giunta regionale sulla base di criteri di omogeneità di ordine non solo economico e sociale, ma anche geo-grafico e attraverso di esse operano i comitati zonali di consultazione previsti da una legge regionale dell'agosto 1970. Tra i principali com-piti di questi comitati, espressione degli enti locali minori, figurano quelli di procedere, una volta all'anno, all'esame della situazione eco-nomica e sociale della rispettiva zona, prospet-tandone le esigenze di sviluppo, ed inoltre di formulare pareri, indicazioni e proposte nella fase di predisposizione dei programmi econo-mici e sociali e del piano urbanistico regionale. Ciascuna delle otto zone socio-economiche si caratterizza per tre ordini di elementi: una affinità ambientale ed una certa comunanza di interessi, almeno in alcuni settori economici; l'esistenza di presupposti per costituire aree di studio, nel senso che a tale livello dovranno essere analizzati i principali fenomeni econo-mici, ed infine, l'idoneità delle zone a qualifi-carsi come aree di intervento operativo rispetto agli obiettivi della programmazione regionale. Ma ecco, nel prospetto che segue, le otto zone con il numero dei comuni che le compongono e la loro dimensione demografica:

ZONE SOCIO-ECONOMICHE NUMERO

COMUNI

NUMERO ABITANTI

1. Carnia-Canal del Ferro-Val Canale 36 71.000 2. Mandamenti di Maniago e Spilim- 71.000

bergo 23 55.000

3. Colline del Friuli Centrale . . . . 26 93.000 4. Parte occidentale destra Tagliamento 19 165.000 5. Mandamenti di Codroipo e San Vito 165.000

al Tagliamento 16 67.000

6. Udine-Cividalese-Valli del Natisone 40 235.000

7. Bassa Friulana 29 105.000

8. Trieste-Gorizia-Monfalcone . . . . 29 438.000

Totale 218 1.229.000

Le zone più popolate — quelle centrate su Udine e su Trieste-Gorizia-Monfalcone — sono anche le più sviluppate. Quanto a estensione

territoriale (ricordiamo che il Friuli-Venezia Giulia ha una superficie complessiva di 7.846 chi-lometri quadrati) risultano in testa le prime due zone, comprendenti territori montani a più che modesta densità di popolazione. Delle rimanenti aree la più ampia è la zona di Udine (con Cividale e le Valli del Natisone) costituita da oltre mille chilometri di territorio, mentre l'area dei restanti comprensori oscilla fra oli 800 ed i 500 chilometri quadrati. Oltre alle zone socio-economiche esistono, nella regione in esame, i comprensori urbanistici. Il Friuli-Venezia Giulia sta avviando una interessante esperienza in materia di comprensori, alla quale potranno utilmente guardare le regioni a statuto ordinario che si sono poste in questi mesi di rodaggio il problema della creazione di nuovi livelli di governo intermedi.

La T E K N E di Milano, alla quale è stata affidata la elaborazione di una proposta di «ipotesi per il piano urbanistico regionale del Friuli-Venezia Giulia », nel capitolo dedicato ai comprensori illustra le motivazioni che im-porrebbero una comprensorializzazione genera-lizzata di t u t t o il territorio regionale (10). « Il comprensorio — afferma la T E K N E — inteso in prima definizione come momento di piano intermedio tra comune e regione, con proprie precise funzioni, con propri e autonomi poteri decisionali e operativi, nasce innanzitutto dalla problematica di una ridistribuzione di funzioni e di poteri, di una organizzazione e riorga-nizzazione delle strutture amministrative, che come sono oggi risultano inadeguate a soste-nere un processo di programmazione e di pia-nificazione territoriale ». Vengono poi fornite queste ulteriori precisazioni. «L'esigenza del comprensorio deriva da due ordini convergenti di necessità: dal livello inferiore, quella di supe-rare i limiti oggettivi del comune e della piani-ficazione comunale; dal livello superiore, quella di disarticolare la pianificazione e la program-mazione regionale per « aree di piano e di

(9) Su tale tesi concorda il provveditore regionale alle opere pubbliche del Piemonte Di Lorenzo (anche nel suo volume « Lineamenti di diritto urbanistico »), ma non il Consiglio superiore dei lavori pubblici.

(10) Si vedano in materia: T E K N E , Proposta delle ipotesi per il piano urbanistico regionale del Friuli-Venezia Giulia,

luglio 1970 e, ancora, T E K N E , I comprensori nel piano urba-nistico regionale del Friuli-Venezia Giulia, a cura di Ezio

Antonini, Gianni Beltrame e Carlo Cagli.

Al problema dei comprensori, con riferimento particolare al « caso » del Fiuli-Venezia Giulia, ha dedicato un numero speciale la rivista « Prospettive regionali » (n. 6, 1970) conte-nente contributi di Giorgio Bazo e della stessa T E K N E , il testo della relazione sulle zone socio-economiche dell'Assesso-rato regionale alla programmazione e altro materiale di docu-mentazione (bibliografia orientativa su comprensori, norme sui comprensori della legge urbanistica regionale, documenti sull'esperienza comprensoriale nel Trentino a cura dell'Asses-sorato all'urbanistica della provincia autonoma di Trento).

intervento », di dimensione ottima o signifi-cativa, differenziando e particolareggiando gli interventi secondo le varie esigenze ed i vari obiettivi locali, operazione che esige come diretti interlocutori non i singoli comuni, ma una intera « area » interessante diversi comuni le-gati tra loro da medesimi problemi e obiettivi di pianificazione ». Le indicazioni provvisorie della T E K N E individuano nel Friuli-Venezia Giulia nove comprensori:

1) una fascia a nord, da Ampezzo a Tol-mezzo a Tarvisio;

2) Maniago-Spilimbergo; 3) Gemona-San Daniele; •1) Pordenone;

5) San Vito al Tagliamento-Codroipo; 6) Udine;

7) dividale; 8) Basso Friuli;

9) Trieste-Monfalcone-Gorizia.

Si ha, sostanzialmente (salvo la scomposi-zione in due della zona Udine-Cividale-Valli del Natisone), una coincidenza con le zone socio-economiche definite dalla programmazione eco-nomica regionale. Va comunque messo in rilievo che la proposta T E K N E tende ad articolare la pianificazione urbanistica sui seguenti livelli:

- piano urbanistico regionale (norme e standards, grandi linee di intervento infrastrut-turale, localizzazione dei « servizi rari » regio-nali);

— piani urbanistici comprensoriali (indica-zioni tipiche di un « piano direttore » e sostitu-tivi degli attuali piani regolatori generali);

- piani particolareggiati comunali (speci-ficazioni degli azzonamenti indicati dai piani comprensoriali).

5. Terzo tipo di genesi del discorso dei

com-prensori: come ricerca di ambiti territoriali sub-provinciali, sia agli effetti di una articola-zione degli interventi dell'ente provincia sia in sede di proposta di interventi programmatori o di ipotesi di assetto territoriale. H a affermato il presidente della provincia di Milano Peracchi: « il potenziamento dei centri provinciali com-porta la formazione di aree di influenza entro le quali dovranno essere ubicate le infrastrut-ture e i servizi a dimensioni intercomunali in modo che si realizzi un nuovo equilibrio tra le varie parti del territorio, in alternativa all'at-tuale centralismo. La realizzazione di un as-setto policentrico del territorio implica neces-sariamente una suddivisione della circoscri-zione provinciale in t a n t e aree aventi una dimensione correlata alle gestioni che si vogliano