L’approccio critico alla meritocrazia: lo stato generale del dibattito
4.2. Uno sguardo alla letteratura sociologica straniera
Nel paragrafo precedente, abbiamo avuto modo di capire come, in Italia, i contributi che trattano il tema della meritocrazia risultino numericamente scarsi – soprattutto, se facciamo riferimento a quelli più strettamente sociologici. Per questo motivo, per trovare contributi più focalizzati, è necessario rivolgersi alla letteratura straniera. Anche all’estero, tuttavia, il tema della meritocrazia non risulta, ad oggi, particolarmente centrale; i contributi sociologici che possiamo reperire sono, certamente, più numerosi. Eppure, possiamo rilevare la mancanza di un dibattito pienamente strutturato attorno al tema: non sono venuto a conoscenza di gruppi di ricerca costituiti con lo scopo di analizzare criticamente l’ideologia meritocratica; né i lavori che ho avuto modo di leggere sembrano dialogare in modalità veramente interconnesse tra di loro. Non essendo possibile eleggere – come accade per molte altre aree tematiche – un contributo-principe attorno al quale il dibattito sia ruotato in modo preponderante (eccezion fatta per “The Rise of the Meritocracy” di Young [1958], del quale abbiamo parlato nel paragrafo 1.1), in questo paragrafo mi occuperò di
85 ricostruire una storia degli interventi sociologici che mi sono sembrati più rilevanti ai fini di questa trattazione.
Abbiamo già parlato dello sviluppo della nozione di ‘meritocrazia’ analizzando il pensiero di Fox (1956), Young (1958), Hayek (1960) e Bell (1972) (cfr. Capitolo 1 e Capitolo 2). Abbiamo avuto modo di notare anche la rilevanza delle argomentazioni di Wooldridge (1995), che si è occupato di declinare in senso totalmente morale e neoliberista la nozione di ‘meritocrazia’, e di quelle di Giddens (2002), il quale – pur non parlando in modo specifico di meritocrazia – dipinge l’ideologia meritocratica come un elemento essenziale al fine di una più corretta redistribuzione delle risorse. Per ricostruire il dibattito in cui si sono inseriti questi due contributi più recenti, è necessario partire dalla prima metà degli anni Novanta – epoca in cui l’analisi teorica della meritocrazia viene a configurarsi come un tema che si arricchisce di contributi interessanti.
Nel 1994, Herrnstein e Murray (il primo, sociologo e psicologo sociale; il secondo, scienziato politico; entrambi statunitensi e laureati ad Harvard) pubblicano un volume dal titolo “The Bell Curve: Intelligence and Class Structure in American Life” destinato a diventare un bestseller e a influenzare la percezione americana e mondiale della ‘meritocrazia’ in modo determinante. In questo libro, come nota anche McNamee (2018: 22), i due studiosi “asserted that intelligence is largely genetically inherited
and that it largely determines socioeconomic success.” La distribuzione
dell’intelligenza nella popolazione seguirebbe, secondo Herrnstein e Murray, una distribuzione normale di Bell. I due scienziati proseguono poi la loro analisi argomentando che l’intelligenza sarebbe un indicatore affidabile per prevedere lo
status socioeconomico degli individui, poiché proprio l’intelligenza starebbe alla base
della moderna distribuzione dei ruoli, in un tempo in cui le barriere alla mobilità ascendente sono state rimosse. In questo modo, saremmo di fronte a una vera e propria meritocrazia dei talenti, grazie alla quale si starebbe affermando una sorta di “élite
cognitiva”43 (Herrnstein & Murray, 1994). L’impatto di questo lavoro è deflagrato prepotentemente e ha determinato l’affermarsi di una concezione essenzializzata e naturalizzata di ‘merito’.
86 Non sono mancate, per questo motivo, le risposte che hanno cercato di contestarne la validità. La più nota, tra queste, è il volume redatto da un gruppo di sociologi statunitensi nel 1996, intitolato “Inequality by Design: Cracking the Bell Curve Myth”. Fischer, Hout, Jankowski, Lucas, Swider e Voss si occupano di decostruire il mito della distribuzione normale dell’intelligenza e della sua relazione con l’acquisizione dello status socioeconomico. Secondo Fischer et al. (ibidem), i presupposti su cui si basa l’analisi di Herrnstein e Murray poggerebbero su una concezione retrograda e fatalista della società, in cui le ricompense e le punizioni verrebbero moralmente meritate. Al contrario, l’incidenza dei fattori sociali a monte (come il background familiare) sarebbe preponderante sulle possibilità di avere successo economico. Secondo questo gruppo di studiosi, l’intelligenza riuscirebbe a spiegare solamente il 5–10% della variazione tra i redditi. Il ruolo cruciale sarebbe, invece, da attribuire agli interventi di politica sociale, i quali decidono le regole strutturali del campo da gioco in cui il talento e lo sforzo possono effettivamente dispiegarsi. La retorica fatalista di Herrnstein e Murray, in questo senso, non farebbe altro che rafforzare la tendenza verso interventi di politica sociale che acuiscono il divario già esistente tra ricchi e poveri.
Un contributo altrettanto importante, che si inserisce in questo dibattito, è quello portato da Arrow, Bowles e Durlauf: il loro “Meritocracy and Economic Inequality” (2000) si presenta come una raccolta di dodici saggi (redatti, per lo più, da economisti) sul tema del merito, della giustizia sociale e della meritocrazia. L’idea di fondo è quella di contestare la validità di contributi simili a quello di Herrnstein e Murray (1994), che potenzierebbero una retorica attraverso la quale la responsabilità di trovarsi in una posizione marginale verrebbe attribuita all’intrinseca mancanza di volontà di coloro che vi sono relegati. Essendo una raccolta di saggi di matrice maggiormente economica, l’interesse è quello di studiare come interventi mirati sui settori dell’istruzione e della politica sociale redistributiva potrebbero aumentare il reddito aggregato nazionale. Tutti i contributi sono rilevanti, in questo volume, ma ho scelto di soffermarmi brevemente su quelli di A. Sen, J. E. Roemer e R. Bénabou, poiché più interessanti rispetto ai temi di questa trattazione.
87 Sen44 (2000) propone un’analisi di matrice filosofico-economica della meritocrazia, per cercare di individuare gli errori più comuni riguardo alle cognizioni sul tema. È interessante notare come Sen sottolinei l’indeterminatezza genetica del termine ‘meritocrazia’– il quale, essendo legato, necessariamente, alla definizione contingente di ‘che cosa sia il bene in una società’ (definizione, per natura, mutevole), risulta difficile da declinare in senso oggettivo. Il merito verrebbe percepito, perciò, in maniera più che altro astratta; a questo proposito, Sen distingue tra “merit of actions” e “merit of persons” (ibidem: 15), focalizzandosi sulla tendenza, potenzialmente distorsiva, alla personificazione del merito. In questo modo, si rischia di attribuire l’utilità sociale di un’azione a delle caratteristiche interne delle persone45, le quali, pertanto, vengono definite come ‘meritevoli’ e distinte dal resto della popolazione (ibidem: 12): “(…) conventional notions of ‘meritocracy’ often attach the label of
merit to people rather than actions.” In questo senso, la meritocrazia acquista una
valenza strumentale e, dunque, una generosa ricompensa del merito viene concettualizzata come necessaria a produrre un tipo di società migliore (ibidem: 8): “Actions may be rewarded for the good they do, and a system of remunerating the
activities that generate good consequences would, it is presumed, tend to produce a better society”. La ricompensa, così, diviene un ‘incentivo all’impegno’ riservato ai
‘migliori’, i quali – impegnandosi – produrrebbero delle esternalità positive per il resto della società. Tuttavia, questo artificio retorico finisce per mascherare e giustificare l’esistenza della disuguaglianza.
Come nota anche Dale Goldin (2001), possiamo sottolineare una convergenza tra i contributi di Roemer (2000; ma anche Roemer & Trannoy, 2015) e di Bénabou (2000) nel volume di Arrow et al. (2000). Il contributo di Roemer è direttamente collegabile alla teorizzazione di Sen di cui abbiamo appena parlato. Roemer46 (2000; Roemer & Trannoy, 2015) cerca di dimostrare come un ordine realmente meritocratico dovrebbe basarsi sulla ricompensa dello sforzo, piuttosto che sulla ricompensa del risultato – quest’ultimo, spesso, legato al background individuale. In questo senso, la
44 Filosofo ed economista. Professore ad Harvard e Premio Nobel per l’Economia nel 1998. 45 Si compie, in altre parole, un’attribuzione interna – un tipo di meccanismo di cognizione
psicosociale fondamentale per quanto riguarda la presa dell’ideologia meritocratica e del quale parleremo in modo approfondito nei paragrafi 4.3.1 e 4.3.2.
88 meritocrazia non può prescindere da un’ideale di giustizia fortemente redistributivo. Similmente, Bénabou47 (2000) distingue – come Bell (1972), ma con intenzioni opposte – tra “equality of opportunity” ed “equality of outcomes”, concludendo che, mentre nei modelli meritocratici attuali è stata data più rilevanza all’uguaglianza delle opportunità, sarebbe necessario uno slittamento verso un lavoro di politica sociale che mirasse a potenziare le possibilità di raggiungere un’uguaglianza dei risultati.
Uno degli studiosi che più si è occupato del tema della meritocrazia è Jhon Goldthorpe48. I suoi contributi in relazione alla trattazione critica dell’ideologia meritocratica sono tra i pochi – se non gli unici – che sono stati tradotti in italiano (soprattutto, per la rivista Stato e Mercato). Goldthorpe (1994) fa notare come la parola ‘meritocrazia’ nasca per sintetizzare tre tendenze già in atto all’epoca della sua coniazione: 1) l’apertura delle carriere come reazione alle pratiche del nepotismo e del classismo; 2) l’apertura e la democratizzazione dei percorsi scolastici; 3) lo stabilirsi del criterio dell’achievement (ovvero, l’utilità delle competenze) come base per misurare le ricompense economiche da attribuire in relazione al lavoro – e, dunque, come giustificazione della disuguaglianza sociale. Su quest’ultimo punto, ha avuto particolare influenza il pensiero sociologico funzionalista degli anni Quaranta e Cinquanta. Goldthorpe (ibidem: 9) sottolinea come, per Parsons, “dal momento che le
prestazioni contribuiscono all’adattamento della società, diventa un prerequisito per la stabilità a lungo termine di un sistema sociale che la pretesa a meritare ricompense superiori sia largamente riconosciuta.” Il pensiero sociologico di Goldthorpe (2003;
Goldthorpe & Jackson, 2008) in relazione all’ideologia meritocratica si basa sulla contestazione del mito della “Education Based Meritocracy” proposta da Bell (1972). Nelle sue parole (Goldthorpe & Jackson, 2008: 56):
La cosa decisiva è in particolare il fatto che sono i datori di lavoro, e non lo stato o il governo, a decidere quale peso dare ai titoli di studio nei processi di selezione sociale nei mercati del lavoro e nelle unità produttive: questo significa che questa selezione avrà luogo secondo diversi criteri. Ed è quindi probabile che alcuni di questi criteri saranno tali da non poter essere credibilmente associati ad alcuna forma di merito individuale: per esempio quando (…) si privilegiano caratteristiche derivanti poco da capacità e impegno, e molto da circostanze di socializzazione, e che però in determinati settori
47 Economista. Professore a Princeton.
48 J. Goldthorpe è Professore Emerito presso l’Università di Oxford. È considerato uno dei più
influenti sociologi britannici e mondiali e si è occupato soprattutto di stratificazione, di mobilità e di teoria dell’azione sociale.
89 economici sono nondimeno realmente produttive per le aziende. La nostra conclusione principale, quindi, è che l’idea di una MBI [Meritocrazia basata sull’istruzione, n.d.r.] probabilmente resterà in gran parte utopica, o distopica, a seconda dei gusti socio- politici.
Goldthorpe, dunque, si focalizza (attraverso l’analisi quantitativa e qualitativa di una grande mole di dati, soprattutto in relazione al caso dell’istruzione e del lavoro in Gran Bretagna, considerata solitamente come una nazione altamente meritocratica) sui limiti strutturali che si pongono alla creazione effettiva di una società basata realmente – e non retoricamente – sull’ordine meritocratico. In particolare, gli studi sulla relazione tra origine sociale, livello di istruzione e classe sociale di approdo evidenzierebbero due questioni fondamentali (ibidem):
1. l’origine sociale di un individuo continua ad avere un’importanza cruciale sul conseguimento della sua posizione socioeconomica futura;
2. il grado di istruzione perde di valore quando gli individui sono di ottima estrazione sociale, con vantaggi man mano crescenti, in relazione al raggiungimento della classe sociale di destinazione.
Le difficoltà che la meritocrazia incontrerebbe nella sua ascesa potrebbero essere ricercate, secondo Goldthorpe, nell’incompatibilità della stessa meritocrazia con il regime di libero mercato (come sostenuto da Hayek [1960], cfr. paragrafo 1.3). Le società scandinave, in cui il tasso di scolarizzazione incide in modo determinante sull’impiego lavorativo e sulla classe di destinazione, potrebbero venire prese a modello per constatare come l’abbattimento progressivo delle disuguaglianze socioeconomiche sia possibile soltanto con un livellamento verso l’alto di queste ultime.
Per concludere questa rassegna dei contributi stranieri più rilevanti in relazione alla critica dell’ideologia meritocratica, parlerò brevemente del lavoro di due autori che abbiamo già incontrato, rispettivamente, nei paragrafi 3.1 e 3.2: J. Littler (2013, 2017) e S. McNamee (2018). Come ho già avuto modo di riportare, Jo Littler è una sociologa britannica che ha scritto diversi contributi inerenti al tema della meritocrazia. McNamee è un sociologo statunitense il cui contributo più famoso – “The Meritocracy
90 Possiamo riassumere l’ultimo contributo citato (la cui prima edizione risale al 2004) come un’operazione di decostruzione, operata soprattutto sul piano descrittivo, della mitologia meritocratica negli Stati Uniti. McNamee e Miller tentano di dimostrare come la popolazione americana, in generale, “overestimate the effects of merit factors
and underestimate the effects of nonmerit factors in term of how the system actually operates” (McNamee, 2018: IX). L’idea centrale di questo contributo è abbastanza
semplice: il ruolo del talento e dello sforzo, in relazione alla realizzazione del “sogno americano” dell’ascesa verso il successo, viene retoricamente gonfiato; per validare questa tesi, i due autori cercano di sfatare i miti che si sono costruiti attorno alla credenza nel valore descrittivo della meritocrazia. In sintesi, McNamee e Miller rilevano come altri fattori, più del talento e del duro lavoro, abbiano un’influenza determinante sulle possibilità di avere successo. Possiamo schematizzare questi ‘altri fattori’ come segue:
1. le posizioni di partenza hanno una grande influenza sul punto di arrivo degli individui. Ad esempio, si può semplicemente constatare come – se le posizioni di partenza sono diseguali – “equivalent amounts of merit do not lead to
equivalent end results” (ibidem: 44);
2. “It’s not what you know, but…” (ibidem: 69): il capitale sociale e il capitale culturale (così come teorizzato da Bourdieu [2002, 2015]) giocano un ruolo fondamentale nelle possibilità di ascesa sociale;
3. “Family socioeconomic status and other ascribed characteristics directly and
indirectly affect educational attainment. Schools both reflect and re-create inequalities in society” (McNamee, 2018: 105): l’istruzione non ha un effetto
decisivo nella scalata verso il successo lavorativo (così come sostenuto anche da Goldthorpe [1994, 2003]). Soprattutto, McNamee e Miller sottolineano la rilevanza degli effetti di ghettizzazione scolastica e le differenze, a livello statale, per quanto riguarda i finanziamenti all’istruzione;
4. l’iconografia mitologica del self-made man è inconsistente e i tassi di self-
91 5. anche se tende a essere uno spettro rimosso dalle cognizioni comuni, la fortuna
ha un ruolo determinante sulle carriere lavorative;
6. gli effetti della discriminazione (McNamee [2018] elenca: razzismo, sessismo,
ageism, omofobia ed eterosessismo, ableism, discriminazioni religiose, lookism) sono preponderanti. L’insieme di queste tipologie di discriminazione
avrebbero effetti invalidanti, soprattutto in considerazione del loro potenziale sommativo.
Il lavoro di Littler (2017), intitolato “Against Meritocracy”, ha un’impostazione diversa. Si occupa, nella prima parte, di ricostruire la storia del termine ‘meritocrazia’; in seguito, sviluppa un’analisi delle parabole più popolari in relazione alla mitologia della società meritocratica. Il suo punto di vista è particolarmente critico: per Littler (similmente a quanto teorizzato da Cingari – cfr. paragrafo 4.1), vi sarebbe una coincidenza concettuale tra l’ascesa del neoliberismo e l’ideologia meritocratica, la quale servirebbe a rendere accettabili le disuguaglianze poiché coperte dal velo retorico del merito. In particolare, le narrazioni di una giustizia meritocratica sarebbero particolarmente efficaci perché, mentre, da un lato, riconoscono l’esistenza dei problemi derivanti dalla disuguaglianza, dall’altro lato offrono soluzioni neoliberiste per la loro cura, finendo per creare nuove forme di divisione sociale attraverso la promessa di nuove opportunità (ibidem: 215):
What I term ‘neoliberal justice narratives’ recognise structural injustice but then offer to sell neoliberal meritocratic solution for them. This is a discourse which puts the already disempowered under extra pressure, a double move which promises opportunity whilst producing new forms of social division.
Le persone, dunque, “are more likely to tolerate sever inequality, if it is suggested that,
regardless of this fact, there is enough social mobility for everyone to succeed”
(ibidem: 217). La conclusione della Littler, come quella di Bénabou, è un auspicio radicale per un movimento verso l’uguaglianza degli outcomes.
Possiamo concludere questo paragrafo notando come il dibattito internazionale (che si snoda, soprattutto, tra Stati Uniti e Inghilterra) sul tema della meritocrazia, a livello sociologico, socioeconomico e filosofico, sia stato senz’altro più vivace e più scientifico di quello italiano. Dei contributi che formano lo scheletro di questo dibattito, solamente alcuni (una minoranza) tra quelli di Goldthorpe sono stati tradotti
92 in lingua italiana – a riprova della scarsa attenzione che, in generale, viene riservata alla critica dell’ideologia meritocratica nel nostro Paese. I testi stranieri che abbiamo avuto modo di analizzare si inseriscono in un quadro ancora più ampio; il dibattito, pur non essendo pienamente strutturato, è comunque vivace. In particolare, alla fine degli anni Novanta e nei primi del Duemila, il tema della meritocrazia aveva acquisito una certa centralità, che è andata, tuttavia, scemando nel decennio successivo. Negli ultimi due-tre anni, ad ogni modo, possiamo notare una certa ripresa di attenzione sul tema – non solo da parte della sociologia, ma anche da parte della psicologia sociale, i cui contributi, molto spesso, vengono ignorati dai sociologi; tuttavia, credo che una separazione tra le scienze sia tanto sciocca quanto deleteria alla ricerca in sé. Per questo motivo, dedicherò i prossimi tre paragrafi a delle letture psicosociali sul tema della meritocrazia, cercando, inoltre, di utilizzare alcuni strumenti e teorie per avanzare proposte inedite.