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Il d.l 8 giugno 1992, n 306 L’art 416 ter c.p.:

“Dinanzi a fatti di agghiacciante gravità come quelli che sono costati

la vita a Giovanni Falcone, a sua moglie Francesca e ai tre giovani addetti alla sua tutela, lo Stato non può restare inerte. Deve fornire una risposta forte e determinata che, senza sconvolgere i principi cardine di uno Stato democratico e fondato sul diritto, rappresenti, per la gente di questo paese, il segno della volontà di non cedere neppure di fronte alla più eversiva delle offensive della criminalità”51.

Così iniziava la nota illustrativa dell’allora ministro di Grazia e Giustizia sul contenuto del decreto in epigrafe, noto come decreto antimafia o “decreto Scotti – Martelli”, presentato dal governo ancora presieduto dal senatore Giulio Andreotti come risposta dello Stato alla sfida lanciata da Cosa Nostra con la strage di Capaci.

Nel medesimo testo si avvertiva di come fosse il frutto non di scelte emozionali ed emergenziali, ma il risultato di valutazioni attente e studi operati già da tempo, in materia di criminalità organizzata52.

Precisando inoltre, come le modifiche processuali non sconvolgessero il modello del 1988 né mutassero le caratteristiche dei procedimenti ___________________

51 Claudio Martelli, Brevi osservazioni sul decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, in

Documenti Giustizia, n. 6, giugno 1992, col. 613.

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diversi da quelli contro la criminalità organizzata53.

Nella relazione al disegno di legge è stato scritto anche che, la ratio sottesa al provvedimento è quella di impedire che gli esponenti delle bande mafiose, approfittando delle farraginosità del sistema giuridico, potessero “inserire le loro minacce, intimidazioni o temerarie richieste all’interno di un modello codicistico non attrezzato a combattere forme di slealtà processuale o più in generale, condotte finalizzate in sé stesse ad attentare alla genuinità e trasparenza della formazione della prova”54.

Tali affermazioni che decretano l’inadeguatezza dal punto di vista del contrasto alla criminalità organizzata, del codice del 1988.

Invero la necessità di un intervento di questo tipo era avvertita già da tempo soprattutto nei settori della magistratura e delle forze dell’ordine; ma è altrettanto vero che nulla di significativo fu fatto, quanto alle modalità di formazione della prova, dal Governo e dal Parlamento prima del decreto.

Poche settimane prima del varo di quest’ultimo, si svolse presso la Corte Costituzionale il giudizio di legittimità dei commi 3° e 4° dell’art. 500 c.p.p.: nella parte in cui impedivano di utilizzare per la decisione, le dichiarazioni rese dai testimoni al pubblico ministero. Lo stesso Governo che di lì a poco avrebbe varato il decreto legge n. 306, non solo sentenziò l’infondatezza della questione perché il regime di formazione della prova nel dibattimento penale non solo era conforme al dettato costituzionale, ma anche che lo stesso regime andava mantenuto e difeso.

Per le ragioni testé evidenziate, risulta difficile conciliare ___________________

53 Claudio Martelli Ibidem, col. 614.

54 Relazione al Disegno di legge n. S/328 presentato al Senato in data 8 giugno

1992 di conversione del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante "Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa", in Documenti Giustizia, n. 6, giugno 1992, col. 739.

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l’affermazione contenuta nelle osservazioni con la posizione di difesa del nuovo codice di procedura penale risalente ad appena un mese e otto giorni prima della strage di Capaci.

Nel “decreto Martelli” non v’era tuttavia traccia di alcun intervento volto ad affrontare sul piano del diritto penale sostanziale il problema dei rapporti tra mafia e politica.

Eppure ricorreva un momento storico caratterizzato da un acceso dibattito e da un’opinione pubblica che chiedeva a gran voce la repressione di ogni collusione tra la mafia e i palazzi istituzionali e che imputava le stragi del ’92 alla classe politica dell’epoca55.

Un gruppo di magistrati di Magistratura democratica aveva elaborato in quegli stessi giorni un documento in cui si denunciava la improcrastinabilità della riforma del reato di cui all’art. 416 bis c.p. per poter sanzionare la c.d. zona grigia della contiguità politico mafiosa di tipo elettorale attraverso l’inserimento di un nuovo comma atto a punire coloro che si avvalgono anche indirettamente del sostegno intimidatorio delle associazioni mafiose per procacciarsi i voti nelle competizioni elettorali in cambio di denaro o della promessa di agevolare l’acquisizione di concessioni autorizzazioni, appalti contributi o comunque vantaggi ingiusti56.

Indicazioni in tal senso erano implicitamente contenute anche nella legge 23 marzo 1988, n. 94 con cui veniva istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno mafioso presieduta dal senatore Chiaramonte.

La risposta del legislatore, di fronte ai fatti di via D’Amelio, non si fece attendere ma produsse un’arma spuntata: la natura ____________________

55 C. VISCONTI, Il reato di scambio elettorale politico-mafioso, in Ind. Pen. 1993,

276;

56 Un indispensabile salto di qualità: proposte dei magistrati palermitani per

l’assemblea nazionale di A.n.m. del 20 giugno 1992, in Notiziario di Magistratura democratica, n. 2 settembre 1992, 21.

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compromissoria del reato di voto di scambio politico – mafioso, di cui all’art. 416 ter c.p., fu l’esito di una sbrigativa opera di persuasione di quella collettività che reclamava una risposta forte e decisa, e che conferì alla fattispecie un impatto simbolico inversamente proporzionale alla sua efficacia repressiva.

L’aver delimitato il suo raggio d’azione alle sole ipotesi di promessa di voti in cambio di denaro, tralasciando tutta una serie di ipotesi nelle quali la prestazione del politico era rappresentata da una promessa di dazione o da qualsiasi altra utilità, rappresentava senza dubbio il principale difetto della fattispecie, ostacolandone la concreta configurabilità.

A differenza della corruzione elettorale, che può realizzarsi anche attraverso somme di esiguo valore, “l’acquisto” di voti di provenienza mafiosa avviene in cambio di prestazioni sinallagmatiche di rilevante consistenza economica, quali ad esempio assunzioni a tempo indeterminato, assegnazione di gare d’appalto, erogazione di finanziamenti pubblici. Il candidato, una volta eletto, è vincolato per tutta la durata del mandato ad agevolare le cosche che lo hanno supportato.

L’impiego di tale termine lasciò supporre, ad una parte di dottrina e giurisprudenza, che per la configurabilità del reato non fosse sufficiente la mera promessa del pagamento da parte del candidato, ma fosse necessaria l’effettiva dazione della somma di denaro, con la conseguenza di rendere impunibili la maggior parte degli accordi rispetto ai quali si fosse raggiunta la prova della stipulazione ma non anche quella della successiva esecuzione tramite il pagamento57.

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57 A. CAVALIERE, Lo scambio elettorale politico- mafioso, in I delitti contro

l’ordine pubblico, a cura di Moccia S., in Trattato di diritto penale, a cura di ID., vol. I Napoli 2006, 639.

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CAPITOLO SECONDO

L’ORIGINE DEL VOTO DI SCAMBIO E LA SUA ORIGINARIA FORMULAZIONE

SOMMARIO: 1. L’Origine del voto di scambio e il suo originario significato etimologico – 2. L’esegesi della norma – 3. Il bene giuridico tutelato – 4. I soggetti attivi – 5. Tempus commissi delicti. Le condotte incriminabili: promessa ed erogazione di denaro – 6. Il metodo mafioso

1. L’origine del voto di scambio e il suo originario significato etimologico

Per molto tempo il rapporto tra mafia e politica è rimasto avvolto nell’ombra e relegato tra quei concetti sfocati, in bilico tra immaginazione e realtà, stentando con fatica a trovare un riconoscimento da parte delle scienze sociali e la considerazione del legislatore penale.

All’origine di un simile ritardo erano le lenta presa di consapevolezza del fenomeno e la sua valenza negativa. Solo in tempi recenti la mafia ha iniziato ad essere considerata quale forza capace di incidere negativamente nel tessuto sociale e politico58 altrettanto recente la

presa di coscienza circa i torbidi legami con i palazzi istituzionali. In realtà, l’origine del voto di scambio si perde nella notte dei tempi. Per trovarne le radici, dobbiamo risalire almeno agli anni ’50, quando ______________________

58 S. LUPO Storia della mafia. La criminalità organizzata in Sicilia dalle origini

ai giorni nostri, Roma, 2004, 11 ss.; A. NICASO, Mafia, Torino, 2016; G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2015, 34 ss.

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in vista delle competizioni elettorali, venivano distribuite alla povera gente metà banconota o una scarpa prima della votazione e l’altra metà o l’altra scarpa dopo, a risultato ottenuto.

Celebre l’audizione alla commissione antimafia presieduta da Luciano Violante del magistrato Agostino Cordova che alla vigilia delle elezioni del ’92, in Calabria, aveva avviato un’inchiesta disponendo 180 perquisizioni. A seguito di esse venne rinvenuto materiale elettorale di numerosi candidati appartenenti a svariati partiti, nella disponibilità di affiliati a organizzazioni criminali.

Il “bottino” era costituito da documenti propagandistici di numerosi partiti, ma a dimostrazione di una certa trasversalità nel condizionamento del voto politico, furono rinvenuti diversi normografi. Il normografo è un particolare righello che si usa per insegnare ai bambini, le lettere dell’alfabeto. Quelli rinvenuti avevano tuttavia una particolarità: riportavano solo i nomi di determinati candidati. Un sistema “studiato” appositamente per consentire il voto degli analfabeti.

L’indagine scatenò molte polemiche ma anche un effetto pratico: contribuì all’introduzione della normativa legata al voto di scambio. La questione poteva dirsi tutt’altro che risolta. L’art. 416 ter c.p. infatti, nella sua originaria formulazione altro non fu che un’arma spuntata, uno strumento zoppo, per le differenze tra il disegno di legge originario e il testo licenziato.

La disposizione in esame non era in grado di rappresentare e colpire la complessità del fenomeno e la sua evoluzione. L’esclusione della previsione “altre utilità” rappresentò un enorme vantaggio per le organizzazioni mafiose. Gli appalti pubblici e privati, i finanziamenti nazionali ed europei, le modifiche ai piani regolatori, costituivano gli elementi più appetibili, il punto di incontro tra mafia, politica e imprenditoria, ma anche il terreno sul quale fallì miseramente la risposta del legislatore.

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Si parlava di accordi triangolari tra imprese, politici, pubblici funzionari, governati da un “ambasciatore di Cosa Nostra o un comitato di gestione formato da imprenditori, sotto la supervisione dell’associazione mafiosa, il c.d. “tavolino”, per poi scoprire che a vincere le gare erano imprese esterne alla Sicilia con ribassi dell’1% o che le gare di appalto indette da Anas venivano controllate da un cartello di imprese di amici e prestanome di Bernardo Provenzano. Nella relazione della Commissione Antimafia del 1993 si sottolineava l’importanza degli appalti quali forme di esercizio della c.d. signoria

territoriale. Durante i lavori preparatori del 1992, un interessante

intervento della senatrice Salvato, metteva in luce come la grande disponibilità finanziaria delle organizzazioni mafiose avrebbe escluso un interesse di tipo economico.