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Le richieste del clero cattolico eritreo

Nel 1927 in Eritrea c’erano 59 sacerdoti eritrei quasi tutti appartenenti alle prime famiglie cattoliche della regione dell’Acchele-Guzai, tra di essi anche dei convertiti dalla Chiesa ortodossa. A parte le poche eccezioni prima ricordate dei cappuccini impegnati tra gli autoctoni, i preti indigeni erano i soli ad occuparsi delle popolazioni locali. Vivevano nei villaggi, condividendo le condizioni di vita degli indigeni suscitando la stima delle popolazioni. Essendo praticamente tutti sacerdoti di rito Etiopico-Ghe’ez, molto del loro tempo lo impiegavano nelle lunghe ed articolate liturgie di quel rito, la cui durata era ben maggiore di quelle del rito Latino. Va pure ricordato che durante l’anno dovevano celebrare circa duecento festività del calendario etiopico, con liturgie della

208 Idem, f. 20.

209 Sulla complessa e delicata visita di Lépicier nei due vicariati d’Eritrea e d’Abissinia lo storico dei cappuccini

Metodio da Nembro nel suo volume La Missione dei minori cappuccini in Eritrea…cit., alla pagina 113 scrive: “(Mons. Cattaneo)…accompagna S. Ecc. Mons. Lépicier, Visitatore apostolico, a tutti i centri più importanti del

durata media di quattro ore. A fronte della loro vicinanza al popolo, la maggior parte di essi soffriva però di una formazione culturale alquanto scarsa.

Inoltre secondo la rigida tradizione abissina, ognuno di essi doveva provvedere alle necessità materiali dei familiari nonché delle tre-quattro persone al proprio seguito: una domestica, che spesso era una suora indigena o anche una ennadiè, donna non sposata dedita al servizio della Chiesa; di solito c’era anche una ragazza che aveva il compito di provvedere all’acqua, alla legna e alla preparazione del pane di durra; un contadino addetto al lavoro nei campi e all’acquisto dei cereali; infine un ragazzo- chierichetto per gli spostamenti più lontani con il compito di badare pure al mulo del sacerdote 210.

Dai dialoghi con questi sacerdoti Lépicier rilevò come fossero accomunati da un forte senso di solidarietà contro i missionari cappuccini, soccorrendo materialmente chi tra loro era stato sospeso per motivi disciplinari di vario genere e si trovava senza mezzi di sussistenza211. La loro condizione economica generalmente era piuttosto precaria, anzitutto a causa della scarsa fertilità delle terre di cui potevano disporre -visto che quelle più fertili erano state in gran parte confiscate dai coloni italiani-, sul cui sfruttamento dovevano pure pagare una tassa all’amministrazione coloniale212

.

Dal vicario apostolico i preti indigeni ricevevano un sussidio mensile che variava secondo la quantità di messe celebrate. Raggiungevano 180 lire se celebravano ogni giorno del mese. Una cifra spesso insufficiente a soddisfare le numerose incombenze materiali nei confronti delle proprie famiglie e del personale a loro servizio. Per questo

210

ACO, Op. cit., f. 24.

211 Idem, f. 25. 212 Idem

apprezzarono molto l’intervento, pur episodico, di Pio XI in loro favore -a seguito della visita di Lepicier- con cui destinava 500 lire ad ogni sacerdote abissino213.

Pur esprimendo pesanti riserve sull’operato dei cappuccini italiani, Lépicier giudicò ingenerose le aspre critiche dei preti indigeni verso i missionari, manifestando così quel pensiero marcatamente paternalistico e per certi versi sprezzante verso le istanze indigene, tipico di molti europei dell’epoca, che fossero esponenti ai più vari livelli della compagine coloniale o di quella ecclesiastico-missionaria.

Tutti costoro infatti non vedevano favorevolmente qualsivoglia tipo di protesta da parte dei nativi: “Poco riconoscenti dei sacrifici dei Padri… né tengono conto alcuno del sacrificio che un europeo che vive fra di loro deve pur fare … vorrebbero che ogni missionario vivesse presso a poco come ha vissuto il venerabile de Jacobis, il cui nome hanno sempre sulle labbra”214.

Infatti i missionari come de’ Jacobis -di per sé abbastanza rari e di solito emarginati o guardati con diffidenza- restarono dei casi isolati; o come dei soggetti pur degni di ammirazione ma che tuttavia, al di là delle retoriche di circostanza, non costituivano affatto un esempio da seguire. La vicenda umana e spirituale del de’ Jacobis in realtà era considerata non praticabile dalla gran parte dei missionari -per lo stile ed il livello di vita tutto centrato su una forte tensione ascetica e radicale rinuncia dei beni materiali-, nonostante le popolazioni abissine ne conservassero un vivo ricordo.

Si comprende allora come nella sua relazione Lépicier giungesse a controbilanciare le denunce dei sacerdoti autoctoni con quella serie di luoghi comuni sugli indigeni di molti ambienti coloniali del tempo, in cui anche i preti locali apparivano

213 Idem, f. 26. 214 Idem, f. 27.

tutti molto “indolenti” e “ingrati”215, se avevano l’ardire di criticare un modo di vivere la missione per certi aspetti abbastanza affine a quello dei coloni: dalla disponibilità di beni materiali al personale di servizio da gestire e comandare “senza troppe storie”...; se inoltre si attendevano maggiori aiuti finanziari per diminuire quella distanza che li separava dai loro confratelli bianchi.

Ma nonostante tutto ciò, il visitatore apostolico non poté non sottoporre alla Congregazione Orientale la serie di richieste puntuali e definite espresse dai sacerdoti indigeni: “all’unanimità e con insistenza (chiedono) .. un trattamento di fratellanza, e rispettivamente di figliolanza, conforme all’insegnamento dell’Enciclica del S. Padre Pio XI Rerum Ecclesiae che ben conoscono, e che vogliono osservata specialmente”216. Ai superiori dell’Orientale sarebbe così risultato in modo inequivocabile il punto nevralgico delle rivendicazioni indigene, e cioè quell’anelito all’uguaglianza con i missionari bianchi. Concretamente ciò comportava il soddisfacimento di una lunga serie di petizioni: ad esempio venire ammessi alla loro mensa quando si recavano mensilmente a trovarli per ritirare le offerte ed il vino per le celebrazioni eucaristiche; ricevere un posto dignitoso per dormire durante le visite alle missioni217; avere il permesso di celebrare la Messa sui medesimi altari dei missionari “senza umilianti esclusioni”218

; essere incoraggiati nel loro ministero apostolico “Con un vero spirito di carità, di stima, e rispetto reciproco”219; un maggior coinvolgimento nelle vicende della missione “facendoli prender parte a ciò che riguarda il progresso, l’andamento, l’interesse della loro Chiesa”220

. 215 Idem 216 Idem, f. 28. 217 Idem 218 Idem 219 Idem 220 Idem

Inoltre chiedevano di essere aiutati presso il governo coloniale affinché gli venissero accordati gli stessi diritti legali e le esenzioni dai tributi di cui godevano i missionari, nonché la facoltà di giudicare sulle questioni religiose-matrimoniali, di poter disporre di certi terreni -in termini di semi feudalità- come l’amministrazione coloniale permetteva secondo le consuetudini locali, sia ai preti ortodossi che ai cadì musulmani221. Le richieste includevano pure il miglioramento delle loro abitazioni -spesso assai precarie-, come degli edifici di culto riservati ai cattolici indigeni: che fossero resi più decorosi e in muratura. I preti indigeni prendevano pure le difese delle suore indigene, che con l’arrivo del vicario apostolico Cattaneo erano state rimandate ai loro villaggi di origine senza alcuna tutela e che quindi andavano “riunite ed organizzate in un convento”222

.

Per il seminario di Cheren prima ancora delle ristrutturazioni edilizie chiedevano un miglior trattamento dei seminaristi e che questi fossero seguiti anche da un vice direttore indigeno -“al quale i chierici possano ricorrere con più fiducia”223-, alle dipendenze esclusive della Santa Sede e non del locale vicario apostolico; inoltre che ci fosse del personale docente e formatore più preparato224.

Il seminario era una delle realtà nevralgiche del lavoro missionario in Eritrea e da poco si era apparentemente risolto l’ennesimo grave dissidio che aveva visto quasi tutti i seminaristi -eccetto due- contestare duramente i formatori cappuccini a causa “…dell’eccessivo rigore e di mancanza di vitto” 225

. Avevano abbandonato in massa il

221 Idem, f. 29. 222 Idem 223 Idem 224 Idem, f. 30. 225 Idem, f. 33.

seminario e solo dopo sei mesi di assenza, una volta sostituiti i vecchi superiori -tra cui il tanto contestato padre Eugenio da Milano- avevano chiesto ed ottennero di rientrare226. A tal proposito Lépicier volle evidenziare però lo spirito di “…insubordinazione che mi fa temere che un giorno non abbiano essi pure a dare dei dispiaceri ai Missionari”227

, come ad esempio abbandonare la via ecclesiastica, una volta acquisita una certa formazione culturale, per cercare un impiego nell’amministrazione coloniale. Tale possibilità era infatti assai ambita dai ben pochi ragazzi eritrei che potevano assurgere ad una formazione culturale minimamente superiore, che poi erano solo quelli ammessi in seminario dal momento che le direttive coloniali italiane -anche in questo non difformi da quelle di altre esperienze coloniali europee in Africa Nera-, prevedevano solo un’istruzione elementare, o al più professionale.

I preti eritrei chiedevano anche l’introduzione presso le loro popolazioni dei “diritti di stola a favore del parroco” come per i missionari, visto che ancora “in occasione di mortorii o di matrimoni” non avevano la possibilità di ricevere altre offerte che non la pelle delle vacche uccise in quelle circostanze228.

Su questa moltitudine di richieste Lépicier volle evidenziare alla Congregazione Orientale che non tutti i preti indigeni si erano espressi allo stesso modo: quelli dei distretti di Cheren, dell’Hamasien e del Seraé chiedevano la più completa autonomia, con un proprio prefetto apostolico indigeno direttamente dipendente dalla Santa Sede e non dai locali vicari apostolici (che fin allora erano stati sempre dei frati cappuccini). C’erano poi i preti dell’ Acchele-Guzai e dello Scimezana che pur sostenendo la necessità di una certa autonomia ne mitigavano però la portata, chiedendo solo un pro vicario indigeno che fosse alle dipendenze del vicario apostolico di Asmara.

226

Idem

227 Idem 228 Idem, f. 29.

Tutti comunque sottolineavano la necessità di avere un proprio superiore indigeno che avesse una vera giurisdizione e “non com’è attualmente un puro titolo”, in modo da non esser più soggetti all’arbitrio “del Missionario che sta a capo del distretto, e che li manda quà e colà a suo talento e troppo frequentemente”229. C’era poi la richiesta non infrequente di essere ammessi negli ordini religiosi degli italiani, nonché l’introduzione della vita monastica cattolica nella missione, vista l’antica e feconda tradizione monastica ortodossa etiopica.

Il clero locale chiedeva pure la diversificazione dei missionari e delle suore, non esitando a criticare apertamente il regime di monopolio dei cappuccini, come nell’ambito femminile quello delle suore di S. Anna, una congregazione religiosa italiana impiantatasi in Eritrea, anche se a quasi esclusivo vantaggio delle comunità di coloni italiani: “…hanno per troppo lunga esperienza provato che i Padri Cappuccini e le Suore di S. Anna non fanno per loro… ebbero prima per Missionari i Padri Cappuccini della Provincia Romana, poi quella della Lombardia, e la Missione, dicono, è andata di male in peggio, e sempre in maggior decadenza dopo che la lasciarono i Padri Lazzaristi, che rimpiangono ancora …”230

.

Chiesero a Lépicier di adoperarsi affinché giungessero nuovi missionari come i salesiani per le scuole e per l’educazione dei ragazzi in generale, oppure i gesuiti di cui si conservava ancora la memoria presso molte comunità cattoliche dell’Etiopia231

. La stroncatura dei cappuccini unita alla nostalgia dei lazzaristi francesi da parte del clero indigeno non dovette dispiacere a Lépicier, come si può rilevare da alcune sottolineature della sua relazione. In fondo la vedeva come una rivincita della sua Francia dopo le umilianti espulsioni del 1894 e del 1911.

229

Idem, f. 30.

230 Idem 231 Idem