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Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana

La concezione del principio di eguaglianza confluita nel testo della Costituzione all’articolo 3, costituisce il riflesso dei mutamenti sociali e politici che hanno segnato la storia del nostro paese nel passaggio dalla forma di stato liberale a quella di stato sociale. Nello stato liberale monoclasse, la legge viene concepita come atto normativo generale ed astratto, nell’ottica di quella che era stata la visione elaborata dai pensatori illuministi, democratici e liberali e poi rivisitata dalla dottrina italiana365. In linea generale si trattava di precetti indefinitamente ripetibili e diretti a tutti i consociati o a tutti i cittadini, ovvero, di precetti legislativi a contenuto “universale”. L’estensione del diritto di voto e l’avvento della rivoluzione industriale con le richieste di maggiore rappresentatività politica e di tutela sociale che porta con sé, conducono ad una trasformazione dei contenuti normativi rendendoli nel tempo sempre meno universali. Il moderno stato sociale pluriclasse, proprio per i concreti interventi di correzione e di riequilibrio sociale che postula, richiede l’approvazione di norme di settore e spesso anche di leggi particolari e concrete, tali da introdurre differenziazioni correlate alle diverse condizioni personali e sociali.

364 Il sistema di garanzie giurisdizionali costituzionali risulta così articolato su vari livelli che

vedono al vertice i principi supremi, poi i principi generali, le norme costituzionali e le norme interposte.

365CERRI, Eguaglianza giuridica…, p.61. Per i giuristi positivi italiani il concetto di generalità

deve essere riferito ad un comando impersonale, mentre quello di astrattezza all’indefinita ripetibilità nel tempo.

Da qui si comprende come ai semplici enunciati del principio di eguaglianza contenuti nelle costituzioni dell’Ottocento, subentrano nelle costituzioni del Dopoguerra disposizioni in cui viene fatto esplicitamente menzione del divieto di assumere determinati elementi quale fattore cui ricollegare differenze normative. Il concetto di eguaglianza che viene ad affermarsi, è quello di pari diritto a beni della vita, ovvero, eguale possibilità di acquisire una determinata posizione giuridica. Diventa così fondamentale la scelta del criterio sulla base del quale verranno attribuiti i beni della vita dando origine a delle differenziazioni normative. Tali differenziazioni possono ricondursi a qualsiasi valore o scopo che il legislatore intenda perseguire purché non si ricolleghino al soggetto come tale366.

In tal modo l’esigenza di universalità che nel periodo liberale veniva garantita attraverso leggi dai contenuti generali e astratti, con l’avvento del welfare state, viene soddisfatta attraverso l’applicazione del principio di adeguatezza della norma alla sua ratio.

Il legislatore, una volta collegate certe conseguenze giuridiche a determinate fattispecie, in ragione di una particolare caratteristica che esse presentano, è tenuto a riferire le medesime conseguenze a qualsiasi altra fattispecie che abbia quella stessa caratteristica, a meno che non vi sia una valida ragione per differenziare il trattamento367. Tali differenziazioni saranno giustificate, come anzidetto, solo quando ricollegabili ad effettive differenze dei fenomeni sociali regolati368.

Da queste premesse è possibile ricavare i termini della questione dottrinaria che vede contrapposta la concezione dell’eguaglianza intesa come pari diritto a beni della vita (concezione valutativa) a quella che teorizza il diritto ad un pari bene della vita (concezione paritaria). Nel primo caso il criterio di attribuzione dei beni sarà dato dall’eguaglianza formale, intesa come uguale “possibilità” di vedersi

366CERRI, Eguaglianza giuridica…, p.49. Tali differenziazioni possono ricollegarsi alla natura

dell’atto, dell’attività, del rapporto, della funzione ed allo stesso soggetto per quel che concerne la sua attitudine in relazione all’attività, alla funzione, mai tuttavia alle qualità del soggetto considerate al di fuori di un collegamento con i fattori oggettivi indicati.

367 F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nell’ordinamento

comunitario, Padova, 2003, p.40.

368CERRI, Eguaglianza giuridica., p.71. In base alla giurisprudenza della Corte costituzionale le

differenze invocate per dettare discipline diverse debbono essere effettivamente riscontrabili, la diversità normativa deve essere congrua e pertinente rispetto alle differenze fattuali riscontrate, non può essere giustificata da elementi che risultino essere comuni ad entrambe le fattispecie considerate e diversamente regolate.

attribuiti determinati beni della vita, mentre la seconda fa riferimento all’ “attualità” del godimento, ovvero, all’effettiva titolarità di eguali posizioni giuridiche e dunque all’eguaglianza sostanziale.

Una delle questioni più controverse su cui la dottrina si è confrontata, riguarda la natura soggettiva o oggettiva che deve essere attribuita al principio di eguaglianza formale. Gli studiosi si sono chiesti se il principio debba essere considerato come una situazione giuridica soggettiva (Finocchiaro, Barile) oppure quale pari attitudine di tutti i cittadini ad essere titolari di situazioni giuridiche attive e passive (Mazziotti). A considerare il principio da una prospettiva d’analisi oggettiva, è stato innanzitutto Mortati369 che a proposito dell’eguaglianza ha affermato: «Più che come diritto a sé stante, vale come motivo diretto a fare

dichiarare l’invalidità di un determinato trattamento perché sperequato rispetto a

quello praticato ad altri nella stessa condizione». Sulla stessa linea si è posto

anche Agrò,370 che nel negare la riconducibilità del principio a categorie soggettive, lo definisce come canone generale informatore di qualsiasi atto subordinato, quali che siano gli speciali limiti costituzionali che questo debba rispettare.

Secondo l’autore: «Nella sua applicazione, il principio non incontra, infatti, alcuno dei limiti che ratione materiae delimitano la sfera di ogni altro principio costituzionale, così che esso risulta avere un valore amplissimo quasi di sfondo e di chiusura rispetto a tutti gli altri articoli della Costituzione».371 Se osservato da una prospettiva oggettiva, il principio d’eguaglianza può essere letto come norma di produzione di atti subordinati e ricondotto alle prima citate concezioni paritarie e valutative.

Secondo la concezione paritaria, il legislatore sarebbe tendenzialmente tenuto ad uniformare le discipline o alcuni attributi di queste, in forza del canone che si sta esaminando372. Tra i sostenitori di questa teoria vi è in primis l’Esposito che, dall’eguaglianza intesa come pari sottoposizione di ciascun cittadino

369 C.MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, p. 941.

370 A.S.AGRÒ, Articolo 3, Commentario alla costituzione, G.BRANCA (a cura di), Bologna, Roma,

1975, p.128-129.

371 Tale valore è stato riconosciuto al principio anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n.25

del 1966.

all’ordinamento giuridico, ricava il divieto di leggi personali e del caso concreto373. A sposare a pieno la tesi valutativa, sono, invece, Paladin e Mortati. Paladin trae dall’enunciazione in Costituzione del principio di eguaglianza formale alcune conseguenze di rilievo, innanzitutto il divieto di leggi personali374 e di leggi speciali mancanti di fondamento giustificativo.

Per negare l’ammissibilità di leggi personali, l’autore richiama il pensiero di Schmitt, la giurisprudenza della Corte costituzionale ed infine il testo dell’articolo 3 Cost. nella parte in cui impone l’esclusione di distinzioni personali. In particolare, per stabilire quali leggi pongano distinzioni personali, non si deve fare riferimento né al criterio testuale della nominatività, né a quello logico dell’irripetibilità, bensì deve essere accertato che la disposizione sindacata si riferisca a soggetti predeterminati. Oltre all’analisi testuale ed ai lavori preparatori, gli strumenti di cui avvalersi per effettuare tale valutazione saranno, i sintomi estrinseci (elenco ufficiale degli interessati del quale il legislatore avesse preso visione) ed intrinseci (l’eventuale esiguità del numero degli interessati)375. Per quanto attiene le leggi speciali o d’eccezione, queste sarebbero sindacabili solo se messe a confronto con discipline ad esse omogenee ed in riferimento ai presupposti di fatto delle classificazioni normative.

In senso contrario si esprime Mortati concludendo per la non fondatezza della tesi di Paladin sul divieto di leggi personali376. Mortati ritiene ammissibili quelle leggi

373 C. ESPOSITO, Eguaglianza e giustizia nell’articolo 3 della Costituzione,in La Costituzione

italiana, Padova, 1954. Agrò rileva come l’Esposito, nell’indicare come criterio per il riconoscimento di leggi personali, la ricerca dell’interesse che si è inteso tutelare e la congruità di tale tutela, cade nella contraddizione di spiegare una teoria paritaria facendo ricorso ad un criterio di tipo valutativo.

374 L.PALADIN, Eguaglianza, Enc. Dir. Giuffrè, Vol.XIV, Milano, 1965, p. 525 ss. «La legge non è

giuridicamente abilitata ad istituire valido diritto, se non al patto di essere dotata di tanta astrattezza quanta ne pretende l’articolo 3 comma 1 Costituzione». Da qui si ricava la non sottoponibilità delle leggi universali al sindacato di costituzionalità perché presunte conformi all’art.3.1. In senso contrario le decisioni della Corte costituzionale n.53 del 14 luglio 1958, n.5 del 18 febbraio 1960, n.21 del 31 marzo 1961.

375 Tale accertamento verrà svolto “positivamente”, ovvero, sulla base di informazioni tratte

all’interno dell’ordinamento. Paladin esclude quindi ogni tipo di ricerca volta all’individuazione delle finalità della legge escludendo quindi il metodo accolto dalla dottrina tedesca (Forsthoff) per l’individuazione delle Massnahmegesetze (leggi provvedimento).

376 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico II, 1976, Padova, p.1021-1022. «[…] Si può

osservare, in ordine al primo limite che una volta ammessa la validità di norme di eccezione sulla base della loro giustificatezza, non si riesce a spiegare come questo stesso criterio non debba essere invocato a sostegno di una legge personale, quando si dimostri che l’eccezionalità della situazione si presenta solo nei riguardi di uno o più soggetti determinati. […] Non può ritenersi che il limite si possa ricavare dal divieto di distinzioni basate su condizioni personali contenuto

personali che, adottate sulla base di una giustificazione oggettiva in conformità a leggi generali, danno esecuzione ai loro precetti e ne innovano i contenuti377. Conclusa questa breve introduzione al significato generale che il principio d’eguaglianza assume nel nostro ordinamento, è opportuno procedere ad un’analisi puntuale del contenuto de primo comma dell’articolo tre:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge,

senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di

condizioni personali e sociali ».

Il principio di eguaglianza costituisce un corollario del principio personalistico che proietta la persona umana e il suo sviluppo al centro dell’ordinamento giuridico, facendoli assurgere a fine ultimo dell’organizzazione sociale del paese. Nella prima parte del testo viene precisato l’ambito di applicazione del principio. Questo esplica la propria efficacia nei confronti di tutti i cittadini, sia che si tratti di governati che di governanti. Specificazioni sono contenute all’articolo 97 Cost. che prescrive l’imparzialità dell’amministrazione e nell’articolo 101 Cost. in base al quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Anche i parlamentari sono tenuti al rispetto dell’articolo 3, sebbene nello svolgimento delle loro funzioni godano di alcune prerogative sancite nell’articolo 68 Cost. al fine di salvaguardare la loro indipendenza ed evitare nei loro confronti azioni persecutorie378.

Autorevolmente definita da Livio Paladin379 come curiosa e nuovissima, la formula della pari dignità sociale deve essere riferita al pregio ineffabile della nell’articolo 3 e neppure da un principio di generalità della legge che non è in nessun modo enunciato e che non potrebbe trarsi, senza incorrere in una petizione di principio, dallo stesso articolo 3». Alla limitazione del controllo alle sole leggi speciali sostenuta da Paladin, Mortati oppone: «La difficoltà di rinvenire il criterio di distinzione tra generale e speciale. Quello argomentato da Paladin dovrebbe condurre a fare argomentare la specialità di una norma dal confronto con le norme che regolano la classe dei rapporti comuni all’una ed alle altre, così da dirigere il giudizio di costituzionalità all’accertamento della validità della deroga apportata dalla prima, mentre nel caso di coesistenza di più norme tutte speciali il giudizio stesso sarebbe da desumere dai principi generali del sistema. Si può osservare come esso non elimini la difficoltà inerente alla determinazione della classe di rapporti cui è da ricondurre la norma speciale, data la complessità che i rapporti stessi possono presentare, tale da rendere arduo il farli rientrare, nella loro totalità, in una stessa classe; ma soprattutto non spiega perché quella stessa esigenza fatta valere per il secondo dei casi ora ricordati non possa riscontrarsi anche nei confronti di leggi tutte generali che risultino fra loro in contrasto».

377 MORTATI, Istituzioni, p.1028.

378 Si tratta della prerogativa dell’insindacabilità per le opinioni ed i voti espressi dal parlamentare

nell’esercizio delle sue funzioni e del riconoscimento della prerogativa dell’inviolabilità da parte della camera di appartenenza in riferimento a provvedimenti limitativi della libertà personale adottati nei confronti di un parlamentare, qualora si configuri il cosiddetto fumus persecutionis.

persona umana quale che sia la posizione da essa rivestita nella società380. Nessuno può, infatti, essere esentato dall’applicazione della legge in ragione dell’appartenenza ad una casta ad un ceto o ad un ordine. Dalla generica enunciazione del principio si passa quindi all’elencazione delle qualificazioni soggettive che alle amministrazioni ed ai giudici è vietato prendere in considerazione ai fini dell’applicazione della legge, così come al legislatore viene proibito di assumerle a fondamento di normative discriminatorie. In sede costituente tale previsione venne elaborata allo scopo di evitare il ripetersi delle gravi violazioni al principio di eguaglianza perpetrate dal regime fascista sulla base delle opinioni politiche, della fede religiosa e della presunta appartenenza ad una razza. Violazioni poste in essere in via legale in quanto lo Statuto Albertino non disponeva degli espliciti divieti in materia di discriminazioni fondate su posizioni soggettive, lasciando alla legge la disciplina di ogni tipo d’intervento limitativo della libertà personale.

In realtà, i divieti posti nel primo comma dell’articolo tre non devono essere intesi in senso assoluto, spesso, infatti, le posizioni soggettive sopra enunciate vengono utilizzate dal legislatore quale criterio per individuare delle categorie di soggetti a cui l’ordinamento accorda in via normativa delle forme di tutela. Il secondo comma dell’articolo, attribuendo alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana, prefigura una serie di interventi legislativi di tipo correttivo a favore di singoli gruppi sfavoriti nella realtà economica e sociale. Viene in tal modo postulata una legislazione orientata dalle condizioni personali e sociali che si pone come obiettivo la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale.

Un esempio è fornito dal criterio del sesso e dalle tutele accordate sulla base del dettato dell’articolo 37 Cost. per la donna madre.

Il rispetto del principio di eguaglianza davanti alla legge deve essere quindi assicurato anche in riferimento a tutte quelle disposizioni che si caratterizzano per la loro settorialità, riferendosi, come prima accennato, a cerchie di cittadini individuate per la loro appartenenza ad un determinato gruppo economico, sociale

o professionale. Cospicua è, infatti, la mole delle leggi di intervento economico, di organizzazione di pubblici servizi, di protezione di singole categorie sociali, leggi che prevedono diritti di prestazione a carico dello stato e degli altri enti pubblici381.

L’articolo 3 Cost. sancisce, dunque, dei divieti di distinzioni fondate sui criteri in esso menzionati qualora tali distinzioni risultino irragionevoli o arbitrarie, di contro devono essere considerate legittime, quelle ragionevolmente giustificate382. Secondo l’autorevole pensiero del Mortati, devono essere giudicate conformi al principio di eguaglianza le deroghe consentite da altre norme costituzionali, da considerazioni di fatto383 o da criteri attitudinali384.

2.3. L’ EGUAGLIANZA NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE