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I tratti del fiorentino argenteo e il dittongamento

Nel documento Gaia Russo (pagine 111-114)

2.1 La lingua del Manoscritto

2.1.4 I tratti del fiorentino argenteo e il dittongamento

Prima di affrontare la questione vocalica sembra opportuno, a questo punto, verificare se nel testo siano presenti dei tratti del cosiddetto fiorentino argenteo, vale a dire, quelle forme estranee al fiorentino delle Tre Corone e «accolte dall’uso dopo i tempi di Boccaccio, o che pur comparendo già nel sec. XIV, non sono attestate nelle sue opere»130.

Il primo tratto che teniamo ad approfondire è quello della mancanza di dittongamento spontaneo. Nella tradizione fiorentina le forme priego e simili erano uscite dall’uso generale nella seconda metà o verso la fine del Quattrocento e si può dire lo stesso per il tipo truovo che scompare tra il secondo e il terzo quarto del Cinquecento.131 Sebbene il Bembo (nella prosa degli Asolani) e il Trissino (l’Italia

liberata dai Goti), usino le forme dittongate, sappiamo che, vari scrittori settentrionali,

pur di «professione bembiana»132, come il nostro autore, attingono alla forma monottonga del fiorentino contemporaneo, alcuni persino in maniera esclusiva, come Giacomo Gabriele per le Regole Grammaticali (Venezia 1545), Lodovico Dolce per le sue traduzioni delle Orazioni di Cicerone (Venezia 1562) e Lodovico Domenichi nel primo dei Sette libri di Xenophonte, (Venezia 1547), intanto che erano più propensi alla conservazione delle forme classiche i non Settentrionali133.

Per lo studio sul nostro autore la mancata dittongazione può essere vista come il più visibile sintomo di non fiorentinità. Infatti, in quasi tutte le lezioni interessate del manoscritto manca il dittongamento spontaneo e non avviene la trasformazione della vocale /o/ in /wo/ in sillaba aperta e breve. Questo tratto come afferma il Bruni è diffusissimo a Firenze e in generale in Toscana, ma si produce molto sporadicamente

128 Rohlfs, Op. cit., § 535.

129 I primi tratti (fino al tipo potevo) del fiorentino argenteo sono ripresi dalla prolusione al corso di storia della lingua italiana tenuta a Roma nella facoltà di lettere e filosofia, il 7 aprile 1967, di Castellani Arrigo (1967), Italiano e fiorentino argenteo, in «Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza» (1946-1976), Salerno editore, Roma, 1980, (2 vol.), pp. 17-35.

130 Castellani, Op. cit., p. 18.

131 Ivi, p. 22.

132 Ivi, p. 23.

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nel Nord134 e nel Sud, dove invece è radicato il dittongamento metafonetico, estraneo all’area toscana, sebbene, è da dire che le forme monottongate siano spesso preferite in poesia anche dai toscani.

La suddetta conservazione di /o/ avviene frequentemente nel testo degli Abbozzi del nostro anonimo autore, per esempio nelle lezioni: bona per ‘buona’, nova per ‘nuova’, voto per ‘vuoto’, vol per ‘vuol’, core per ‘cuore’, for per ‘fuor’, son per ‘suon’,

dol per ‘duol’ e voj per ‘vuoi’ e per le significative lezioni in cui appare la circostanza consonante + r, vale a dire, trovo, preghi e breve, le cui forme sono costantemente

dittongate nel fiorentino trecentesco. Non può essere sottovalutato, quindi, il consenso dato al tratto tipico del toscano vivo, che come abbiamo visto viene accolto anche da diversi altri scrittori settentrionali.

La situazione vocalica per il dittongamento della /e/ in /je/ è molto meno accentuata nel nostro manoscritto, infatti, molto più rari sono i casi in cui si conserva la /e/, tra i quali, gli esempi di mei per ‘miei’ e di leta per ‘lieta’, ma in quest’ultimo caso potrebbe trattarsi ancora una volta di un consapevole latinismo etimologico.

E lo stesso modello latino potrebbe avere spinto alla conservazione del dittongo – au- nelle lezioni di fraude e gaude, inoltre, potrebbe aver dato una conferma per la forma non dittongata, già vista, di bona. Infine, i tre casi unici di dittongamento in /wo/ sono le forme dei pronomi possessivi suo e tuo e il sostantivo cruore. I pronomi manifestano, presumibilmente, la scelta consapevole di una lingua toscanizzata, ma hanno delle eccezioni alla regola, che risultano molto significative e che vedremo tra poco; la terza lezione, invece, non ha una vera valenza per la nostra ricerca, infatti, in questo caso il dittongo è etimologico dal latino, derivando dal sostantivo di terza declinazione: crŭŏr, cruoris, “sangue” o, appunto, “cruore”.

Al contrario, sono state catalogate come probabili ipercorrezioni le forme

rifrigierio per ‘refrigerio’, fugiendo per ‘fuggendo’, eccielzo per ‘eccelso’, citato in

precedenza, e la significativa lezione piensiero per ‘pensiero’, presente già in Boiardo e Ariosto e che testimonia, in generale, la confusione padana circa i dittonghi; in alternativa possono essere considerate come segno distintivo, cioè, come i pseudo-diacritiche135.

134 Bruni, Op. cit., p. 258.

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In ogni caso, secondo il nostro parere, l’assenza di dittongazione così costante nel testo, farebbe scartare l’ipotesi che sia solo il riflesso dell’assimilazione all’inflessione moderna del toscano, che durante il Cinquecento resta comunque oscillante136 e avvalorerebbe, invece, l’idea relativa alla provenienza dell’autore, che si confermerebbe così di origine settentrionale.

La seconda caratteristica del fiorentino argenteo sulla quale vogliamo soffermarci sono le forme morfologiche: dea stea, uniche uscite del fiorentino aureo alle quali si affiancano le forme dia, stia, a partire dalle Lettere e Istruzioni deli Cancellieri in

lingua volgare (1349-1350)137. Il Bembo adopera le forme auree, ma autorizza l’uso delle forme più moderne e lo stesso discorso vale per alcuni numerali, come per Bembo «Dieci che più anticamente Diece si disse» (Prose, III). Nel nostro manoscritto non appare nessuna delle quattro forme, tuttavia, potremmo vedere come forma analogica su “dieci”, la curiosa uscita milli, (per ‘mille’). In alternativa, potrebbe essere una forma ritenuta arcaica, poiché attestata in molti varianti dialettali dell’Italia tra il XIII e la fine del XIV secolo138.

Proseguendo con l’analisi dei tratti del fiorentino quattrocentesco, vediamo che non è mai testimoniato nel manoscritto il più diffuso tra questi argenteismi, vale a dire, quel tratto passato anche nella lingua contemporanea dell’italiano standard, ossia, l’uscita dell’imperfetto di prima persona singolare in –o (potevo). Questo tipo è attestato dall’inizio del Quattrocento139 a Firenze e in Toscana e ha immediatamente preso il sopravvento, tuttavia, l’assenza di questa forma nel testo si spiega con la preferenza accordata dal purismo bembiano al tipo poteva, alla quale il nostro autore, evidentemente, si accoda.

D’altronde, non sono molte le caratteristiche del fiorentino Quattrocentesco140 adottate dallo scrivente. Non esistono, infatti, esempi dell’uscita in -ono (come lavono) delle terze persone plurali del presente indicativo dei verbi di prima classe; né

136 Castellani, Op. cit., p. 22.

137 Ivi, pp. 25-26.

138 Dalla ricerca dell’occorrenza milli prodotta su Gattoweb:

http://gattoweb.ovi.cnr.it/(S(twkpxba0wjqkm445n0rpqa45))/CatForm02.aspx

139 Castellani, Op. cit., p. 33.

140 I tipi seguenti sono presi da Paola Manni, Ricerca sui tratti fonetici e morfologici del fiorentino

quattrocentesco, sulla rivista «Studi di grammatica italiana» 8, 1979, pp. 115-171, consultati nella sezione

di Storia della lingua, Vittorio Coletti, 2011, al link: http://www.treccani.it/enciclopedia/storia-della-lingua_(Enciclopedia-dell'Italiano)/

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dell’uscita in -i della prima e terza persona singolare e in -ino della terza persona plurale del congiuntivo presente e imperfetto dei verbi di seconda, terza e quarta classe, (dei tipi

abbi-abbino, avessi-avessino) salvo l’incerto termine ausino (ausare). Non è presente,

poi, la caratteristica nota al fiorentino argenteo della terza persona plurale del passato remoto dei verbi di prima, in -oro e –orono, sebbene compaia, in una sola occasione, la forma analoga sacrificaro. Inoltre, per i verbi di terza con passato remoto forte, non risulta neanche un’occorrenza con l’uscita in -eno del tipo disseno.

Oltre al fenomeno della monottongazione un altro aspetto, risulta, in parte, coerente al fiorentino argenteo, quello dell’articolo determinativo, di cui parleremo meglio in seguito. Per ora basti vedere141 che nella prosa del Macchiavelli del primo periodo (1497-1514/1517) prevalgono i tipi el/e, ossia le forme che si erano diffuse a Firenze nel corso del Quattrocento; mentre negli autografi successivi (1519-1525) ritornano le forme classiche il, i che sono «nettamente dominanti». Come vedremo tra poco il nostro autore usa le forme el/i, unendo le due opposte tendenze, questo, forse, perché, trovandosi in una fase di transizione della lingua, resta incerto sulla norma da adottare.

In definitiva, possiamo ritenere che lo scrivente sia solo in minima parte e in maniera incerta, influenzato dai tipi del fiorentino argenteo, che sembrano semplicemente confermare le forme della sua variante settentrionale, al contrario, possiamo constatare l’accoglimento, delle norme classiche, o se vogliamo puriste, delle

Prose bembesche e della cultura letteraria rinascimentale cinquecentesca.

Nel documento Gaia Russo (pagine 111-114)