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Le caratteristiche grafiche e i segni paragrafematici

Nel documento Gaia Russo (pagine 103-107)

2.1 La lingua del Manoscritto

2.1.2 Le caratteristiche grafiche e i segni paragrafematici

2.1.2.1 La scriptio continua

Come abbiamo visto brevemente nella parte dedicata all’analisi della scrittura e della paleografia nel Capitolo I, all’interno del testo del manoscritto non vi è una divisione “normale”, o meglio, moderna delle varie voci lessicali. Al contrario si potrebbe parlare di una divisione ritmica, molto legata alla lettura dello schema delle rime ternarie. Tuttavia, ciò non lascia stupiti, poiché, come è noto, la scriptio continua, è una pratica comune nei manoscritti antichi come anche in quelli rinascimentali. Entrando nel merito, notiamo che diffusamente l’autore presenta nella scrittura delle lezioni univerbate, come negli esempi seguenti: inmezo>in mezo, aquelle>a

quelle, atante>a tante, inte>in te, lamore>l’amore, lirichi>li richi e ciò accade,

soprattutto, quando, come negli ultimi esempi, si presenta la circostanza della coppia determinante più sostantivo, oppure nel caso in cui vi è la forma sincopata della particella relativa: cuna>c’una (che una). In generale, per la natura semicorsiva della scrittura usata nel manoscritto, risulta spesso assai complicato distinguere le espressioni separate da quelle unite dallo scrivente, ciò nonostante, appare evidente che la lingua dell’oralità abbia influito significativamente sull’adozione della maggior parte delle parole univerbate, come nei casi degli esiti del raddoppiamento fonosintattico nelle lezioni: allui> a lui e allei> a lei.

2.1.2.2 I segni grafici: punti, accenti e apostrofi

Ritornando nell’ambito degli accorgimenti grafici della lingua del testo, è bene sottolineare che i segni paragrafematici sono, nel nostro oggetto d’esame, quasi completamente assenti. Come abbiamo visto nella prima parte del Capitolo I, ci sono punti di interpunzione di diversa natura, ma questi vengono usati in maniera assolutamente personale, non regolare e confusa.

In particolare, non sono utilizzati dall’autore gli accenti gravi o acuti in sillaba finale tonica, come appare visibile negli esempi seguenti: belta, la, ne, cosi, cio, diro.

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Questo fenomeno della scrittura, come quello dell’assenza di separazione ordinata delle parole, non stupisce, difatti, è risaputo che nei primi secoli dell’età volgare, l’uso, il luogo e il senso degli accenti grafici è variabile, sia nei manoscritti degli scriventi colti che in quelli più comuni. È interessante notare, come ricorda il più volte presidente dell’Accademia della Crusca Bruno Migliorini112 che l’indicazione dell’accento grave sulle parole tronche si generalizza solo verso la metà del Cinquecento.

È possibile, di conseguenza, fare una prima riflessione di carattere cronologico e strutturale: il manoscritto potrebbe essere, in base a questa caratteristica, collocato prima della metà XVI secolo, o nelle sue più immediate vicinanze. In alternativa, se così non fosse, si dovrebbe ipotizzare o una scarsa cultura del copista, un’idea che sarebbe in contraddizione con altri fattori che analizzeremo in seguito, oppure, ed è forse l’ipotesi più convincente, immaginare che lo stato provvisorio di bozza del testo, ancora del tutto

in fieri, abbia giustificato per l’autore l’adozione di una forma superficiale, o comunque,

ancora da perfezionare.

Ritornando ai segni paragrafematici, in nessun caso sono presenti nel manoscritto degli apostrofi, bastino in questo caso gli esempi: salegra>s’alegra, dogni>d’ogni,

dun>d’un. Ancora una volta può essere utile riallacciarsi a un dato storico, il

Cinquecento è il secolo dell’affermazione dell’apostrofo, infatti, nell’edizione del Petrarca113 del 1501 verrà introdotto in abbondanza per segnalare elisioni, aferesi e apocopi; tuttavia, sappiamo che questo stesso simbolo grafico non si diffuse facilmente, soprattutto nella pratica manoscritta e che l’uso restò oscillante per tutto il Seicento e oltre. Il fatto che l’apostrofo abbia avuto una diffusione cronologica così disomogenea, sfortunatamente, non permette, allora, di fare nessuna valutazione in termini temporali del nostro testo.

2.1.2.3 Gli aspetti grafico-formali: segni diacritici, digrammi e trigrammi

Vediamo ora, invece, delle caratteristiche legate alle parole vere e proprie del testo, che si ritengono essere di natura prettamente grafica. Di peculiare è stata osservata la mancanza della -i- diacritica in alcune lezioni, come per esempio, avviene per le

112 Migliorini Bruno, Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in «Saggi linguistici», Firenze, 1957, Felice Le Monnier, pp. 197-225 (già in «Studi di filologia italiana» 13, 1955, pp. 259-296).

113 Questa notizia e tutte quelle riguardanti l’apostrofo sono state desunte dall’articolo apostrofo, di Silvia Demartini, (Enciclopedia dell'Italiano 2010), sul portale dell’Enciclopedia Treccani: http://www.treccani.it/enciclopedia/apostrofo, consultato il 3 Novembre 2017.

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parole fancul, che sta ovviamente per ‘fanciul’, e Celo per ‘Cielo’. Nell’ultimo caso si tratta, specifichiamo, della mancata vocale pseudo-diacritica e la lezione verrà affiancata, poco dopo e altrove nel testo, da quella più comune. Risulta, allora, impensabile, o quanto meno improbabile, che queste lezioni appena viste rappresentino un adeguamento grafico del suono velare /k/ nella pronuncia della lingua locale del copista. Inoltre, vediamo che in moltissimi altri casi, l’autore aggiunge alla normale lezione, la semivocale alta in funzione pseudo-diacritica, come si legge per la lezione

dicie per ‘dice’ e, da altre parti, inserisce la stessa funzione per le forme caratterizzate

dal suono palatale: disengnio, benegnio, disdengnio, sontengnio, rengnia. Di conseguenza, viene esclusa l’ipotesi che questi fenomeni grafici, siano il risultato di una diversa pronuncia nel dialetto dell’autore o della semi-cultura dello stesso; al contrario vanno interpretati come semplici indizi dell’instabilità ortografica della lingua nella sua epoca e in questo senso, non possono essere interpretati e considerati come delle forme ortografiche scorrette.

Così come non può, a nostro giudizio, essere considerato un errore culturale la sostituzione tra il grafema della <n> e quello della <m> all’interno di parola prima di due consonanti labiali, come nei casi di: inpresa, inpuse, obunbrato, tonba, menbra,

onbroso, senpiterno, poiché secondo la Grammatica Veneta114 di Silvano Belloni è una prassi del dialetto veneto, infatti: «davanti a “b” e “p” la “enne” sostituisce la “emme” dell’italiano». Come la mancanza di rinforzo della “q “con la “c velare” di “acqua che rientra nell’uso della lingua veneta”115 (troviamo nel testo solo le lezioni aqua e aque) e l’uso diffuso in tutte le occasioni trovate dei trigrammi –gng-, come nell’esempio di

benengno e –lgl-, per il quale bastino gli esempi volgle e molgle. Il primo nesso viene,

addirittura, utilizzato per la lezione vangnhe, dove si allarga alla rappresentazione della velare sonora /g/ in posizione post nasale. Solo per quest’ultimo caso si potrebbe, più facilmente, pensare a un errore di distrazione del copista-autore. I suoni palatali [ɲ] e [ʎ] sono resi costantemente con la soluzione arcaica -ngn-116 e -lgl-. Come è noto, l’uso di questi due trigrammi è estremamente comune nella fase di transizione dell’ortografia

114 Silvano Belloni, Grammatica Veneta, seconda edizione riveduta e corretta, Padova, 2009, https://aedobooks.com/wp-content/uploads/2015/02/Grammatica-Veneta.pdf, p. 24.

115 Ibidem.

116 Paolo Trovato, La prosa dell’“Arcadia” e degli “Asolani” in «Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento», Bologna, 1992, il Mulino, p. 88.

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italiana e verrà regolarizzato solo a partire dal XVI secolo, infatti, il suddetto simbolo per il suono palatale laterale tende a scomparire già durante il Cinquecento117. L’analisi di questo aspetto cronologico ci porta a fare le stesse considerazioni fatte per i casi precedenti e avvalora, quindi, l’idea che il manoscritto possa essere stato allestito all’interno del XVI secolo.

Oltre a questi aspetti, segnaliamo anche l’uso, singolo, della grafia <g(i)> in corrispondenza di <ghi>, consonante velare sonora /g/ del sistema toscano, nella lezione

girlanda. Sebbene non possiamo osservare tale fenomeno in altre lezioni, non si può

escludere che ciò rispecchi proprio quello descritto da Paolo Trovato a proposito del manoscritto Querini del Bembo118, ossia una manifestazione del sistema linguistico padano, che in questo luogo avrebbe, di conseguenza, letto: [ʤirlan’da].

2.1.2.4 I nessi latini: -pt-, -ct-, -ti- e ultimi aspetti grafici

Diversamente si spiega l’utilizzo quasi esclusivo della grafia latina per i nessi –pt- (ciptadini, aceptare, etc.,), -ct- (lecto, effecto, distructo, etc.,) e -ti- (stratiano, sententia,

gratia, etc.,) di cui parleremo meglio dopo nella parte dedicata al lessico e che

sembrerebbero, come i precedenti fenomeni grafici, scollegati dalla resa orale dell’autore. Ipotizziamo, infatti, che essi siano preferiti alle forme moderne per fattori essenzialmente stilistici. All’opposto, come abbiamo visto, sono connesse chiaramente alla pronuncia, le forme come allui, allei e simili, che rispecchiano il raddoppiamento fonosintattico che avviene nella lingua orale. Queste risultano marcate regionalmente, difatti, questo fenomeno non è presente nelle parlate settentrionali, per cui bisogna per questo singolo aspetto collocarlo a sud della linea la Spezia-Rimini. In alternativa, possiamo presupporre che abbiano agito fenomeni di attrazione letteraria.

Un’ultima tendenza, meno frequente e forse non solo grafica è il rafforzamento delle vocali tramite l’inserimento di una consonante palatale: /ʤ/. L’autore scrive, quindi, trogiano per ‘troiano’, lezione che si presenta accanto alla forma più comune, oppure stende ager per la forma etimologica: ‘aer’ (aria). Tuttavia, non abbiamo trovato una marca dialettale comune che possa spiegare questo fenomeno di palatalizzazione vocalica.

117 Migliorini, Op. cit., p.216.

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In conclusione, per quanto riguarda gli aspetti meramente grafici, segnaliamo la caduta della consonante –n a fine parola che avviene in rarissime occasioni. Nel nostro testo, infatti, leggiamo ma invece che ‘man’ (forma già apocopata di ‘mano’) e no che spesso sostituisce ‘non’. Per l’ultimo caso, essendoci moltissimi esempi contrari, si potrebbe trattare della semplice dimenticanza del titulus. In ogni caso, risulta veramente poco significativo questo aspetto grafico nell’analisi del nostro caso, poiché, com’è noto, in ambito poetico per questioni retoriche sono frequentissimi i fenomeni di troncamento e elisione delle parole.

Nel documento Gaia Russo (pagine 103-107)