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Ribaltamento: l’appropriazione del termine ‘meritocrazia’ da parte della retorica neoliberista

L’ambiguità, la distorsione e il ribaltamento dell’accezione critica

2.3. Ribaltamento: l’appropriazione del termine ‘meritocrazia’ da parte della retorica neoliberista

Fino ad ora, abbiamo visto come la genealogia del termine ‘meritocrazia’ sia stata caratterizzata da un intento critico, condiviso, nelle origini, sia dall’ala socialista e socialdemocratica sia dell’ala più conservatrice del pensiero economico-politico. Abbiamo visto, poi, come Bell abbia teoricamente ribaltato, da una posizione socialdemocratica (in quanto un forte intervento statale, per quest’ultimo, rimane necessario al fine di mantenere la stabilità di un sistema che premia le differenze individuali), l’originale accezione distopica della proposta di Young. Tuttavia, il pensiero di Bell, pur aprendo la strada verso una concezione di ‘meritocrazia’ che si sposi con l’etica neoliberista, non pone la questione del ‘merito’ senza, almeno in parte, problematizzarla dal punto di vista teorico e pratico; la proposta di Bell si focalizza su una “giusta meritocrazia” (Bell, 1973: 64), proprio perché il sociologo americano resta, in qualche modo, consapevole dei rischi di degenerazione a cui l’impianto meritocratico potrebbe andare incontro.

Il passo decisivo, sul piano teorico, per descrivere la meritocrazia in termini puramente neoliberisti, viene proposto, negli anni Novanta, da Adrian Wooldridge13. Nel 1995, Wooldridge pubblica un pamphlet per la Social Market Foundation, intitolato “Meritocracy and the ‘Classless Society’”. Come rileva Littler (2013, 2017), Wooldridge propone una visione della meritocrazia che si oppone fortemente alle nozioni dell’egualitarismo socialdemocratico: in particolare, il giornalista americano si occupa di elencare i benefici che scaturirebbero dalla dismissione o dal drastico ridimensionamento di tutta una serie di misure prettamente welfariste (come, ad esempio, i sussidi allo studio o gli aiuti statali per fronteggiare i costi abitativi delle famiglie in difficoltà).

Il welfare state diviene, nelle parole di Wooldridge, un vero e proprio ostacolo contro la realizzazione di una società meritocratica: l’intervento paternalista dello Stato, come avrebbe detto – in altra sede – Tocqueville (1835–40), arresta gli individui

13 Adrian Wooldridge è uno storico americano, laureato presso l’Università di Berkley, giornalista

ed editorialista del The Economist (fonte: http://mediadirectory.economist.com/people/mr-adrian- wooldridge/ – consultato il 20 novembre 2018).

39 in una sorta di infanzia in cui il loro valore intrinseco e i loro talenti naturali non possono pienamente dispiegarsi.

Non a caso, Wooldridge scrive in un periodo di forte disillusione nei confronti del

welfare state, uscito (per usare un eufemismo) non indenne dagli attacchi ideologici e

pratici delle politiche di Reagan negli Stati Uniti e, in Gran Bretagna, da quelle della Thatcher (sulla crisi del welfare state, si vedano, ad esempio: Beck, 2000; Castel, 2011; Esping-Andersen, 1996; Ferrera, 1984, 2007; Habermas, 1986; Huber & Stephens, 2010; Wacquant, 2000). Negli anni Novanta, tornano attuali i criteri della

less eligibility (cfr. Sparks, 1996) e il concetto di ‘meritevole’ inizia a essere applicato

anche nella sua declinazione contraria: gli immeritevoli sono responsabili del proprio fallimento – e lo Stato, dunque, è sollevato dal dovere morale dell’aiuto. La meritocrazia estende il suo dominio ideologico oltre al simbolismo dell’ascesa e si fonde drammaticamente con il suo inevitabile contrappeso: l’etica individualista (di origine protestante, direbbe Weber [1904–05]) si estremizza in uno slancio fatalista, in cui ognuno viene radicalmente responsabilizzato per gli esiti del proprio destino.

Come abbiamo visto nel paragrafo 2.1, in “The Rise of the Meritocracy” (Young, 1958: 123), Young parla della nudità psicologica in cui vengono lasciati coloro che non hanno avuto accesso all’élite della meritocrazia: gli uomini non “…devono forse

ammettere di avere una posizione inferiore non, come nel passato, perché gli venivano negate le possibilità, ma perché sono inferiori? Per la prima volta della storia umana l’uomo inferiore non ha a portata di mano alcun sostegno per il suo amor proprio.” Il

ragionamento di Wooldridge, quasi quarant’anni dopo la pubblicazione del libro di Young, sembra proprio fare eco a questo passo. Una volta stabilito che il ‘merito naturalizzato’, senza interrogarsi ulteriormente riguardo alla sua costituzione culturale, è il criterio allocativo moralmente giusto da seguire in una società capitalista e altamente competitiva, ne consegue logicamente che gli uomini sono gli unici responsabili del proprio fallimento; e che lo Stato non deve assumersi il compito di trovare un rimedio alle conseguenti disuguaglianze.

Lo spirito del neoliberismo, nell’accezione foucaultiana del termine, plasma e dirige il flusso dello sviluppo politico; il quale, a sua volta, forgia il bìos del corpo sociale attraverso la costituzione di schemi di verità che vengono incorporati dai

40 singoli individui (Foucault, 2008). Il neoliberismo assoggetta la politica al diktat dell’economia finanziaria e non c’è più spazio per un welfare state che si fa sempre più dispendioso e che sembra gravare insostenibilmente sui bilanci pubblici. L’ideologia meritocratica (come nota anche Littler, 2017), in questo modo, diviene imprescindibile per portare a compimento la dismissione di tanta parte dello stato sociale: quali responsabilità avrebbe, infatti, lo Stato, nei confronti dei destini individuali – se, formalmente, vengono garantite a tutti le stesse possibilità di intraprendere una carriera lavorativa redditizia? Non importa il punto di partenza: il metro di giudizio del valore delle persone si cristallizza sul loro punto di arrivo.

Si evidenzia, in questa divisione manichea tra meritevoli e immeritevoli, l’eco della lezione weberiana sullo spirito del capitalismo e l’etica protestante-calvinista (Weber, 1904–05). Lo Stato non ha il dovere di salvare nessuno. Il destino – prima predeterminato dal volere di dio – adesso è nelle mani degli uomini; l’ideologia meritocratica sembra perfettamente armonizzata al celebre versetto del Vangelo secondo Matteo che recita come segue: “A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e

a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13:12, New Living Translation). Gli

uomini hanno il dovere morale di mettere a frutto il proprio talento; le cause del loro fallimento devono essere ricercate soltanto nelle loro personali mancanze.

La rilevanza del pamphlet di Wooldridge risiede anche nel fatto di essere stato promosso e pubblicato dalla Social Market Foundation, una fondazione che si costituisce come un think-thank politicamente trasversale (Littler, 2017). Wooldridge propone una descrizione della società che si localizza al di là delle categorizzazioni politiche: la meritocrazia è il motore del progresso e tutto ciò che depotenzia l’impianto meritocratico – in altre parole, ogni ostacolo welfarista all’ascesa dei migliori – deve essere eliminato per il bene della collettività. Una società giusta è quella che non si frappone tra gli uomini, le loro ambizioni e il loro diritto di sfruttare al massimo – non importa a scapito di chi – il loro naturale talento; una società pacificata che tende assiomaticamente verso il progresso razionale e che dona il giusto spazio e le giuste ricompense ai meriti di ognuno – così come avrebbe voluto una versione particolarmente ottimistica della teorizzazione durkheimiana a proposito della divisione del lavoro nella società organica (Durkheim, 1863).

41 Le considerazioni di Wooldridge sono state molto preziose al fine di diffondere la versione neoliberista dell’ideologia meritocratica. Questa declinazione della formula magica del merito come motore di una società moralmente giusta è stata utilizzata e sfruttata, come vedremo nel prossimo capitolo, in politica, sia da destra sia da sinistra, per giustificare drastici interventi riduttivi nei confronti dello stato sociale. Lo Stato è andato sempre più esternalizzando il costo dell’assistenza ai più deboli, facendolo ricadere sulle strutture familiari e sulla rete di relazioni informali degli individui. L’ideologica meritocratica – che si trasforma in una vera e propria mitologia attraverso efficaci narrazioni mediatiche diffuse in tutto il globo (cfr. paragrafo 6.1; Cingari, 2014, 2017; Littler, 2004) – è particolarmente adatta a favorire questa operazione di

deresponsabilizzazione dello Stato nei confronti dei destini individuali dei cittadini. Il

ruolo del capitale sociale, di quello familiare e di quello economico (Bourdieu, 2002, 2015) si eclissa alla luce accecante della retorica sull’uguaglianza delle opportunità; e i circoli viziosi di riproduzione sistematica dello svantaggio iniziale vengono drammaticamente rimossi dall’orizzonte delle cognizioni comuni sul funzionamento della società. L’assenza di una forte identità di classe, disgregata dai processi atomizzanti della “modernità liquida” (Bauman, 2000), l’illusio della mobilità ascendente e la mancanza di un’opposizione – soprattutto da sinistra – alle politiche di matrice neoliberista hanno contribuito in modo determinante alla creazione di una società in cui le grandi disuguaglianze vengono accettate poiché scarsamente problematizzate, paradossalmente, soprattutto da coloro che più vengono danneggiati dall’ideologia meritocratica.

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Capitolo 3