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sulla nuova disciplina del commercio

Roberto Cambino

1. Finalmente abbiamo la nuova disciplina del commercio. Cadono, con l'istituto della licenza, gran parte delle barriere corporative che hanno cosi spesso operato a danno dei consumatori ed a difesa di assurdi privilegi. Tramonta, forse, un regime di liberismo anar-chico ed incontrollato, che con la proliferazione indiscriminata dei punti di vendita aveva finito per ritorcersi a danno delle stesse categorie inte-ressate. Si ridurrà, forse, una certa patologica dilatazione delle attività commerciali nelle aree di più forte immigrazione, come rifugio occu-pazionale di frange impreparate di popolazione. Si pongono le basi per la qualificazione del com-mercio e si accettano le regole della programma-zione. Si dovrebbe dunque salutare con soddi-sfazione la nuova disciplina del commercio, che ci allinea, sia pur tardivamente e parzialmente, con i Paesi più avanzati. Ma u n ' a t t e n t a lettura del testo delle nuove disposizioni approvate definitivamente dai due rami del Parlamento, alla luce anche degli orientamenti e delle espe-rienze internazionali, suggerisce ampie riserve e gravi perplessità. Ben al di là delle proteste e dei dissensi che la nuova disciplina ha suscitato e suscita in alcune delle categorie interessate, la puntualizzazione dei problemi aperti ed irrisolti è oggi necessaria ed urgente:

a) per evitare i rischi e gli errori che la

nuova legge, ampliando considerevolmente il margine di manovra degli operatori pubblici, obiettivamente consente ;

b) per assicurare un'utilizzazione, la più

possibile efficace e coerente, della nuova norma-tiva.

Nulla da eccepire — almeno in questa sede — sul C A P O 1 ° (« Registro degli esercenti il commercio »), che, accettando il criterio di una selezione degli operatori in base a requisiti professionali e morali, risponde ad esigenze da tempo avvertite e segnalate.

L'attenzione si concentra sui C A P I I I e I I I («Piani di sviluppo e adeguamento» e «Auto-rizzazione amministrativa »). Non è dato

cono-scere su quale sostrato tecnico-culturale le nuove disposizioni siano maturate. Ma certo esse si pongono, oggi, obiettivamente in rap-porto con tutto un insieme di acquisizioni tec-nico-scientifiche e di indicazioni politico-cultu-rali che decenni di ricerca teorica ed applicata e di esperienze pratiche hanno posto al centro di quella che — impropriamente e con brutto neologismo — viene chiamata « urbanistica com-merciale ». Un tema d'incontro interdiscipli-nare, dalle implicazioni ancora vaste ed etero-genee, su cui da anni associazioni internazionali vanno attirando l'attenzione dell'opinione pub-blica con prestigiosi dibattiti e convegni (1), ed al quale non sono rimaste insensibili anche le nostre Camere di commercio, sia con iniziative di studio e pianificazione locale (2), sia con la costituzione di apposite commissioni a livello nazionale. Quali che siano stati i criteri di valu-tazione e la base «filosofica» che hanno ispi-rato la presente legge, è con queste indicazioni e con queste esperienze che le nuove norme vanno confrontate, se non vogliamo ancora una volta ricadere nel più stolto e meschino provin-cialismo.

2. Il primo e più importante rilievo riguarda i «Principi generali» (di cui all'art. 11 della Legge) che assegnano ai piani di svihippo e di adeguamento l'obiettivo di « favorire una pili razionale evoluzione dell'apparato distributivo » e, più precisamente, di « assicurare la migliore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore ed il maggior pos-sibile equilibrio tra installazioni commerciali a posto fisso e la presumibile capacità di do-manda ... ».

(1) Vedi i congressi dell'Associazione internazionale « l'r-banisme et Commerce» a Bruxelles (1966), Stoccolma (1969), Parigi (1971), quelli della Società di studi annonari, in Italia, quello dell'AIGID a Milano (1967), ecc.

(2) Vedi in particolare quelli promossi dalla Unione re-gionale delle Camere di commercio del Piemonte e dalle CCIAA di Bologna e di Asti.

Già in questa formulazione estremamente riduttiva non sembra esservi j^osto per il ruolo strategico che le attrezzature commerciali già svolgono (e sempre più assumeranno in futuro). Se oggi viene comunemente riconosciuta la necessità di spezzare ed invertire la catena insediamenti di base-insediamenti di popola-zione-servizi, si pongono forse problemi di sem-plice « razionalizzazione » dell'evoluzione del-l'apparato distributivo ? Se, come sappiamo, le attrezzature commerciali sono elementi « di rilievo » e con capacità strutturante rispetto allo sviluppo urbano e territoriale, quali sono gli obiettivi, quali le finalità rispetto alle quali è giusto e doveroso perseguire la « funzionalità » del servizio e l'« equilibrio » del consumatore ? Accetteremo forse che, come l'esperienza inse-gna, le attrezzature commerciali, per garantirsi la miglior funzionalità del servizio, scaccino dai centri urbani le utilizzazioni pubbliche e sociali (che non pagano un reddito competitivo) o si collochino strategicamente alla periferia delle grandi concentrazioni, derubando i centri esi-stenti delle loro ragioni di vita e della loro capacità di polarizzazione ? Se, come sappiamo, «l'equilibrio» è pura finzione, e, quando s'av-vera, è per sua natura instabile e provvisorio, qual'è la dinamica rispetto al quale ricercarlo, quale la logica di sviluppo nella quale inserire Io sviluppo del commercio ?

Anche se vogliamo ignorare (ma non è pru-dente) le esperienze di pianificazione dei Paesi dell'Europa orientale e dell'Europa del Nord (nelle quali l'assetto del commercio è una varia-bile strategica primaria per determinare lo svi-luppo globale) la stessa realtà in a t t o ci appare carica di significati e di implicazioni che vanno ben al di là della formulazione riduttiva sopra citata: la Circolare del 22 maggio 1970 del Primo Ministro francese sottolinea «l'impor-tanza psicologica e 'politica che hanno preso i problemi d'attrezzatura commerciale ».

3. Certo si potrebbe obiettare che non è compito dei « Piani di sviluppo commerciale » affrontare questi interrogativi, la cui risposta sta nei Piani di sviluppo economico globale ed urbanistico. Ma qui i dubbi peggiorano e le riserve si fanno più gravi. Perché non soltanto questa indispensabile premessa socio-economica ed urbanistica non è chiaramente postulata, ma si delinea anzi una preoccupante inversione

di momenti: i piani commerciali competono

infatti a t u t t i i Commi (art. 12),

indipendente-mente dal f a t t o che essi siano o no dotati di

strumenti urbanistici, con procedura estrema-mente più veloce e con garanzie assai più ridotte di tutela degli interessi pubblici e privati.

Stante la situazione urbanistica del nostro Paese, che senso può allora avere l'invocato « rispetto delle previsioni urbanistiche ? ». D'al-tronde, gli stessi piani commerciali non costi-tuiscono presupposto indispensabile per l'atti-vità delle Commissioni comunali previste dalla legge ai fini del rilascio delle autorizzazioni né, soprattutto, per quella regionale (artt. 26, 27, 43).

I dubbi circa la temuta inversione di mo-menti sono avvalorati dall'art. 13, che attri-buisce agli strumenti urbanistici compiti nor-mativi che non avrebbero senso ove non fos-sero previamente fissati i programmi di svi-luppo.

4. Ma il punto cruciale, vero ponte del-l'asino della nuova Legge, è rappresentato dal-l' attribuzione ai singoli Comuni, indipendente-mente dalla loro dimensione ed importanza territoriale, di tutte, o quasi, le competenze relative alla disciplina del commercio. Una delega sconcertante, che sembra ignorare de-cenni di esperienza internazionale e, soprattutto, nazionale, ed accarezzare miti ed illusioni rifiu-tati da tempo sotto t u t t i i regimi, il cui libero corso in Italia continua a produrre le più funeste conseguenze. Non è certo la patente democratica e la malintesa difesa dell'autono-mia comunale che possa salvare la delega ai Comuni (in quanto tali, e quindi, nella indiscri-minata accezione del termine, dalla grande metropoli esplosa oltre i suoi confini al picco-lissimo nido umano di poche centinaia di anime) di competenze ad essi incongrue, dalla condanna senza appello che discende dalla disa-strosa esperienza urbanistica del nostro Paese. E, mentre ovunque i tecnici, i politici, gli amministratori, presa ormai coscienza della co-stituzionale inadeguatezza dell'ambito comu-nale, tentano, nel confuso groviglio dell'attuale legislazione, le vie per il suo superamento e per un aggancio realistico ai problemi urbani e ter-ritoriali, è per lo meno sorprendente che una legge « nuova » ribadisca ipotesi da tempo smen-tite, riaffacci innaturali divisioni, dia nuova esca ad antistorici campanilismi proprio in un campo in cui la rilevanza territoriale (general-mente subregionale o regionale) delle deci-sioni da prendere è di cosi palese evidenza.

Se l'ottica comunale si è rivelata irrimedia-bilmente insufficiente per disciplinare lo svi-luppo edilizio nei singoli Comuni (i mosaici ricostruiti, in diverse regioni ed aree territoriali, con le « tessere » costituite dai Piani urbanistici dei singoli Comuni attigui, forniscono quadri allarmanti per l'incoerenza, la contraddittorietà, l'elefantiasi) potremo forse sperarla adeguata

alla definizione dello sviluppo delle sue strutture più delicate ed importanti, quali quelle com-merciali ?

Sono previste talune limitazioni alla com-petenza comunale (per gli esercizi con più di 400 mq nei piccoli comuni, art. 26, e per le grandi strutture di vendita, art. 27, per cui occorre il nulla osta regionale): ma, in ogni caso, l'iniziativa spetta al Comune. Ma, più in generale, che senso può avere il richiamo alla Regione, quando le stesse decisioni regionali non sembrano presupporre ma anzi escludere (artt. 17, 28) la necessità preliminare di piani regionali di sviluppo del commercio ? In effetti,

manca nella nuova Legge (forse per la sua lunga

elaborazione, che finisce per retrodatarla alquan-to) non solo una prospettiva sovraccomunale e

comprensoriale, ma anche una prospettiva effi-cacemente regionale.

Se la nuova Legge nasce « vecchia » rispetto alla realtà ed alla esperienza italiana, non meno grave è il suo ritardo rispetto all'esperienza, internazionale. La stretta unità t r a i problemi di adeguamento delle attrezzature all'interno dei centri e quelli dell'organizzazione regionale dei centri e dei servizi è ormai universalmente riconosciuta: nei piani svedesi, nei piani tede-schi, nei piani olandesi, t a n t o per citare i più noti, la pianificazione regionale e quella per il rinnovamento interno dei centri costituiscono i due termini di uno stesso problema. Ma, anche volendo restare in una prospettiva di semplice razionalizzazione degli sviluppi in atto, non è possibile ignorare l'assurdità e l'incon-gruenza dei confini comunali; il VI Piano econo-mico francese sottolinea « l'interesse della crea-zione di u n vero potere locale, federatore di comuni, che agisca in contatto permanente con l'opinione pubblica e disponga di mezzi d'azione per l'insieme dell'agglomerazione urbana ».

5. I n effetti, l'attribuzione delle competenze previste dalla nuova disciplina del commercio, ai singoli Comuni, si spiega soltanto con una visione semplicistica e rigidamente settoriale dei problemi coinvolti: è proprio la complessità delle interrelazioni e delle implicazioni che ca-ratterizza le s t r u t t u r e commerciali a rendere del t u t t o insoddisfacente la loro considerazione in un ambito p u r a m e n t e settoriale. Qui forse in-tervengono le considerazioni pivi amare che la nuova legge ispira: aver del t u t t o ignorato le sollecitazioni, gli stimoli, le indicazioni che l'esperienza dei Paesi più avanzati ha da tempo suggerito al dibattito internazionale, sulla irri-nunciabile unità dei problemi del commercio con quelli globali di sviluppo territoriale e, in particolare, sulla necessità di una stretta

inte-grazione tra le attrezzature del commercio e quelle degli altri servizi. Aver quindi dato im-plicitamente un avallo a quella politica terri-toriale, disinvoltamente dominata, nel nostro Paese, per anni, dalle « grandi signore » delle infrastrutture pubbliche (Alias, Enel, ecc.), dalla settorializzata burocrazia di Ministeri concor-renti, dall'efficiente tecnocrazia degli operatori pubblici e privati, consistente nel rifiuto perma-nente di comuni obiettivi di sviluppo territo-riale, e nella radicale divisione delle competenze.

Quanto questa caotica anarchia si ponga in contrasto non solo con gli indirizzi più recenti in campo urbanistico-commerciale, ma con le stesse ragioni dell'efficienza e della produttività commerciale, non è il caso di sottolineare. Basti qui ricordare con quanto impegno si stia correggendo, negli Stati Uniti, la disastrosa esperienza degli anni '50 e '60 degli « shopping centers »: con quali spese si stia affrontando la rivitalizzazione dei centri esistenti (vedi i piani di New York, Los Angeles, Filadelfia, S. Louis, ecc.) e la formazione di nuovi centri « integrati » (completi di servizi commerciali, pubblici, e per il tempo libero) onde tessere una rete di poh plurifunzionali « con una chiara immagine pubblica e sociale ».

Basti accennare alle realizzazioni svedesi, per formare non già centri commerciali mono-funzionali, ma nuovi « centri urbani »: al ri-fiuto, da parte degli olandesi o dei tedeschi, dei vecchi esempi nordamericani, alla loro pa-ziente ricerca di modelli di sviluppo integrato. E quali conseguenze avrebbe in Italia, sotto il profilo urbanistico e commerciale, uno svi-luppo del commercio che non si concatenasse s t r e t t a m e n t e con gli altri parametri dello svi-luppo urbano ? Quando le stesse recenti inno-vazioni legislative per l'edilizia scolastica (3) esplicitamente riconoscono l'importanza sociale, economica e pedagogica di una stretta integra-zione dei servizi educativi con gli altri servizi urbani ? Quando lo stesso « zoning » urbanistico è ormai da tempo in crisi e si diffonde l'esi-genza di evitare gli effetti esclusivi e segre-ganti delle specializzazioni d'uso del suolo ?

La visione settoriale del commercio si giu-stifica oramai solo nella miope ottica privatistica del piccolo operatore e del piccolo speculatore fondiario. In quest'ottica, l'affidamento ai Co-muni delle competenze relative alla disciplina del commercio, la mancanza di un serio ed organico coordinamento regionale (tale non può certo essere il diritto di veto riservato alla re-gione, e più precisamente alla Commissione al-l'uopo formata, limitatamente ad alcune

ture di vendita), la mancata individuazione di livelli intermedi di pianificazione, l'aleatorio e non cogente coordinamento con i piani urbani-stici in atto ed in fieri, rischia fortemente di confermare ed anzi esaltare la confusione cao-tica e contraddittoria delle iniziative, aggiun-gendo al liberismo anarchico degli operatori privati il meschino campanilismo delle ammini-strazioni locali, tese alla conservazione o all'ac-quisizione dei loro piccoli privilegi.

6. La visione settoriale è causa ed effetto di una generale carenza conoscitiva che, com'è noto, affligge il nostro Paese con una accentua-zione ed una gravità che non trova riscontro nei Paesi più avanzati. La mancanza di basi statistiche organiche, complete, ed aggiornate, le difficoltà per la. stessa divulgazione di quelle esistenti, la carenza di studi e ricerche sistema-tiche e coordinate, quali quelle di cui è dato disj^orre in altri Paesi, sono state ancora recen-temente oggetto di denuncia. Ora non v'è dubbio che proprio la mancanza di una valida base informativa renda del t u t t o inattendibile la capacità per i Comuni di formare seriamente i Piani di sviluppo commerciale ed impalpabili le possibilità di coordinamento a livello regio-nale. Anzi, l'art. 12 (che affida ai piani comu-nali « il rilevamento della consistenza della rete distributiva in a t t o nel territorio del comune ») sembra mostruosamente indifferente alla ovvia necessità che la conoscenza dello stato di f a t t o si estenda almeno a t u t t a l'area di presumibile influenza del centro considerato: quelle stesse garanzie informative che la Legge prevede per i Piani urbanistici, con le ben note carenze, sono del t u t t o assenti nella nuova Legge.

Ma, d'altra parte, è chiaro che la predispo-sizione di adeguate ricerche conoscitive, l'uni-formazione dei rilievi e degli accertamenti, presume ben altri ambiti che quello comunale: nel caso, sia l'ambito comprensoriale (e pro-vinciale) sia quello regionale.

Anche qui, il silenzio della Legge è grave e pericoloso: quale mai potrà essere la capacità di giudizio delle Commissioni previste dagli a r t t . 15, 16, 17 se esse non disporranno —

obbli-gatoriamente — di u n ' a d e g u a t a conoscenza dei

termini obiettivi dei problemi in gioco, o di-sporranno al più di una conoscenza che si ferma ai confini del Comune ?

7. Naturalmente, non t u t t o è perduto: il regolamento d'attuazione previsto dall'art. 11, potrà correggere talune pecche ed i problemi

aperti possono trovare soluzione. Ciò che la legge non prevede, ma neppure esclude, potrà essere fatto. Le regole del gioco sono ora fissate (e sono le regole della programmazione e del controllo democratico delle Commissioni, con la presenza forse determinante dei Sindacati): e il gioco incomincerà.

Non solo a livello regionale, ma anche a livello locale, molte cose potranno cambiare quando i decreti di delega consentiranno la revisione degli ambiti comunali, la formazione di comprensori e circondari.

Se questo si vuole, se ci si pone in una pro-spettiva di corretta e moderna utilizzazione delle nuove possibilità offerte dalla Legge re-centemente approvata, occorre aver l'occhio sia all'esperienza italiana, ai suoi fallimenti, alle sue delusioni, ai suoi moniti, sia all'espe-rienza ed all'esempio internazionali.

Faremo nostri, allora, gli insegnamenti di una recente assise internazionale (4), perché i piani di sviluppo del commercio siano utili ed efficaci:

a) occorre una base conoscitiva seria,

sistematica, continuamente aggiornata (a scala regionale e sub-regionale);

b) i problemi del commercio vanno

stret-tamente correlati a quelli dello sviluppo glo-bale, territoriale ed urbanistico;

e) occorre una politica regionale di orga-nizzazione urbana e commerciale che tenda sia alla distribuzione più equilibrata possibile dei servizi, sia alla migliore valorizzazione delle risorse e delle s t r u t t u r e esistenti;

d) occorre una politica complementare di

rinnovamento urbano per adeguare i centri alle loro funzioni commerciali e di servizio;

e) occorre evitare ogni soluzione

mono-funzionale e settoriale, in modo da poter coor-dinare l'assetto dei servizi con l'assetto dei trasporti e con l'assetto insediativo.

Sarà in rapporto a questi problemi ed alla necessaria convergenza che essi postulano dei poteri pubblici e privati che l'azione delle Ca-mere di commercio potrà contribuire a riscat-tare le lacune della nuova disciplina del commer-cio, evitandone i rischi gravissimi ed avviando anche il nostro Paese ad una politica urbani-stico-commerciale più m a t u r a e responsabile, in linea coi Paesi più avanzati.

(4) Vedi il Congresso di Parigi - Versailles, sul tema: « Il commercio, motore di sviluppo urbano », maggio 1971.