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Il Collegio Etiopico di Roma da Benedetto XV a Pio

Nell’enciclica Maximum Illud326 Benedetto XV aveva prospettato una grande apertura missionaria quale orizzonte naturale per la chiesa cattolica, nonché un inedito interesse per il dialogo con le confessioni cristiane separate specialmente per le Chiese orientali, per le quali già nel 1917 aveva istituito uno speciale dicastero della Sede Apostolica327. Questa sua sensibilità missionaria traeva più di un motivo di ispirazione dal magistero del suo predecessore Leone XIII, che a suo tempo aveva promosso l’integrazione degli antichissimi riti Orientali -dal Greco all’Armeno, dal Siriaco al Copto-Alessandrino, dal Caldaico all’Etiopico-, nella comunione cattolica328.

In questo quadro di apertura per le chiese orientali come per la ancor più ampia tematica missionaria dei popoli non ancora evangelizzati, Benedetto XV aveva accettato la proposta del gesuita italiano Camillo Beccari -liturgista e orientalista nonché studioso di cose etiopiche- di restaurare e ridonare agli abissini sotto forma di un collegio329 l’antico ospizio a loro dedicato ma ormai in disuso, situato presso la chiesa di S. Stefano degli Abissini posta sul lato ovest del colle Vaticano330.

Il Papa si lasciò convincere così che questo antico seppure negletto complesso edilizio costituiva una preziosa testimonianza di come fossero radicate nei secoli le

326 Acta Apostolicae Sedis (AAS), annus XI, vol. XI, num. 12, 1919, pp. 437-455. 327

Benedetto XV istituì la Sacra Congregazione per le Chiese Orientali il 1° Maggio 1917, con il motu proprio Dei Providentis, cfr. AAS 9 (1917), pp. 529-531.

328Georges-Henri Ruyssen, Il Pontificato di Leone XIII. Rapporti con l’Armenia. Eduardo Soderini, Edito da

Georges Henri Ruyssen, 2010, p. 11.

329

ACO, Etiopi, prot. 328/ 28, f. 2.

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Papa Sisto IV Della Rovere (1471-1484) assegnò ai pellegrini provenienti dall’ Etiopia la Chiesa di S. Stefano Maggiore, antica sede del Capitolo della basilica vaticana, unitamente ad una casa-ospizio, situate sul lato posteriore della basilica di San Pietro di epoca costantiniana. Più tardi, papa Paolo III Farnese (1534-1549), fece restaurare ed ampliare l’ospizio; negli ultimi anni del suo pontificato il monaco etiopico Abba Tesfa Sion, residente nell’ospizio, pubblicò a Roma il Nuovo Testamento nella lingua liturgica etiopica Ghe’ez.

relazioni tra la Sede Apostolica e i sovrani etiopico-abissini331, e pertanto poteva essere nuovamente valorizzato.

In virtù di queste memorie l’antico ospizio sarebbe dunque divenuto un collegio destinato ad ospitare i più promettenti tra i giovani seminaristi etiopi, provenienti dai vicariati apostolici cattolici dell’Etiopia e dell’Eritrea per compiere i loro studi teologici a Roma. Al gesuita Beccari il pontefice chiese di redigere una prima bozza di regolamento che fu poi sottoposta a vari consultori della neonata Sacra Congregazione Orientale.

Costoro espressero un parere favorevole anche se uno di essi, Bernardino Klumper francescano dei frati minori, raccomandò una certa vigilanza sui giovani seminaristi che sarebbero giunti dall’Etiopia e dall’Eritrea, perché le molte novità della vita europea non li distogliessero dalla formazione religiosa e dal loro stile di vita abissino, che invece andava preservato332. Al primo vicario apostolico dell’Eritrea il vescovo cappuccino Camillo Carrara, Benedetto XV affidò l’incarico di individuare alcuni suoi confratelli missionari da inviare a Roma per la gestione della nuova struttura formativa.

Furono così nominati il cappuccino lombardo Valdimiro da Grignano rettore, e il sacerdote eritreo Teclè Mariam Cahsay direttore spirituale. Quest’ultimo giunse a Roma il 30 Settembre del 1919 con i primi otto seminaristi, iniziando così l’attività del nuovo collegio anche se in via sperimentale: “…per accertarsi cioè se i giovani seminaristi potevano assuefarsi al clima di qui…”333. Benedetto XV volle dare un certo

331 Le relazioni tra la Sede Apostolica e l’Abissinia-Etiopia registrano documenti che datano almeno dal XII

secolo, cfr. Lettere tra i Pontefici Romani e i Principi Etiopici (sec. XII-XX), a cura di Osvaldo Ranieri, Collectanea Archivi Vaticani, 55, Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano, 2005.

332 Archivio della Congregazione per le Chiese Orientali (ACO), serie Etiopi, prot. 432/ f. 11. 333 Idem

rilievo all’evento con una cerimonia di inaugurazione solenne il 1 Ottobre 1919 e il 17 Ottobre ricevette in udienza privata formatori ed alunni334.

Nonostante il carattere prettamente ecclesiastico con cui da parte pontificia si intese connotare l’avvio della rinnovata istituzione, da parte del governo italiano si guardò all’iniziativa con un misto di curiosità e preoccupazione, anche se pubblicamente non furono manifestati dissensi.

Si cercò anzi di ostentare un certo spirito di collaborazione, come fece il ministro delle colonie Gaspare Colosimo, che poco prima della fine del suo mandato volle assicurare il vicario apostolico Carrara della disponibilità del governo a fornire sei borse di studio da duemila lire ciascuna per il collegio, nonché dalle dieci alle quindici mila lire per i lavori di restauro ed adattamento del vecchio ospizio335.

Ma nonostante i dispendiosi lavori di restauro, ben presto le differenze climatiche e la forte umidità del luogo unite alle perduranti condizioni precarie dell’antico edificio, finirono per costituire un serio problema all’adattamento dei giovani etiopi, tanto che dopo appena pochi mesi la gran parte di loro si era già ammalata, anche con lunghe degenze ospedaliere.

Addirittura poco meno di un anno dopo moriva uno di loro, Ghebrè Egzabier Emmetù336, e per altri due veniva deciso il rimpatrio per seri motivi di salute337. I problemi di adattamento climatico però non erano i soli per la nuova istituzione formativa, si erano manifestati infatti dei forti conflitti di ordine relazionale -anzitutto tra il padre rettore cappuccino e il direttore spirituale abissino-eritreo, nonché tra gli studenti e i superiori, che si andavano sempre più sedimentando.

334 Debre Keddus Estefanos, The Pontifical Ethiopian College in the Vatican City, Roma 1971, p. 7. 335 ACO, serie Etiopi, prot. 432/ f. 11.

336

ACO, serie Etiopi, prot. 432/ f. 1.

Ad alimentare questo tipo di dissidi c’era un’incomunicabilità tra due mondi culturali ed ecclesiali alquanto diversi: da un lato quello italiano, o più precisamente quello dei francescani cappuccini lombardi e piemontesi chiamati a gestire il collegio, e dall’altro quello etiopico-abissino degli alunni e del loro direttore spirituale. Sin dall’inizio dell’attività si erano riproposte in terra romana quelle tensioni tra missionari ed indigeni che proprio in quegli anni condizionavano pesantemente l’attività missionaria cattolica in Eritrea e in Etiopia, come si è potuto documentare nei paragrafi precedenti.

Il rettore Valdimiro da Grignano della provincia cappuccina della Lombardia non aveva lavorato nelle missioni d’Etiopia e d’Eritrea, anche se conosceva diversi cappuccini impegnati in quella terra e dunque quanto meno aveva sentito parlare delle loro esperienze apostoliche e dei metodi di evangelizzazione usati. Si trattava di un approccio missionario non di rado tendente ad enfatizzare il legame culturale con la madre patria Italia e più in generale con la tradizione ecclesiastica latina, che mirava cioè a convertire i neofiti al rito Latino-Romano, dal momento che la fede ortodossa-etiopica spesso veniva assimilata ad una vera e propria eresia.

Era pertanto una prassi missionaria non scevra da toni filo nazionalisti, nonostante il nuovo approccio più aperto e rispettoso che il magistero dei recenti pontefici romani aveva definito sempre meglio -anche tramite l’attività dei dicasteri vaticani più direttamente coinvolti come la Congregazione Orientale e Propaganda Fide- , invitando sì a cattolicizzare l’Etiopia ma non a latinizzarla.

E difatti l’attività missionaria in Africa Orientale evidenziava una certa resistenza e fatica a recepire queste nuove direttive, al di là delle dichiarazioni ufficiali di filiale e devota obbedienza. Ciò esponeva i missionari impegnati in quelle terre -

soprattutto come s’è visto i cappuccini italiani- a molte tensioni ed incomprensioni, pur tenendo presente che si trovavano ad agire in un contesto connotato dalla ultramillenaria presenza della Chiesa ortodossa etiopica di fede “monofisita”338 -soprattutto tra le etnie Amhara e Tigrina- Ma i problemi non mancavano con gli stessi cattolici, che ricordiamo erano suddivisi in cattolici di rito Latino -originati dall’attività del Massaja e dei cappuccini-, e cattolici di rito Etiopico-Ghe’ez - nati dall’apostolato di Giustino de’ Jacobis e successivamente dei suoi confratelli lazzaristi-.

Tornando dunque agli alunni del Pontificio Collegio Etiopico di Roma, pur essendo costoro tutti cattolici provenivano da una realtà in cui l’appartenenza al rito Etiopico non costituiva solamente una variante della più vasta comunione di fede cattolica, bensì rappresentava sin dall’antichità, e sempre più inequivocabilmente con l’avanzare del contenzioso italo-etiopico, un elemento irrinunciabile di una propria identità sociale e politica etiopico-eritrea-abissina.

Benedetto XV aveva però inteso istituire una comunità di studenti candidati ad un sacerdozio non condizionato da particolarismi etnico-nazionalisti, bensì aperto alla dimensione universale della Chiesa, da lui particolarmente sentita ancora di più alla fine della prima guerra mondiale, che in modo sconvolgente aveva manifestato gli effetti nefasti dei nazionalismi totalizzanti.

Dalla Congregazione Orientale -da cui dipendevano i seminaristi- decisero di mettere al corrente il Papa delle tensioni tra formatori e studenti. Questi però non si accontentò di una nota informativa generica, ma chiese informazioni dettagliate anzitutto

338 La Chiesa Ortodossa etiopica, professava una fede cristiana monofisita, o miafisita. Questi termini

vogliono indicare che in Gesù Cristo le due nature, la umana e la divina, sono unite in un’unica natura,

“senza mescolanza, senza confusione, senza alterazione” (professione di fede espressa nella liturgia

ortodossa etiopica ). Di fatto quindi è una fede cristiana non dissimile da quella professata dalla Chiesa cattolica e le altre Chiese che si riconoscono nella dichiarazione dogmatica calcedonese: in Gesù Cristo coesistono e sussistono le due nature umana e divina. Cfr. Abba Ayala Takla-Haymanot (Mario da Abiy- Addi), The Ethiopian Church and its christological doctrine. Graphic Printers, Addis Ababa 1982, pp. 54-90.

al cardinale Tacci Porcelli e poi allo stesso rettore Valdimiro da Grignano. Quest’ultimo d’ora in poi venne convocato periodicamente nello studio del pontefice per riferirgli direttamente l’evolversi della situazione.

Apparentemente il pretesto che aveva scatenato le ostilità era stata la scarsa qualità del cibo, almeno a quanto riferivano i seminaristi. Benedetto XV diede disposizione affinché non fosse più il rettore a stabilire il menu, bensì il direttore spirituale Teclè Mariam Cahsay. Per disposizione del Papa ogni mattina costui doveva recarsi dal cuoco del collegio per ordinare “ciò che meglio credeva” per la mensa del giorno. Una misura però che non contribuì a stemperare le tensioni, anche se si giunse a sostituire due cuochi in meno di due anni339.

Il rettore Valdimiro da Grignano decise allora di rassegnare personalmente al Papa le proprie dimissioni dopo meno di due anni dall’inizio dell’incarico. Pertanto la Congregazione Orientale richiese al vicario apostolico dell’Eritrea un nuovo frate cappuccino in grado di sostituire padre Valdimiro. Questa volta però domandava un soggetto che avesse un’ esperienza diretta della missione tra quelle popolazioni da cui provenivano i seminaristi. Venne scelto così Camillo da Torino missionario in Eritrea, che tra l’altro un anno prima era stato ospite del Collegio Etiopico in attesa di partire per la missione.

Questi portò con sé a Roma quattro nuovi seminaristi che si andarono ad aggiungere ai quattro rimasti. Purtroppo però il cambio di superiore non apportò i miglioramenti sperati. A ciò certamente contribuiva il carattere intransigente di questo missionario, che faticava a scorgere nelle richieste e rivendicazioni degli studenti un riflesso di quelle tensioni che si manifestavano in terra etiopica-eritrea, sia quelle più

inerenti al rito Ghe’ez che quelle riguardanti la vita più ordinaria tra missionari e indigeni.

Infatti molto più della controversia sul cibo ciò che generava le tensioni era la mancata applicazione del rito Etiopico e dell’antica lingua liturgica Ghe’ez nelle celebrazioni comunitarie del collegio, se non in poche occasioni particolarmente solenni. Purtroppo era un po’ nella tradizione cappuccina sin dai tempi del Massaja il non dare troppo credito a tutto ciò che avesse a che fare con la tradizione ortodossa etiopica, pur

trattandosi di un rito che la Chiesa di Roma aveva accettato. In questo scenario il tentativo di Camillo da Torino e degli altri cappuccini di

ricomporre il conflitto si risolse in una deriva autoritaria e priva di dialogo: anzitutto chiesero la rimozione del direttore spirituale Teclè Mariam Cahsay, ritenuto il fomentatore delle tensioni e del malcontento tra gli alunni.

Il piglio autoritario di questi missionari non va però interpretato solo in chiave di una deriva dispotica di singoli individui, dal momento che in missione i cappuccini non erano abituati, o più precisamente non erano stati formati a dare spazio e dignità alle richieste dei nativi, tanto meno al rito Etiopico, giudicato da essi un indebito sincretismo paganeggiante diffuso irresponsabilmente dai lazzaristi, a cominciare dal de’ Jacobis. Loro infatti avevano sempre percorso un’altra strada -pensando di rifarsi direttamente al Massaja-, identificando l’evangelizzazione degli etiopi con la loro latinizzazione. Non considerando però che Guglielmo Massaja pur avendo sì proceduto alla latinizzazione delle popolazioni convertite, non era però giunto a disprezzare o svalutare in modo così evidente e conflittuale la tradizione ortodossa abissina, come invece faceva la gran parte di loro.

Teclè Mariam Cashay però solo dopo lunghe trattative accettò di lasciare il proprio posto, a condizione di essere inviato a Gerusalemme in qualità di superiore del locale ospizio abissino-cattolico. Alla fine venne accontentato e lasciò Roma il 20 Maggio 1923340. La sua partenza coatta tuttavia fomentò ulteriormente il malumore tra i seminaristi, che nel frattempo si erano coalizzati nel chiedere l’applicazione del rito Etiopico come previsto dal Papa, quale chiara espressione della volontà di dialogo della Chiesa cattolica verso quella etiopica. Nella prassi quotidiana però il nuovo rettore continuava ad impedire le celebrazioni in Ghe’ez, a tutto vantaggio di quelle in rito Latino, di fatto considerato il solo legittimo.

Il 26 Gennaio 1922 morì Benedetto XV. La notizia provocò negli studenti abissini un profondo sconforto dal momento che era venuto a mancare il loro grande protettore. Ma il successore Pio XI mostrò ben presto un vivo interesse per il Collegio Etiopico, smentendo anche chi parlava già di una “inopportunità” di questa istituzione all’interno delle mura vaticane, prospettandone un trasferimento.

Pio XI confermò la consuetudine di ricevere periodicamente il superiore del collegio. Questi nel Luglio 1922 gli fece pervenire una “relazione morale degli alunni” in cui evidenziava i risultati positivi che, a suo dire, molti di loro avevano comunque conseguito: dai buoni voti alla buona condotta, alle migliorate condizioni di salute rispetto agli inizi. Dalla relazione emerge però la preoccupazione di Camillo da Torino di nascondere al nuovo Papa quel groviglio di conflitti -o quantomeno di sminuirne la portata-, che si trovava a dover gestire oramai quotidianamente.

Padre Camillo cercava altresì di non mettere in cattiva luce l’ordine cappuccino a cui era stata affidata la cura del Collegio Etiopico oltre che lui stesso, chiamato a porre

340 ACO, serie Etiopi, prot. 229/31.

rimedio alla gestione del suo confratello predecessore. Intanto c’era un nuovo arrivato, il novello sacerdote etiopico Ghebrè Mariam proveniente da Propaganda Fide dove aveva vissuto da studente di teologia. Gli era stata concessa ospitalità presso il Collegio Etiopico dovendo restare a Roma per studi di specializzazione. Tuttavia rifiutò l’incarico di nuovo direttore spirituale degli alunni propostogli dal Segretario dell’ Orientale, nonché dallo stesso Camillo da Torino341. Accettò invece di svolgere questo incarico un altro cappuccino, padre Sisto della provincia cappuccina di Venezia, per circa due anni. Oltre ai due Papi fondatori già nel primo periodo di attività il Collegio fu

oggetto di visite di personaggi d’eccezione, soprattutto etiopi od eritrei. Nel Giugno 1924 ci venne Ras Tafari Maconnen principe ereditario e futuro Negus d’Etiopia Hailé Sellassie I, in quei giorni a Roma e ospite di Pio XI. In occasione della sua visita Tafari fu testimone di un improvviso quanto inaspettato episodio di patriottismo da parte dei seminaristi. Nonostante il ferreo protocollo imposto da Camillo da Torino, seminaristi e preti abissini riuscirono ad esporre ed issare la bandiera etiopica col Leone di Giuda in onore del principe ereditario.

Avevano così manifestato il loro forte attaccamento alla propria terra, l’Etiopia, che da Roma percepivano come un’unica patria, pur essendo quasi tutti provenienti dalle regioni costiere del nord, che ormai da trentacinque anni costituivano la colonia italiana d’Eritrea.

Secondo quanto affermato dall’ex alunno del Collegio Goitom Pietros su La Voce dell’Eritrea342

, l’episodio venne raccontato a non meglio identificati rappresentanti governativi italiani, i quali non mancarono di esprimere il loro -ufficioso- disappunto

341 ACO, serie Etiopi, prot. 432/ 48.

che giunse fino al Papa. Questi però non diede soddisfazione ai governanti italiani, plaudendo -pur in tono discreto- a questa simbolica seppur modesta iniziativa.

Nonostante le note tensioni il numero degli alunni andò aumentando e il rettore ne approfittò per chiedere di essere affiancato da un vice. E il 21 Ottobre 1926 giunse Mauro da Leonessa con l’incarico di vice rettore oltre che quello di “ripetitore” di filosofia e di teologia.

Missionario per tredici anni in Eritrea Mauro da Leonessa come ricordato precedentemente, si era distinto per i suoi studi su diverse culture e lingue etiopiche con delle pubblicazioni importanti come la “Grammatica analitica della Lingua Tigrai”343, partecipando anche a convegni di alto livello su questi temi. Al Collegio giunse anche un nuovo direttore spirituale, abba Hailè Mariam, che per molti anni aveva svolto il medesimo incarico nel seminario maggiore fondato dai cappuccini a Cheren.

Ma a meno di sette anni dall’apertura occorreva costruire una nuova sede, come spiegò Camillo da Torino a Pio XI nell’udienza concessagli il 10 Luglio 1926, dal momento che la vecchia costruzione restava insalubre nonostante i lavori di restauro effettuati appena pochi anni prima.

Il Papa si espresse favorevolmente all’iniziativa, considerando che l’insalubrità del vetusto edificio, di epoca costantiniana, aveva favorito numerosi problemi di salute nei seminaristi condizionandone negativamente l’esistenza. Pio XI affidò l’incarico dei lavori all’ingegnere ed architetto vercellese Giuseppe Momo e all’impresa di costruzioni

343 P. Mauro da Leonessa, Grammatica Analitica della Lingua Tigrai.. cit.; Dissertazioni Cronologiche:cronologia e calendario etiopico, Officine Grafiche Mantero, Tivoli 1934.

di Leone Castelli, entrambi fedeli interpreti ed esecutori della sua visione urbanistica, peraltro molto vicina allo stile architettonico mussoliniano344.

La nuova sede venne inaugurata nel 1930 dopo due anni di lavori e certamente risolse i problemi legati all’umidità che si erano avuti nell’edificio precedente, anche se non bastò a risolvere i persistenti conflitti tra superiori ed alunni. Il motivo del contendere era sempre la mancata applicazione della liturgia etiopica, che fungeva ormai da porta bandiera delle sempre più consapevoli ed insistenti rivendicazioni abissinofile dei seminaristi e dei sacerdoti indigeni lì residenti.

In proposito risulta alquanto singolare che anche per delle celebrazioni di rilievo quale ad esempio fu l’ordinazione sacerdotale di due alunni, dai vertici della Congregazione Orientale -in specie dal cardinale Sincero- veniva ordinato che si svolgessero in rito Latino-Romano e non nell’Etiopico. E ciò ai piedi del Palazzo Apostolico Vaticano, casa del Papa, contravvenendo palesemente a quelle che erano le intenzioni e le direttive pontificie in merito345.

In questo quadro già di per sé turbolento e contraddittorio, si venne ad inserire un altro protagonista che avrebbe giocato un ruolo di ulteriore messa in discussione del modello di formazione dei cappuccini. Si trattava del nuovo direttore spirituale dei seminaristi, abba Tecle Mariam Semharay Selim, apprezzato studioso dell’antica liturgia etiopica trasferitosi a Roma, tra l’altro su invito dello stesso Camillo da Torino.

Questi infatti gli aveva scritto una lettera nel Gennaio 1926, manifestandogli oltre la stima e l’apprezzamento per la sua competenza, anche la proposta di istruire convenientemente gli alunni nel rito Etiopico. E’ da notare che nella medesima lettera

344 Pio XI si meritò l’appellativo di “Papa costruttore” per le molte e significative opere architettoniche